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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 2
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di Stefano Di Palma
Dauferio, conosciuto come l’abate Desiderio di Montecassino (1027-1087), è una figura di straordinaria importanza dello sviluppo storico e artistico del Meridione italiano; figlio dei duchi longobardi di Benevento, egli diventò monaco presso il monastero di Santa Sofia dove mutò il suo nome in quello di Desiderio. Nel 1058 fu chiamato alla guida del cenobio di Montecassino; nel 1059 divenne cardinale presbitero di Santa Cecilia in Trastevere e vicario papale nel sud della penisola, finché nel 1086 ascese al soglio pontificio – se pur brevemente per morte sopraggiunta – con il nome di Vittore III. In particolare due caratteristiche evidenziano l’attività di questo ecclesiastico: le capacità diplomatiche (egli è ricordato come mediatore nelle contese prima tra il papato e i Normanni e poi tra papa Gregorio VII e l’Impero) e la spiccata sensibilità artistica; quest’ultima trova riscontro nelle opere di sua committenza dove egli assolve, in qualità di abate di Montecassino, esigenze che sono contemporaneamente politiche, rappresentative e liturgiche.
Nei trent’anni in cui Desiderio è stato alla guida del monastero si è compiuto un grande sviluppo delle risorse materiali dell’abbazia; grazie alle cospicue donazioni di terre e chiese, devolute dall’aristocrazia longobarda e dai nuovi dominatori normanni, la Terra Sancti Benedicti ha raggiunto di fatto una notevole estensione. Questa particolare situazione di prosperità economica ha fornito i mezzi per la messa in opera di un’ambiziosa politica culturale perseguita anche grazie al contributo di alcune delle personalità più interessanti e colte del tempo in stretto contatto con Desiderio come attestano i casi del monaco Alberico e di Alfano vescovo di Salerno1.
Senza dimenticare la formazione di una grande biblioteca, da cui scaturì l’attività dello scriptorium cassinese, la cosiddetta “cultura/rinascenza desideriana” trova massima espressione (con ricadute in vari territori) nell’intensa attività edilizia dell’abate della quale la consacrazione della nuova abbaziale, nel 1071, rappresenta il principale raggiungimento. Con la ricostruzione dell’Abbazia di Montecassino i riferimenti culturali di Desiderio trovano chiara espressione, rivolgendosi verso le energie migliori tratte dall’offerta artistica del tempo. A tal riguardo si ricordano alcuni nodi essenziali delle scelte sostenute dal committente come: la chiamata di architetti lombardi e amalfitani per definire l’impianto architettonico dell’abbazia; la costruzione della chiesa sullo schema delle basiliche paleocristiane romane con l’uso di materiale di spoglio; la ricca decorazione affidata a mosaicisti costantinopolitani che, insieme alla profusione di materiali preziosi ed alla cospicua suppellettile liturgica, decodificano schiettamente il tono aulico che investe nelle intenzioni e nella pratica l’intera opera.
Dell’edificio e del suo ricco apparato, quasi completamente distrutto da un terremoto verificatosi a metà del Trecento e in seguito ricostruito sempre in forme diverse, rimangono, come è noto, pochi frammenti lapidei ispirati alla plastica altomedievale e a quella classica (si tratta per lo più di lastre marmoree con motivi geometrici e vegetali che incorniciavano le antiche porte d’ingresso e porzioni della decorazione)2 e, soprattutto, testimonianze scritte tra le quali spicca la Chronica.
Una proiezione della magnificenza dell’antica chiesa abbaziale di Montecassino ci è pervenuta nell’altra fondazione desideriana, ovvero la splendida chiesa di Sant’Angelo in Formis presso Capua, che ha conservato in gran parte la decorazione originaria. L’edificio s’innalza sul podio di un preesistente tempio dedicato a Diana e l’ancoraggio alla tradizione classica è ancora affermato dall’impianto basilicale (a tre navate con terminazioni absidate) dove sono utilizzate colonne e capitelli di spoglio; infine la decorazione a fresco, eseguita tra il 1072 e il 1078 circa, si collega a maestranze locali educate, per volere di Desiderio, sulla cultura bizantina.
