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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 3
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di Francesco Di Traglia
INTRODUZIONE
In una serie di scritti relativi alla storia di Pontecorvo prodotti dagli anni ‘60 ad oggi, più volte vengono menzionati i fratelli Petronzio da Portici, stanziatisi nel territorio dell’odierna Cassino, autori non altrimenti identificati di pregevoli statue presenti nella città fluviale. Nella maggioranza dei casi le testimonianze che attribuiscono la paternità delle opere sono frutto di trasmissione orale e ricordi personali degli autori, solo occasionalmente si fa riferimento a documenti scritti che oggi, purtroppo, non sono pervenuti1.
Le opere di sicura attribuzione ai Petronzio sono quattro e sono la Madonna della Libera, la Madonna di Monte Leuci, la Madonna delle Grazie e S. Oliva [figg. 1-4].
Il terminus post quem per la loro realizzazione è l’apparizione della Vergine avvenuta l’8 giugno 1723 in seguito alla quale venne appunto realizzata la statua della Madonna della Libera da venerare nell’omonima chiesa sulla sponda destra del Liri. Stando alle riflessioni di De Bernardis la statua della Madonna delle Grazie sarebbe successiva in quanto il santuario pontecorvese in cui ancora oggi l’immagine è venerata sarebbe stato in principio dedicato a S. Vincenzo diacono proprio nell’anno dell’apparizione e solo in un secondo momento alla Madre di Dio. Delle quattro statue la più recente sembra essere quella di S. Oliva anche per la posizione decentrata della frazione rispetto alla città di Pontecorvo. Se vera questa ipotesi, questa scultura ci fornisce il terminus ante quem per la realizzazione delle quattro opere. Infatti, in una nota d’archivio redatta dall’abate Antonio Pagani (a S. Oliva dal 1840 al 1903) si legge:
«In quest’anno 1893. Per il flagello della siccità ne’ mesi di Marzo Aprile, che le biade erano a divenir fieno, s’intimavano Processioni di penitenza e far ricorso a Dio, e a Maria SS.ma per tutti i paesi; fu portata la Statua di S. Oliva processionalmente in Pontecorvo fino a S. Giovanni di Melfi; e si ebbe la grazia della pioggia, e i grani, e tutte le biade vivificarono con mirabile abbondanza. Viva Gesù Viva Maria…»2.
Ma un’altra notizia, questa volta indiretta, restringe ulteriormente l’arco temporale: Pasquale Cayro ci informa che nell’antica chiesa di S. Oliva risalente almeno al 1748 (anno di una pianta topografica conservata nel catasto pontificio, nell’Archivio di Stato di Frosinone)3 esistevano due altari: «…de’ quali il Maggiore è del Sacramento, e l’altro a Sant’Oliva dedicato»4.
Essendo l’opera del Cayro risalente al 1808/1811 possiamo ipotizzare che già all’epoca fosse presente la statua della santa nell’altare ad essa dedicato, databile così alla prima metà del Settecento, stando alle informazioni relative alla carta topografica. Allo stesso modo le altre tre opere degli scultori napoletani possono ritenersi della stessa epoca compresa tra il 1723 e il 1748 e sarebbero le più antiche realizzate dalla famiglia Petronzio nella zona. Ad esse andrebbero associate, per la profonda affinità stilistica, anche le statue presenti nella zona di Monticelli, frazione di Esperia, rappresentanti S. Marco nella chiesa di S. Maria Maggiore, la Madonna della Valle e la Madonna di Monte Vetro nelle chiese omonime.
A una fase successiva apparterrebbero invece le opere presenti a S. Giovanni Incarico. Qui già dal 1803 è attestata la presenza di Giovanni (1770-1848) e Francesco Petronzio (1778?-1847). In particolare, Francesco attese alla realizzazione di affreschi nella biblioteca di Montecassino (1825 ca.), al restauro dell’Assunta di Cassino (1837) e alla creazione della Madonna bianca di Canneto (1842)5.
Figlio di Francesco fu Giuseppe (1806/9 – post. 1868) a cui si devono due opere di sicura attribuzione presenti nella chiesa, un San Michele (1868) [fig. 5], un S. Antonio (1868)6 [fig. 6]. Altre opere scultoree lì conservate presentano elementi riconducibili all’attività dell’artista o della bottega. Ed ė proprio all’attività di bottega che è opportuno dedicarsi per cercare di identificare eventuali collaborazioni nella realizzazione delle opere di incerta attribuzione.
