Presentazione del volume Il diario perduto: le ragioni di John e Franz.

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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 2
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20 Cassino1Giovedì 31 maggio 2017 alle ore 17 presso la Biblioteca Comunale «Pietro Malatesta» di Cassino è stato presentato il volume di Francesco Venditti Il diario perduto: le ragioni di John e Franz da parte del prof. Silvano Franco, docente di Storia contemporanea dell’Università degli Studi di Cassino che ha firmato la Prefazione, di Gaetano de Angelis-Curtis, presidente del Cdsc-Onlus, dell’arch. Maurizio Zambardi, presidente dell’Associazione culturale «Ad Flexum» di San Pietro Infine, con il coordinamento del prof. Gianni D’Orefice e il saluto introduttivo del sindaco di Cassino, ing. Carlo Maria D’Alessandro.

Venditti Francesco, Il diario perduto: le ragioni di John e Franz, Grafiche Zaccara, Lagonegro (Pz) 2018, pagg. 284, illustr. col. e b./n.; f.to cm. 14,8×21

Il diario perduto: le ragioni di John e Franz è un romanzo storico che segue parte delle vicende militari di Giovanni Amato, sergente dell’Esercito. Difatti l’autore, il giovane Francesco Venditti, ci tiene a precisare fin dalle prime pagine che si tratta di una storia romanzata, «ispirata dal ritrovamento di un logoro Diario di guerra originale del 1942-44», scritto dal bisnonno Giovanni Amato. Dunque è un romanzo storico per cui vanno tenuti in considerazione, di volta in volta, gli aspetti storici presenti nel Diario da Giovanni Amato (scritto su 134 paginette di un taccuino opportunamente riportate in appendice al volume) e gli aspetti letterari più propriamente connessi al romanzo e che, ovviamente, sono meno attinenti alla realtà e più alla fantasia.

Il sergente Giovanni Amato, originario di S. Pietro Infine, fu un militare che combatté nella Seconda guerra mondiale sul fronte greco e, dopo l’8 settembre 1943, nel sud Italia. Aveva raggiunto la Grecia nell’estate 1943 percorrendo in treno (una tradotta per carri bestiame) i Balcani, passando per Lubiana e la Slovenia, Belgrado e la Croazia («terra maledetta e molto pericolosa» anche se la capitale gli apparve una città «molto bella»), la Serbia («terra molto brutta, [dai] monti alti e senza alberi, … cimiteri all’aperto e senza recinto e senza cappelle»), l’Albania («terra discreta»), la Bulgaria («terra bellissima e fertile di tutte le cose») e la Macedonia. Giunto ad Atene fu destinato nell’isola a Cefalonia dove trascorre due mesi in una situazione di relativa calma tra allarmi rientrati, pattugliamenti, terremoto, notti all’addiaccio, timori per le sorti dell’Italia.

P20 Cassino2rima che divampasse la battaglia a Cefalonia, Giovanni Amato si trovava nei pressi del porto di Fiskardo dove erano ormeggiati quattro dragamine. I militari italiani erano a conoscenza dell’ordine impartito dal comando italiano ad Atene di continuare a combattere a fianco dei tedeschi. Tuttavia l’equipaggio delle navi volle prendere il largo e scappare in Italia. Anche Giovanni Amato e un gruppetto di commilitoni, formato dal comandante di presidio e ad altri 19 soldati, si imbarcarono e dopo due giorni e due notti di navigazione, con una mare eccezionalmente calmo, senza incontrare aerei o sommergibili alleati o tedeschi, riuscirono a raggiungere Crotone, ma considerate le difficoltà per entrare nel porto dovute alle mine poste dai tedeschi, si diressero a Taranto dove sbarcarono il 13 settembre 1943. Attraverso la radio vennero a conoscenza del cruento destino dei soldati della Divisione Acqui a Cefalonia. Parimenti Giovanni Amato seguì l’andamento del fronte di guerra in avvicinamento a S. Pietro, con la liberazione di Capua, di Cancello Arnone, di Pignataro Maggiore, di Rocca Romana, di Mignano, i combattimenti che si svolgevano sulle colline circostanti il suo paese d’origine, «belle verdeggianti» in tempo di pace, fino a dieci metri da casa sua dove riteneva si trovassero ancora i suoi familiari, rifugiati in qualche grotta lì vicino, e poi la conquista del «caposaldo» di S. Vittore.

20 Cassinoi3Ripresosi da un forte attacco di febbri malariche, riuscì a farsi concedere, dopo vari tentativi, una licenza e tra varie peripezie, in treno, a piedi, in macchina, finalmente giunse in paese e trovò una situazione desolante, «distrutto tutto, il paese raso la suolo, le piante tutte diroccate, era un orrore a guardare quel disastro». A S. Pietro non trovò nessun componente della famiglia perché tutti erano stati sfollati dai tedeschi. Attese invano il ritorno dei familiari, potendo beneficiare del prolungamento della sua licenza in seguito alla visita fatta il 29 gennaio 1944 a S. Pietro dal principe Umberto, poi però dovette rientrare a Brindisi. Di lì a poco giunse il congedo militare ma non terminarono le sue peripezie e disavventure. Raggiunta Napoli e poi Caserta fu fermato dalla polizia inglese a Campozillone e, trovato sprovvisto di permesso, fu rinchiuso in carcere a Mignano dove trascorse il giorno di Pasqua potendo contare solo sulla solidarietà della madre di un compaesano, anch’egli in stato di arresto, che aveva portato qualcosa da mangiare per il figlio. Il 10 aprile fu liberato e in tal modo «finì la [sua] vita militare».