Le scelte antichizzanti di Desiderio in campo architettonico e decorativo fanno della sua abbaziale un centro d’irradiazione del gusto e delle tendenze per certi versi già in atto da tempo e che si consumano in quello immediatamente successivo. Tali soluzioni ideative si propagano in un più ampio contesto territoriale – spesso in contatto con Montecassino – come attestano gli edifici che trovano grande ispirazione nel principale impianto benedettino (come accade, ad esempio, per la costruzione delle cattedrali di Salerno, Capua, Ravello, Amalfi, Calvi) oppure, nel segno di un gusto sperimentale, si ripropongono con declinazioni linguistiche locali (ad esempio, nelle chiese di San Liberatore alla Majella e di San Pietro ad Oratorium presso Capestrano)3.
A questo clima culturale appartengono anche le chiese oggetto di questo breve approfondimento. Occorre subito chiarire che, per l’odierno osservatore, si tratta di monumenti di non facile lettura che presentano molte difficoltà interpretative sulla cronologia, nonché stratificazioni architettoniche, che si riflettono sullo stile, appartenenti alle varie fasi in cui vi si è intervenuti. Inoltre entrambe le chiese ci sono pervenute con il bagaglio di una travagliata storia conservativa e gestionale e molte lacune, procurate dalla mancanza di documenti, sono colmabili oggi soltanto per via ipotetica. Nell’affrontare il tema, anche se non si deve ignorare la totalità di ciascun edificio, occorre dunque soffermarsi specialmente su alcune porzioni ed elementi strutturali che determinano il costruito nonché sui punti di contatto esistenti tra i due monumenti.
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La chiesa di Santa Maria della Libera
La precisa collocazione cronologica di questo vetusto monumento di Aquino risulta difficoltosa considerato che gli studiosi hanno indicato diverse datazioni – tra le quali si citano il 11274 ed il 11605 – basate su pochi documenti, sulle possibili identificazioni dei personaggi raffigurati nel mosaico che sovrasta il portale di accesso e su congetture non sempre plausibili. La prima menzione della chiesa è implicita in un documento di età carolingia dove si menziona il chierico Daniele che donò all’Abbazia di Montecassino tutte le sue proprietà site in terra di Aquino assieme ai suoi servi, eccetto un servo di nome Giovanni che egli aveva già reso libero dinanzi all’altare di Santa Maria chiesa eretta presso la città di Aquino6; non è escluso che da questa cerimonia di emancipazione derivi la denominazione di Santa Maria della Libera.
La chiesa si innalza a mezza costa su un pendio irregolare in un punto che anticamente era isolato dall’abitato. Odiernamente l’edificio è inglobato nel tessuto cittadino in un infelice raccordo urbanistico, ma nonostante ciò si impone da subito all’attenzione del visitatore per la bellezza e la semplicità che lo contraddistingue. Forse un tempo nel sito si trovava una necropoli i cui resti, insieme ai materiali ricavati dagli antichi edifici di Aquino, vengono incassati in più punti della chiesa; si tratta di tutti quei «rottami d’antichità», come li definisce Pasquale Cayro7, che certificano le ragioni di opportunità (Aquino come cava a cielo aperto) e di colta rappresentanza perseguite dai fautori della costruzione e che sottendono ad un particolare gusto artistico.
La ricercatezza insita in questa scelta determina, ad esempio, il tono aulico che connota il portale di accesso dove sono utilizzate come stipiti delle splendide lastre di età romana decorate con motivi vegetali; nonostante le misure irregolari (che permettono l’inserzione nello stipite di sinistra di una lastra che ricorda la riedificazione della chiesa) non si rinunciò ad assegnare ai frammenti un posto d’onore. Possiamo intendere questa disposizione dei materiali come una sorta di biglietto da visita consegnato dai costruttori alla storia dove si esibisce, da subito, il prestigio dell’antica Aquino riconquistato in chiave cristiana ed inscritto a perpetua memoria nel principale tempio dedicato alla Vergine nell’illustre città; del resto anche il lapicida medievale operante nello stipite superiore e nell’archivolto che accoglie un mosaico, si muove con un certo rispetto tentando di armonizzare il tutto.