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IL RUOLO DELLA BOTTEGA
Da tempi antichissimi la bottega ha rivestito un ruolo centrale per la creazione artistica, non solo come spazio fisico dedicato alla produzione ma anche – e soprattutto – come luogo dell’apprendistato e della formazione. La sua struttura, fortemente gerarchica, ruota attorno alla figura del maestro che è l’ideatore delle immagini e il detentore dello stile. Accanto a lui una cerchia più o meno ristretta di apprendisti e assistenti svolge ruoli diversi a seconda del grado di competenza raggiunto. Quello più basso era destinato ad operazioni manuali quali la preparazione dei supporti, delle mestiche, delle imprimiture, quelli successivi erano relativi alla sbozzatura delle opere, al riporto dal modello eseguito dal maestro o dei cartoni nel caso di opere pittoriche, alla realizzazione di parti secondarie dei lavori. La rifinitura e la realizzazione di elementi principali era invece destinata alla mano del maestro che imprimeva il suo stile alle opere. Una tale organizzazione permetteva di raggiungere una notevole rapidità esecutiva per rispondere in maniera adeguata alla committenza.
Il contesto della bottega ci permette di circoscrivere ulteriormente l’attività della famiglia Petronzio. In un’epoca in cui in Europa le spinte propulsive del Neoclassicismo e ancor più del Romanticismo definiscono la nuova figura dell’artista solitario e per lo più rivolto a temi storico-mitologici, intimisti, laici e realisti, i Petronzio continuano a perpetuare la tradizione secolare della scultura sacra in legno. Una tale scelta ci permette di individuare una committenza specifica, quella ecclesiastica, prevalentemente di provincia, che chiedeva ai maestri opere destinate al culto, facilmente trasportabili per le processioni. Il marmo, materiale aulico per eccellenza, era evidentemente riservato ad altro tipo di committenza e destinazione come ad esempio accade per le opere coeve di Gaetano Salomone (attivo a Napoli dal 1757 al 1789) destinate alla decorazione della Reggia di Caserta. La lavorazione del legno, inoltre, è di gran lunga più veloce ed economica, oltreché per forza di cose di medie dimensioni, permettendo di far fronte alle richieste di un pubblico sempre più vasto come dimostra la diffusione dell’opera dei Petronzio nell’Italia centro meridionale.
Un aspetto tecnico, la policromia, ci permette di definire le caratteristiche del fruitore cui le opere si rivolgono. È noto che fin dall’antichità le sculture erano dipinte, anche quando il materiale usato era il marmo o il bronzo. La nostra percezione del mondo classico è fortemente deformata dalla visione cinquecentesca e neoclassica del mondo antico: i ritrovamenti delle sculture greche e romane ormai prive dei pigmenti originari crearono l’illusione negli artisti che il mondo greco-romano si esprimesse nelle opere plastiche e architettoniche senza l’uso del colore. Le grandi sculture rinascimentali e successive si basarono quindi esclusivamente sulla composizione dei volumi e sugli effetti del chiaroscuro che la luce creava sulle superfici. L’abbinamento pittura-scultura, che pure ebbe numeroso e illustre seguito anche in epoca moderna, venne considerato anticlassico e perciò non colto, o meglio, rivolto ad un pubblico non colto7. Il colore, secondo i critici dell’epoca come Vasari, doveva sopperire anche alle manchevolezze del legno, non in grado di paragonarsi alla “carnosità e morbidezza” di bronzo e marmo, ovvero alla loro capacità mimetica. Inoltre, «la nuova fioritura della scultura lignea policromata tra Cinquecento e Seicento si spiega con le esigenze di persuasione e di propaganda, a livello popolare, della religione cattolica della Controriforma, che favorisce uno stile naturalistico, ricco di verità e di illusionismo teatrale e perciò perfettamente integrato con la pittura»8. La tradizione ripresa dalle statue policrome dei fratelli Petronzio è quindi destinata essenzialmente al grande pubblico, in un’ottica di divulgazione dei modelli aulici di riferimento9.