Il romanzo si apre con un primo capitolo che sulle prime sembra totalmente avulso dalla narrazione successiva fino a che solo nelle pagine finali si fa chiarezza di quello strano esordio.

La trama si sviluppa attraverso il racconto che un uomo di S. Pietro Infine, in punta di morte, fa a due suoi nipoti, partendo dalla fuga di un militare, un sergente dell’Esercito italiano, da Fiskardo, una spiaggia dell’sola di Cefalonia, quella stessa da dove il vero Giovanni Amato era riuscito a fuggire prima che i tedeschi avessero la meglio sul contingente italiano.

Gli elementi in comune tra realtà del Diario e finzione del romanzo appartengono quasi tutti al mondo militare del vero Giovanni Amato: il grado, sergente, e l’appartenenza all’Esercito italiano; l’isola di Cefalonia e la fuga via mare da Fiskardo con la traversata dell’Adriatico; la risalita del territorio italiano fino a S. Pietro Infine; i commilitoni siciliani; le lettere. Altro aspetto comune tra l’Amato del Diario e l’Amato protagonista del romanzo è quello relativo ai sogni (anche se l’onirismo, sia come sogni ricorrenti che come incubi, è presente anche in altri protagonisti del romanzo). L’Amato del Diario racconta il «bellissimo sogno» fatto nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1943 mentre era a Cefalonia (la licenza militare con il ritorno a casa dove poteva riabbracciare il padre, la madre, i figli e la moglie che però svanisce) e l’interpretazione fatta un suo commilitone (bacio = tradimento; paese = viaggio; madre = sicurezza) e un altro sogno della notte successiva, quella del 16 agosto (il padre, il fratello che tentava di abbracciare ma svaniva, i soldati in partenza). Anche l’Amato del romanzo è soggetto a sogni «strani» e ricorrenti, a incubi che vengono interpretati dal contadino siciliano Mariano.

Elemento caratterizzante e comune dei protagonisti è il loro instabile equilibrio mentale. Ci sono i buoni e i cattivi, anche se in quest’ultima categoria alcuni dei personaggi riescono anche redimersi. La maggior parte dei buoni sono italiani: il caporal maggior Gargiullo, il sergente Amato, oltre al gruppo di siciliani che si era fatto giustizia da sé; ma anche il neozelandese Hare, cioè il maori Te kaipanui. Invece i cattivi per la maggior parte sono stranieri: il colonnello tedesco, «der exzentrische Oberst» il «colonnello eccentrico», ossessionato dai ricordi è uno «psicopatico» a un passo dalla pazzia che va in guerra abbigliato come uno scozzese, quasi alcolizzato, privo di sonno o in preda a visioni e incubi, morto suicida ultra novantenne nel bunker della sua casa di Monaco di Baviera strozzandosi mentre tentava di ingoiare venti lettere (19 degli anni della seconda guerra mondiale e una ventesima, quella poi fatale, ricevuta poco prima della morte) che poi è tutto l’architrave su cui ruota il romanzo; il capitano francese Dupont, comandante di un contingente di soldati coloniali nordafricani, il quale risale la penisola a cavallo ed è affetto da un «delirante sadismo», non è uno stupratore come i “marocchini” ma un torturatore fino alla morte; l’indiano nativo americano, primo caporale John Roosewelt, meticcio di padre ebreo inglese e di madre indiana della tribù Kiowa (Oklahoma), anch’egli preda delle visioni, combatte con un odio furibondo nei confronti dei nazisti provocato dal fatto che un uomo con una svastica al collo aveva ucciso la promessa sposa (Wachiwi) in terra americana, la sua avversione, però, a un certo punto si spegne quasi di colpo e svanisce «grazie all’innocenza di un bambino»; al pari tenta di redimersi anche il tenente Franz Pfeiffer un omosessuale che vive di sensi di colpa, tra allucinazioni e visioni, a causa della sua vigliaccheria per non aver nemmeno provato a salvare il suo amico slavo o un suo commilitone al fronte e che tenta il riscatto cercando di proteggere il piccolo Carmine, figlio di Giovanni, oppure cercando di evitare il massacro di civili sampietresi.

Al di là di qualche lieve, inevitabile, modifica nella ricostruzione storica degli avvenimenti, con aspetti legati più alla fantasia che alla realtà, e non può essere altrimenti per un romanzo storico, il racconto si caratterizza per freschezza, vivacità, scorrevolezza che conferisce una narrazione appassionante, avvincente e coinvolgente. Meriti che si amplificano tenendo conto della giovane età dell’autore che ha dimostrato di possedere una buona preparazione linguistica, una fervida fantasia e, al tempo stesso, una solida preparazione storico-geografica andando ad approfondire lo studio dei temi trattati nonché a visitare i luoghi nei quali è ambientato il romanzo (gdac).

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