Alcuni studiosi hanno compreso che l’odierna veste della chiesa presenta fasi cronologiche diverse; da ciò sono scaturite letture anche antitetiche, come quella di Cagiano De Azevedo che privilegiava una totale aderenza della Libera all’abbaziale desideriana non considerandone le trasformazioni successive8 sino ad arrivare ad una visione come quella di Jacobelli che intuì la non unitarietà dell’edificio intercettando le parti più antiche, pur escludendo erroneamente gli apporti innovativi della cultura desideriana9. Specialmente la cronologia che prevede la riedificazione dell’impianto entro il primo quarto del secolo XII, sostenuta da alcuni autori, non si allontana troppo dalla tempistica in cui poterono maturare i frutti delle innovazioni desideriane, ma anche la ricerca condotta da Giovanni Carbonara, il quale anticipa la datazione dei lavori, è meritevole di attenzione. Lo studioso illustra come l’impianto citato nel documento dell’827 (risalente probabilmente ad un momento felice per il territorio prima delle distruzioni saracene), sia stato rimaneggiato nella seconda metà del secolo XI; successivamente egli individua, nel periodo 1065-1090, i decenni di una relativa tranquillità nella terra di Aquino spesso battuta da epidemie, calamità naturali o in balia dei generali disordini politici. Particolarmente il ventennio 1070-1090 sarebbe stato utile alla concezione di un impianto in linea con il contemporaneo gusto benedettino. Come prova, occorre tener conto che la citata iscrizione leggibile nello stipite di sinistra del portale centrale, nella formula «AULA DEI GENITRIX INCHOATA MODERNA», allude schiettamente ad una ricostruzione volta a sostituire una precedente chiesa; tale riedificazione è visibile oggi in tutte quelle parti della chiesa che risultano aderenti al modello cassinese.
Le affinità rilevate tra i due edifici sono tante e ravvisabili in vari punti. Nella Libera all’odierno osservatore appaiono d’impronta desideriana principalmente: le tre navate culminanti in altrettante absidi; il profondo transetto continuo; il campanile con i suoi grossi blocchi squadrati di spoglio; la particolare distribuzione delle luci (pur rimaneggiate nelle aperture); l’arco trionfale che, assieme all’uso di cornici classicheggianti nelle testate del transetto e nella navata principale (ora perdute), richiamava alla mente la dignità di certa architettura paleocristiana di stampo romano. Anche l’apparecchio murario della scalinata di accesso e l’idea dell’atrio a tre fornici che, se pur frutto di un restauro ottocentesco, si sviluppa su tracce originali ricordano in forma ridotta l’imponente quadriportico cassinese; nel tempo si è conseguita un’ulteriore perdita d’identità dell’antico prospetto con l’eliminazione delle tre finestre di facciata (desunte ancora dal principale modello benedettino) e la loro sostituzione con un grande oculo centrale.
Le “difformità” rispetto al principale modello si riscontrano nel corpo delle navate con l’uso dei pilastri quadrangolari al posto di colonne di spoglio; questa soluzione, che si ritrova anche nella chiesa di San Domenico in Sora, rappresenta una variante conosciuta ed è segno di un gusto sperimentale per nulla succube ad una totale visione antichizzante.
Altre caratteristiche come quelle delle coperture, delle semicolonne addossate ai muri perimetrali e nelle corrispondenti facce dei pilastri sono il frutto di adeguamenti successivi (anche d’impronta cistercense) e recano un generale senso di “accomodamento” delle varie parti sul nucleo essenziale desideriano. Si tratta di risultati conseguiti nei secoli con ulteriori lavori e rifacimenti (ai quali si aggiungono ripetuti restauri) compiuti in un ampio arco temporale che corrisponde alla storia del monumento, ossia dal Medioevo al Novecento10. La conformazione della chiesa è frutto del potente raggio d’influenza di Montecassino; in sostanza l’edificio di Aquino è stato inquadrato come prodotto di alcune maestranze già attive nella vicina abbazia e ancora operative nel territorio all’indomani della conclusione del principale cantiere benedettino11.
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La chiesa di San Domenico
L’Abbazia di San Domenico è situata in una zona pianeggiante dove confluiscono i fiumi Liri e Fibreno, sul confine di Sora con Isola del Liri, in un punto dove nei pressi sorgeva la villa di Cicerone. Se dell’antico monastero benedettino – dunque dipendente da Montecassino – non è pervenuta alcuna rilevante testimonianza architettonica, la chiesa, dedicata a Santa Maria ma nota con il nome del suo fondatore, rappresenta il superstite monumento del primitivo nucleo cenobitico anche se pervenuta ai nostri giorni in forme altamente rimaneggiate12.