Queste riflessioni ci portano a considerare l’ambiente entro cui si formarono gli artisti della famiglia Petronzio, di cultura profondissima, ma certamente conservativo anche per la posizione geografica decentrata, non ignaro dei grandi dibattiti artistici delle epoche precedenti, come si vedrà nel paragrafo successivo.
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STILEMI E RIFERIMENTI ICONOGRAFICI
Il cospicuo numero di opere che la famiglia Petronzio ci ha lasciato permette un’analisi comparativa che, pur non colmando le numerose lacune dovute all’assenza di documenti, può aiutare a far luce sulle diverse personalità operanti nelle botteghe. È possibile innanzi tutto riscontrare precisi stilemi presenti nelle sculture e accanto ad essi chiari riferimenti iconografici alla base delle opere pervenuteci.
Un nutrito gruppo di lavori presenta atteggiamenti ricorrenti nella distribuzione dei pesi (ponderazione), come accade per la presenza di una gamba portante (quella su cui poggia il corpo), l’innalzamento e lo spostamento in fuori del bacino in corrispondenza di essa (hanchement) e una gamba arretrata che innesca un senso di torsione nella scultura. Se la gamba portante è una diretta conseguenza classica, l’hanchement è di derivazione gotica; entrambi gli elementi furono ripresi ed estremizzati in senso dinamico nel Manierismo tramite il contrapposto (torsione opposta delle diverse parti del corpo) arrivando fino al Barocco. Nella parte superiore, la maggior parte delle opere presenta una mano portata al petto e l’altra divaricata lateralmente. Questi movimenti contemporanei enfatizzano ulteriormente la rotazione innescata dall’arretramento della gamba non portante suggerendo un incedere deciso e aggraziato delle immagini verso l’osservatore. Possiamo definire il movimento appena descritto come uno stilema presente in opere pontecorvesi come la Madonna delle Grazie [fig. 3] e S. Oliva e nel S. Rocco e l’Assunta di S. Giovanni Incarico. Anche in opere presenti a Monticelli, si riscontra lo stesso elemento come nel caso di S. Marco, della Madonna della Valle e della Madonna di Monte Vetro, anch’esse con molta probabilità ricollegabili all’attività dei Petronzio. Il movimento della mano verso il petto è utilizzato talvolta dagli autori anche per caratterizzare i personaggi: la mano della Madonna delle Grazie (Pontecorvo) ė portata al seno scoperto per allattare il Bambino a simboleggiare la grazia donata agli stessi fedeli, quella di S. Marco (Monticelli) è rappresentata nell’atto di scrivere l’incipit del suo vangelo; allo stesso modo, la sinistra del S. Antonio (S. Giovanni Incarico) [fig. 6] regge un libro. Si può notare dalla descrizione appena proposta che da un unico modello evidentemente ideato dal maestro di bottega – o mutuato da uno aulico preesistente – si siano realizzate varianti facilmente adattabili alle diverse esigenze della committenza con una certa tendenza alla standardizzazione. Le opere che presentano gli elementi suddetti sono in diretto riferimento ai modelli napoletani dei Petronzio, in particolare al già citato Gaetano Salomone e a Giacomo Colombo (1663 – 1731) noti scultori settecenteschi. Si noti, ad esempio, la straordinaria affinità che intercorre tra la sua Immacolata (1718) [fig. 7] e l’immagine di S. Oliva (Pontecorvo) [fig. 4]. Sempre all’ambiente napoletano è riconducibile il modello del busto di S. Giovanni [fig. 8] nella chiesa omonima che vede chiari riferimenti nei lavori dello scultore Nicola Fumo (1647-1725).
Altre opere, invece, guardano a maestri diversi. È il caso del S. Michele (S. Giovanni Incarico) [fig. 5] e dell’Assunta (Circello) [fig. 9], entrambe di Giuseppe Petronzio. In esse il modello è cinquecentesco; per la prima l’idea originaria è da ricercarsi nel S. Michele e il drago [fig. 10] di Raffaello arrivato fino all’attenzione dell’artista sangiovannese attraverso le mediazioni secentesche di Luca Giordano (1634-1705)10. Per la seconda il modello è il Tiziano dell’Assunzione di Maria dei Frari a Venezia, come già evidenziato da Miele11. I numerosi e colti modelli di riferimento più volte utilizzati da artisti di diversa estrazione culturale e geografica ebbero larga diffusione nel corso dei secoli anche grazie alle stampe di traduzione che permettevano di costruire un vero e proprio museo immaginario da utilizzare e riadattare a seconda delle necessità senza obbligatoriamente presupporre una visione diretta delle opere originali. È necessario evidenziare che l’operazione di rilettura e traduzione dei modelli risente inevitabilmente di un processo di semplificazione sia dovuto alla decontestualizzazione dell’opera originaria, sia ai limiti imposti dalle immagini riprodotte12.