Ancora oggi risulta difficoltosa l’identificazione dell’anno di fondazione dell’intero complesso; plurisecolare e non del tutto chiuso è infatti il dibattito degli storici, (ben sintetizzato da Romina Rea in un articolo scritto in questa rivista al quale si rimanda)13, che prevede due schieramenti: il primo, tradizionale, indica l’anno 1011 mentre il secondo, per via deduttiva sulla base di alcuni documenti, indica la fondazione entro l’anno 1030. L’edificio di culto originario mostra una rielaborazione della tradizione paleocristiana visto che è costituito, come la Libera di Aquino, da un impianto basilicale diviso in tre navate ciascuna provvista di una propria abside. L’alzato presenta un apparecchio murario in grandi blocchi squadrati e nella cripta sono custodite le spoglie di san Domenico, benedettino morto il 22 gennaio del 1031. L’altra caratteristica comune all’edificio di Aquino, che immette in parte questa chiesa in una visione antichizzante aderente alle istanze del secolo XI, è data dalla cospicua presenza di materiali lapidei di età romana reimpiegati; anche in questo caso gli ideatori del progetto si guardarono intorno visto che non possiamo parlare di pezzi provenienti dall’Urbe, bensì dall’immediato circondario come la villa di Cicerone ed alcuni sepolcri un tempo ubicati nelle vicinanze; questi reperti si trovano in maggioranza incassati nei muri perimetrali della struttura, con una forte concentrazione nei portali e nella cripta14.
Quest’ultima è meritevole di una speciale attenzione visto che, se in generale la chiesa presenta delle varianti rispetto al modello cassinese specie nell’inserimento di pilastri, questo spazio sotterraneo può essere indicato come il fulcro generatore della progettazione; esso doveva prevedere una chiara impostazione del disegno dell’ambiente, indispensabile per onorare i resti mortali di un santo molto venerato (deceduto proprio in questa porzione della chiesa secondo una tarda tradizione volta, più che altro, a potenziarne la sacralità) e per consentire una coerente organizzazione volumetrica e spaziale dell’edificio intero.
Si tratta di una cripta “ad oratorio”, ossia un ambiente inferiore concepito non solo per accogliere la tomba del santo, ma come sala di raccolta e di preghiera dei fedeli. Lo sviluppo di questo spazio è aderente al presbiterio della chiesa superiore e presenta tre absidi di cui quella centrale è maggiore, nonché una sala ampia quanto il soprastante presbiterio, spartita da sedici colonne coeve e in materiale di spoglio che sorreggono delle volte in muratura concepite in una successione di tre campate longitudinali per sette trasversali.
Solo alcune delle chiese che rientrano nell’influenza culturale di Montecassino presentano una cripta al di sotto del presbiterio. Pochi esempi riguardano l’Abruzzo mentre un gruppo più ampio si delinea in Campania. Come è stato osservato la distribuzione, la tipologia e la cronologia delle cripte laziali è invece piuttosto discontinua; la maggior parte di esse si trova nel nord della regione, mentre nel sud gli esempi d’ispirazione schiettamente desideriana si limitano in San Domenico e nella Cattedrale di Anagni. Sono proprio le forti analogie spaziali delle due cripte ubicate nel frusinate che condensano la comune matrice paleocristiana rivisitata dalla cultura benedettina centro-meridionale segno che anche Pietro, vescovo di Anagni, subito dopo la conclusione e constatato il successo della principale fabbrica desideriana, applica nella costruzione della sua nuova cattedrale (sia nella cripta sia in altre porzioni dell’edificio) l’esperienza cassinese15.
Nel proseguire occorre fare qualche considerazione specifica ancora sulla scorta delle interessanti osservazioni di Giovanni Carbonara. La scansione della chiesa di San Domenico in tre navate è garantita dalla presenza di quattro robusti pilastri quadrangolari distribuiti per ciascun lato. Non sappiamo se questi pilastri risalgano alla prima progettazione dell’edificio, e ci si è interrogati (come nel caso della chiesa della Libera) sui motivi della messa in opera di una simile soluzione strutturale a differenza, ad esempio, di un utilizzo di sostegni in materiale di spoglio. Si è anche ipotizzato che due colonne presso i pilastri dell’attuale incrocio segnassero, come a Montecassino, forse l’antico arco trionfale; inoltre anche il transetto fu concepito probabilmente come continuo e si avvicina saldamente a quello dell’abbaziale desideriana. Forse in quei tempi il prospetto della chiesa presentava anche un portico, come sembrerebbe suggerire la presenza dell’unico pilastro ancora oggi in situ, ma tradizionalmente indicato come parte dei lavori promossi dai Cistercensi di Casamari che dal 1222 sostituirono i benedettini nella conduzione del monastero sorano.