Data la media dimensione delle figure, spesso alla base gli artisti utilizzano elementi strutturali che permettono di slanciare i soggetti verso l’alto e per creare una sorta di drammatizzazione o una eco scenografica; questi elementi possono variare a seconda del soggetto ma in termini generali presentano poche semplici varianti: nuvole con angeli, globo, diavoli e fiamme. Ancora una volta il riferimento è al gusto barocco che moltiplica i punti di visione, gareggia con la mutevolezza della materia e crea effetti scenografici.
Altro elemento ricorrente nelle opere dei Petronzio è l’atteggiamento umano delle immagini, il loro sorriso appena accennato ma non astratto, spontaneo e colloquiale, occasionalmente pietistico, che unito al cromatismo di cui già si è trattato permettono di collegare le sculture lignee alla grande tradizione presepiale napoletana che raggiunse l’apice proprio nel Settecento13. È questa un’altra spia del rapporto con la committenza e della fruizione prevalentemente popolare sopra menzionata.
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TENTATIVI DI ATTRIBUZIONE
Gli elementi fin qui emersi possono già aver indicato al lettore un possibile scenario relativo alle attribuzioni delle opere. La carenza di fonti attendibili più volte lamentata nel corso di queste pagine non deve tuttavia impedire di proporre delle ipotesi. Di certo, a rendere più problematica la questione, intervengono le scarne notizie biografiche relative agli autori e, ancor di più, l’impossibilità di identificare ulteriori familiari appartenenti ai Petronzio. Di sicuro l’elevato numero delle opere e la grande diffusione documentata fanno pensare a molti più artisti di quelli fin qui menzionati. Occorrerà quindi basarsi sui diversi gruppi di opere per individuare, se non altro, la presenza di diverse menti e mani, per lo più anonime, che le produssero.
Tirando le somme, un primo gruppo, certamente il più antico, è quello relativo alle opere di Pontecorvo e Monticelli attribuite ai Fratelli Petronzio da Portici, risalenti agli anni 1723-1748. Esse sono:
- Madonna della Libera (a ridosso del 1723)
- Madonna delle Grazie (di poco successiva alla precedente)
- Madonna di Monte Leuci
- S. Oliva (di S. Oliva, frazione di Pontecorvo, probabilmente la più recente)
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A queste vanno aggiunte le statue di Monticelli per affinità stilistica, ma non documentate neanche da tradizione orale di cui, allo stato attuale è impossibile tentare una datazione relativa:
- S. Marco (forse anteriore al 1811)14 [fig. 11]
- Madonna di Monte Vetro
- Madonna della Valle.
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Il secondo gruppo riguarda l’attività di Giovanni (1770-1848, dal 1803 a S. Giovanni Incarico) e Francesco (1778-1847). Ad essi, in particolar modo a Francesco, sono attribuibili:
- Affreschi di Montecassino (1825, forse con la collaborazione del nipote Giuseppe)
- Restauro dell’Assunta (1837, Cassino)
- S. Luigi Gonzaga (1840, Cervaro, perduta)15
- Maria Bambina tra due angeli (Vallerotonda)16
- Madonna bianca (1842, Canneto)
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Il terzo gruppo, maggiormente documentato, è quello delle opere attribuibili con certezza a Giuseppe Petronzio. Le più antiche relative alla sua produzione sono:
- Immacolata (Scicli, 1843)
- Maria SS.ma (Paliano, 1847)
- Assunta (Circello, 1854)
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Giuseppe ha lasciato a S. Giovanni Incarico il gruppo più nutrito delle sue opere, forse coadiuvato da altri. Nella zona, infatti, è documentata una bottega in via Madonnelle e pur non conoscendone l’entità si può ipotizzare dal toponimo una bottega artistica17. Le opere di Giuseppe a S. Giovanni Incarico sono quindi:
- S. Michele Arcangelo (1868)
- S. Antonio (1868)
- S. Rocco
- Maria SS.ma Assunta
- Busto di S. Giovanni
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Attribuibili ad altra mano o a collaborazioni sarebbero la Madonna del Sacro Cuore [fig. 12] e Santa Lucia [fig. 13]. Queste opere mostrano elementi discordanti con lo stile delle precedenti: la Madonna, pur presentando il consueto moto del panneggio che in verità per il cromatismo, la dinamicità e la freschezza può essere effettivamente associabile a Giuseppe, nella parte superiore denota una certa rigidità della posa e delle braccia nonché una leggera sproporzione tra le spalle e il resto del corpo. La Santa Lucia, invece, è più statica e lineare, dal panneggio sobrio e tendente più al neoclassico che al barocco. Anche l’aderenza dell’abito (una sorta di “effetto bagnato”) alle gambe, soprattutto alla destra, non trova riscontro nei canoni estetici dei Petronzio, evidentemente affascinati dal senso del volume e dalla sontuosità delle stoffe.
Secondo la testimonianza di Raffaele Petronzio18, alla mano di Giuseppe andrebbero collegati un coro (oggi distrutto) e il pulpito ligneo [fig. 14]. É ragionevole supporre che il pulpito, evidentemente opera di bottega, non sia stato eseguito direttamente da Giuseppe, ma che sia stato da lui progettato. Di certo, gli unici elementi scultorei a lui direttamente collegabili sembrano essere il braccio reggi crocifisso che si nota nella parte alta dell’opera e le complesse modanature del baldacchino che ricordano lo stile vibrante della lorica del S. Michele Arcangelo.
Altri due Petronzio sono documentati nella zona di Cassino e Valvori, rispettivamente Antonio, che restaurò l’Addolorata (1847)19, e Fabio, pittore (1854), ma non sembrano imparentati direttamente ai Petronzio di S. Giovanni Incarico, semmai agli autori delle statue pontecorvesi che si stanziarono nell’antica S. Germano.
A conclusione del discorso è importante ricordare che tutte le considerazioni fin qui esposte non fanno che confermare la discendenza delle opere dei Petronzio da precisi e numericamente esigui archetipi sei-settecenteschi napoletani rielaborati direttamente nel gruppo più antico pontecorvese e in seconda battuta dagli artisti sangiovannesi20.
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BIBLIOGRAFIA
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– C. Maltese (a cura di), Le tecniche artistiche, Mursia, Milano 2004
– A. Nicosia, Le antiche chiese nella valle della Quesa, Archivio storico di Montecassino, Studi e documenti del Lazio meridionale, Montecassino 1996
– A. Pantoni, Notizie storiche: Cervaro, VII, in «Bollettino Diocesano, Diocesi di Montecassino e prepositura di Atina», 1969, XXIV, n. 4
– A. Pantoni, Vallerotonda. Ricerche storiche e artistiche, (a cura di F. Avagliano), Montecassino, 2000.
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FONTI ARCHIVISTICHE
Archivio della Chiesa abbaziale di S. Oliva (Pontecorvo), Registro dei cresimati, II, 1879-1953.
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NOTE
1 È questo il caso del ricco archivio della chiesa abbaziale di S. Oliva, frazione di Pontecorvo, che attualmente presenta documenti risalenti al 1840. Dalle notizie che si ricavano dall’archivio si evince che i documenti perduti e presenti nella chiesa originaria fossero compilati a partire dal 1613, ma T. De Bernardis dimostra di essere a conoscenza di notizie relative addirittura al XV sec.; cfr. F. Di Traglia, A. Fresilli (a cura di), Oliva simbolo di pace. La storia del Casale attraverso tradizioni, documenti e inedite note d’archivio, in «Terre Aquinati» Collana di Studi Storici, n. 2, Arte Stampa Editore, Roccasecca 2010, pp. 105 e segg.
2 Archivio della Chiesa abbaziale di S. Oliva, Registro dei cresimati, II, 1879-1953.
3 Cfr. A. Nicosia, Le antiche chiese nella valle della Quesa, Archivio storico di Montecassino, Studi e documenti del Lazio meridionale, Montecassino 1996, pag. 81.
4 P. Cayro, Storia civile e religiosa della diocesi di Aquino,, Vincenzo Orsino, Napoli 1808/1811, rist. a cura dell’Associazione Archeologica di Pontecorvo, 1981, Libro II, p. 118.