Sulla base di queste evidenze si è pensato di collocare l’edificio di Sora nella famiglia delle chiese desideriane in una cronologia più avanzata rispetto a quella finora considerata a causa della fondazione, ossia come quantomeno ricostruito nell’ultimo quarto del secolo XI. Si tratterrebbe dunque di una soluzione architettonica intermedia e sperimentale tra il modello costituito dalla rinnovata abbaziale cassinese e le chiese benedettine a pilastri, delle quali, pur nelle differenze, il più alto esempio è ravvisabile nella chiesa di San Liberatore alla Majella16 e che si ripresenta anche in Santa Maria della Libera.
È stato anche evidenziato, giustamente, che nella chiesa sorana sussistono elementi decorativi tratti dal linguaggio del romanico lombardo. Si tratta di circoscritte presenze (come le finestre a ruota e soprattutto le decorazioni esterne delle absidi ritmate da archetti su peducci) che non caratterizzano in modo determinante il costruito, ma denunciano la vasta diffusione del gusto padano che qui si incontra con istanze architettoniche più tradizionali17. Ci è mostrato così come i benedettini costruttori della chiesa di San Domenico si siano cautamente aperti verso l’idioma lombardo; inoltre, se si ricolloca la cronologia di costruzione verso lo scadere del secolo XI come suggerito da Carbonara, non può essere dimenticata la di poco precedente chiamata di architetti lombardi da parte di Desiderio per la sua Abbazia. Questo dato certifica l’avvenuto incontro tra due culture architettoniche (specchio della già ricordata migliore offerta artistica del tempo) e fa supporre una penetrazione più diretta nel territorio del gusto lombardo. Infine, con una certa cautela, alcuni fatti storici risalenti alla seconda metà del secolo XI potrebbero trovare una nuova lettura a supporto di un intervento in San Domenico in una cronologia più avanzata, con grande ed ovvia influenza cassinese: sono le ragioni del culto e dell’accresciuta devozione che impongono questa considerazione. Un avvenimento importante è quello del 1060, quando vi fu una ricognizione dei resti del venerato Domenico dove si verificò un evento prodigioso alla presenza di Leone vescovo di Gaeta; tra gli anni sessanta e settanta del secolo XI invece si espleta un nuovo interesse verso il non ancora canonizzato Domenico. In quel tempo il colto Alberico di Montecassino sente l’esigenza di redigere una nuova biografia del benedettino (spia dell’interesse da parte di Montecassino di veicolare il culto) dove, non a caso, si frena la costruzione del “mito” di Domenico (volta ad esaltare le sue doti taumaturgiche e avviata negli scritti precedenti che lo riguardano, nonché dalla tradizione orale più vicina alla percezione del popolo) e dove si pone particolare accento sull’osservanza della disciplina monastica compiuta in vita dall’intercessore18. L’apice in cui questi fermenti cultuali collimano con il definitivo assetto della chiesa che si può ritenere raggiunto entro l’appuntamento del 22 agosto 1104, quando papa Pasquale II giunge a Sora per rendere omaggio alle spoglie del benedettino e nell’occasione dedica la chiesa in onore di Santa Maria, conservando il primo titolo, e a San Domenico, che eleva così agli onori degli altari in segno di approvazione dell’unanime consenso manifestato dal popolo nel corso del tempo.
Alla luce delle evidenze sul costruito e di questi avvenimenti diviene così interessante ipotizzare una concreta stabilizzazione della devozione verso il santo parallela alla decodificazione definitiva del luogo di culto con una soluzione intermedia e sperimentale (affine per molti versi a quella adottata in Santa Maria della Libera di Aquino), quantomeno nella seconda metà del secolo XI e con una forte spinta verso gli ultimi decenni: si tratterebbe dunque di un’operazione a vario livello eseguita in toto sotto la regia di Montecassino.
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NOTE
1 C. Colotto, voce Vittore III, beato, in Enciclopedia dei Papi, Treccani, Roma 2000, pp. 217-221.
2 I. Bove, La scultura a Montecassino tra XI e XIV secolo, in Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, 70, III serie, Anno XXXVIII, Serra Editore, Pisa-Roma 2015, pp. 13-78.
3 F. Gandolfo, Montecassino la Campania e l’Abruzzo, in A. M. Romanini, L’Arte Medievale in Italia, Sansoni Editore, Milano 2002, pp. 337-339.
4 R. Bonanni, Ricerche per la storia di Aquino, P. A. Isola Editore, Alatri 1922, p. 45.
5 Il Cayro non si esprime circa la data ma associa arbitrariamente una donna citata come Ottolina dell’Isola in un documento del 1160 con l’omonima donna ritratta nel mosaico del portale della chiesa della Libera. Cfr. P. Cayro, Storia sacra e profana d’Aquino e della sua diocesi, II, Napoli 1811, Ristampa a cura dell’Associazione archeologica di Pontecorvo (da cui si cita), p. 26.
6 La precisa collocazione del documento è citata in G. Carbonara, Iussu Desiderii Montecassino e l’architettura campano-abruzzese nell’XI secolo, edizione aggiornata Ginevra Bentivoglio Editori, Roma 2014, p. 108, nota 33.
7 P. Cayro, Storia sacra … cit., p. 25.
8 M. Cagiano De Azevedo, La chiesa di Santa Maria della Libera in Aquino, in «Rivista del R. Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte», VIII, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1941.
9 M. Jacobelli, Gli enigmi della chiesa della Libera di Aquino, Edizione della Rivista «La voce di Aquino», 1973, p. 12.
10 Particolarmente cfr. P. Fortini, I restauri ottocenteschi alla chiesa della Madonna della Libera ad Aquino, in «Rivista Cistercense», XI, 3, 1994, pp. 227-254; G. Carbonara, Santa Maria della Libera ad Aquino, con un saggio di Michelangelo Cagiano De Azevedo, a cura di Faustino Avagliano, Biblioteca del Lazio Meridionale, Fonti e ricerche sul territorio dell’antica Diocesi di Aquino, 1, Montecassino 2000; C. Jadecola, La “Libera” di Aquino, Biblioteca del Lazio Meridionale, Fonti e ricerche sul territorio dell’antica Diocesi di Aquino, 3, Montecassino 2000.
11 G. Carbonara, Iussu Desideri … cit., p. 95.
12 Sulla chiesa cfr. F. Rondinini, Monasterii Sanctae Mariae et Sanctorum Johannis et Pauli de Casaemario brevis historia, Roma 1707, pp. 53-55; L. Tosti, Della vita di S. Domenico Abate con l’appendice dei restauri e seconda consacrazione della chiesa presso la città di Sora, s.l. 1877, pp. 1-27 dell’appendice; M. Cassoni, Sguardo storico sull’abbazia di S. Domenico di Sora, Sora 1910; L. Loffredo, S. Domenico di Sora e i luoghi natale di Cicerone, Casamari 1981; R. Marta – E. M. Beranger, L’Abbazia di S. Domenico in Sora, in Tra le abbazie del Lazio, a cura di R. Lefevre, “Lunario Romano”, XVI, Roma 1987, pp. 193-195; M. Giorgetti, Nuovi contributi per lo studio dei restauri nell’abbazia di S. Domenico presso Sora, in «Rivista Cistercense», 1992, 3, pp. 319-328.
13 Cfr. R. Rea, L’Abbazia di San Domenico di Sora, in «Studi Cassinati», a. XI, n. 2, aprile-giugno 2011, pp. 116-123.
14 A. Tanzilli, Antica topografia di Sora e del suo territorio, Tip. Pisani, Isola del Liri 1982, pp. 67-96.
15 D. Fiorani, La cripta e la cattedrale: annotazioni sull’architettura, in Un universo di simboli. Gli affreschi della cripta nella cattedrale di Anagni, a cura di G. Giammaria, Viella, Roma 2001, pp. 9-22.
16 G. Carbonara, Iussu Desideri … cit., pp. 103-104.
17 R. Marta – E. M. Beranger, L’Abbazia di S. Domenico … cit., pp. 193-195.
18 Cfr. A. Lentini, La “Vita S. Dominici” di Alberico cassinese, in «Benedictina», V, 1951, pp. 57-77; A. Lentini, S. Domenico sorano e Montecassino, in «Benedictina», V, 1951, pp. 185-199; S. Boesch Gajano, Santità di vita, sacralità dei luoghi. Aspetti della tradizione agiografica di Domenico di Sora, in Scritti in onore di Filippo Caraffa, Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale, 1986, pp. 187-204; S. Di Palma, Imago Sancti Dominici Abbatis. Prime ricerche in ambito laziale, Edizioni Casamari, Isola del Liri 2011, pp. 21-22.
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