5 Cfr. A. Acconci, Per un repertorio della scultura lignea. Appunti sui materiali del basso Lazio, in AA.VV., Nel Lazio. Guida al Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico, L’Erma di Bretschneider, 2012, p. 30.
6 L’attività di Giuseppe Petronzio è attestata anche in altre parti d’Italia come testimoniano l’Immacolata di Scicli (1843), una Maria SS. (Paliano, 1847), una Assunta (Circello, 1854). Anche queste opere sono di sicura attribuzione.
7 Cfr. G. Giubbini, La scultura in legno, in C. Maltese (a cura di), Le tecniche artistiche, Mursia, Milano 2004, pp. 11 e 12. La perdita del colore sulla scultura antica è attestata a partire dal IV sec. a. C. da quando Prassitele comincia a cospargere le opere con una patina formata da cera (gànosis) che esaltasse gli effetti di chiaroscuro del marmo tramite una leggera velatura. Nel mondo romano il colore continua a rimanere, ma si rafforza anche la tendenza a lavorare in maniera diversa la superficie del marmo per ottenere la sensazione del mutamento cromatico; talvolta si utilizzavano commistioni di marmi policromi per cui effettivamente molte sculture furono prodotte senza l’uso massiccio del colore. Cfr. G. Giubbini, La scultura in pietra, in C. Maltese, Le tecniche … cit., p. 28.
8 Ivi, pag. 16.
9 Un fenomeno simile si riscontra in letteratura: artisti come Dante o Petrarca sceglievano di scrivere in volgare per il grande pubblico, utilizzavano invece il latino quando si rivolgevano agli intellettuali.
10 Opere di Luca Giordano sono presenti attualmente anche a Esperia, nella Cappella Lauretana, risalente al XVII sec., ricostruita dopo i bombardamenti dell’ultima guerra ed ora adibita ad auditorium.
11 Cfr. F. G. Miele, Santi a Circello. Iconografia sacra dal XVI al XIX secolo, Domenico Longo Ed., Circello 1996, p. 45.
12 Su tali problemi epistemologici cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2009. Sul concetto di «traduzione» cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2010.
13 Nella Sala Ellittica della Reggia di Caserta si conservava fino a qualche decennio fa un prezioso presepe realizzato tra Settecento e Ottocento sostituito in seguito a un furto nel 1988. Alla realizzazione dei presepi reali partecipavano scultori, pittori, scenografi e artigiani coadiuvati delle dame di corte nella realizzazione dei vestiti delle statuette. I materiali utilizzati erano prevalentemente terracotta, fil di ferro, stoppa.
14 Il Cayro riferisce che Monticelli, nel suo «sugello “imprime San Marco Evangelista, ed intorno si legge SANTO MARCO ORA PRO NOBIS DI MONTICELLO”». Cfr. P. Cayro, op. cit., pag. 129. Non risulta attualmente alcuna immagine del suddetto «sugello», ma se il santo raffigurato fosse un riferimento alla scultura nella Chiesa di S. Maria Maggiore, permetterebbe di datare l’opera in questione anteriormente al 1811.
15 Cfr. A. Pantoni, Notizie storiche: Cervaro, VII, in «Bollettino Diocesano, Diocesi di Montecassino e prepositura di Atina», 1969, XXIV, n. 4, pp. 158-159.
16 A. Pantoni, Vallerotonda. Ricerche storiche e artistiche, (a cura di F. Avagliano), Montecassino 2000, p. 75.
17 Cfr., in questo stesso bollettino, l’articolo di M. Sbardella, I Petronzio scultori d’arte, nota 14 (p. 168).
18 Cfr. M. Sbardella, cit.
19 Cfr. S. Saragosa, C. Nardone, La Chiesa di San Basilio Vescovo di Caira, Cdsc, Cassino 2018, p. 34.
20 è bene però sottolineare che è documentata per un certo periodo la presenza di Giuseppe a Napoli, come si evince da un Album pel 1846, p. 130, in cui alla categoria scultori risulta «Petronzio Giuseppe, strada Arcivescovado 10». Questa presenza è ovviamente spia di una quasi certa visione diretta da parte di Giuseppe dei modelli primi di riferimento già degli antichi Fratelli Petronzio.
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