Studi Cassinati, anno 2015, n. 2
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di Gaetano de Angelis-Curtis*
Nel corso degli anni più volte «Studi Cassinati» ha avuto modo di interessarsi ad avvenimenti o fatti accaduti localmente o in terre lontane nel corso dei tragici eventi del secondo conflitto mondiale e che hanno avuto come protagonisti, seppur inconsapevoli, giovani, anziani, donne e uomini, civili e militari, di questo territorio, oppure relativi a componenti dei tanti eserciti stranieri che hanno combattuto lungo le linee difensive predisposte a cavallo tra Lazio meridionale e alta Campania. Tuttavia non va dimenticata un’altra categoria di persone rappresentata sempre da figli di questo territorio che hanno trovato modo di distinguersi, e farsi apprezzare, in altre situazioni e altri contesti, ad esempio combattendo sotto un’altra bandiera: è il caso di Antonio Vittiglio.
Antonio Vittiglio è nato il primo gennaio 1921 a Sant’Angelo in Theodice, in un casolare chiamato «Carambizzo», ubicato tra Colle Mezzanotte e Colli Romani, secondogenito di quattro figli (Luigi e poi Maria e Giovanna). Il padre, custode, aveva deciso di lasciare l’Italia ed era emigrato in America, negli Stati Uniti lasciando la famiglia a Cassino. Qualche tempo dopo anche il fratello maggiore Luigi, emigrò negli Stati Uniti. Si fece apprezzare sul lavoro e cominciò ben presto a guadagnare bene tanto che poté inviare alla madre del denaro utilizzato per l’acquisto di un pezzo di terra dove poter costruire una casa. Intanto Antonio e le sorelle trascorrevano la loro infanzia tra Cassino e Sant’Angelo. Erano gli anni del fascismo e anche Antonio fu un balilla e poi una camicia nera. Alla scuola elementare aveva un maestro che si chiamava Gabriele Boccia, il quale raggiungeva la scuola da Cassino ogni giorno in bicicletta. Antonio era un alunno abbastanza indisciplinato che non si applicava molto nello studio. Talvolta gli capitava di marinare la scuola e di tirare scherzi a maestri e compagni con gran disperazione della madre. Un giorno a casa Vittiglio giunse una lettera con cui il capofamiglia chiedeva ai suoi familiari di trasferirsi in America. I tre figlioletti immediatamente espressero la loro felicità e alla fine anche la mamma si lasciò convincere. I quattro Vittiglio partirono da Napoli il 20 novembre 1936 con la nave «Vulcania» e il 3 dicembre 1936 giunsero a New York, toccando terra a Ellis Island. La felicità, la contentezza iniziale del giovane Antonio svanì però ben presto. Troppa la differenza tra un piccolo paese della provincia meridionale italiana e la grande città americana. Alle colline, ai monti e alla campagna del paesaggio cassinate si contrapponevano i grandi spazi, i grattacieli della metropoli. In più c’erano i problemi di comunicazione perché nessuno di loro conosceva l’inglese.
Tre anni dopo in Europa, era il primo settembre 1939, scoppiò la seconda guerra mondiale. Dal 10 giugno 1940 anche l’Italia prese parte al conflitto al fianco della Germania nazista. Pure gli Stati Uniti, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941, entrarono in guerra. Anche Antonio, naturalizzato americano, dopo il compimento del diciannovesimo anno di età fu arruolato nell’Esercito americano. Avrebbe voluto partire volontario nei paracadutisti ma fu invece richiamato l’11 novembre 1942 e assegnato al 360° Battaglione di artiglieria da campo della 95ª Divisione di fanteria. Dal Campo Uptown di New York fu trasferito per l’addestramento in Texas al Campo Swift. Tuttavia a sei anni di distanza dal suo arrivo negli Stati Uniti aveva ancora grosse difficoltà con la lingua. Nel suo corso si trovava anche un altro italo-americano, Joseph Cassarino, con il quale parlava in italiano. Un giorno Joseph gli disse che se non voleva essere punito quando un ufficiale o un sottufficiale gli si rivolgeva doveva rispondere sempre e solo «Yes sir» (signorsì). Naturalmente questo tipo di risposta offerta a ordini che, impartiti da superiori, non erano compresi pienamente da Antonio, dette luogo in caserma a equivoci e situazioni imbarazzanti. L’addestramento militare continuò in West Virginia dove Antonio poté ottenere la patente di guida per camion dopo aver sostenuto il solo esame pratico e divenendo un buon autista. Tuttavia una mattina gli fu affidata la macchina del comandante del campo. Percorrendo una strada stretta e bagnata dalla pioggia caduta in abbondanza nella notte, incrociò una macchina guidata da un civile. Per evitare un incidente uscì fuori strada e si ribaltò. Il giorno dopo la notizia fu pubblicata sul giornale delle forze militari «Star and Stripes» («Pvt. Antonio Vittiglio made the command car do front center»). Fu convocato dal comandante del campo, il colonnello Ulmer, che in giornata lo trasferì al reparto mitraglieri della scuola di Fort Bliss in Nuovo Messico dove gli fu assegnata una mitragliatrice calibro 50. La Divisione si spostò poi in Pennsylvania, quindi a Boston, Massachusetts, per essere imbarcata sulla nave «Marriposa» che giunse al porto di Liverpool. In Inghilterra, in quei momenti sotto attacco dei micidiali missili V1 tedeschi, Antonio incontrò dei soldati italiani prigionieri di guerra con i quali fraternizzò mangiando assieme prodotti alimentari italiani che gli fecero tornare alla mente i suoi anni giovanili trascorsi a Cassino. Un giorno alla 95ª Divisione giunse l’ordine di imbarco. Con piccoli battelli, attraverso la Manica, raggiunsero «Omaha Beach», una delle spiagge della Normandia dove erano sbarcati gli americani nel corso del «D-Day» del 6 giugno 1944. Si diressero verso Nancy, città della Lorena nel nord-est della Francia dove si stava combattendo accanitamente. Qui rilevarono la 5ª Divisione e si spostarono in direzione di Metz, posta tra i fiumi Mosella e Seille. A inizio autunno entrarono in azione con l’obiettivo di liberare la città, la più importante della regione, che era stata fortificata dai tedeschi con una serie di forti dislocati lungo il fiume. Dopo aver attraversato il fiume, Antonio Vittiglio fu impegnato nella conquista del Forte Driand e del Forte Belle Croix e soprattutto fu scelto assieme a pochi altri commilitoni, una pattuglia formata da un tenente, un sergente e quattro soldati americani («J. Cassarino, R.H. Vancicle, A. Vittiglio, M. Demento, G. Spiker»), per una speciale e rischiosa azione militare. Si trattava di catturare il comandante dell’armata tedesca, il gen. Heinrich Kittel che si trovava in una casolare dove si produceva tabacco, anch’esso fortificato, a letto perché ferito a un ginocchio. Il gen. Kittel fu catturato il 2 ottobre 1944 e definì gli uomini che lo avevano fatto prigioniero come gli «iron man» di Metz mentre i giornali li chiamarono «the Bravest of the Brave». Tutti loro, compreso Antonio Vittiglio, ricevettero un attestato rilasciato dalle autorità francesi e un medaglia. Dopo Metz gli americani raggiunsero a Munster, una cittadina a pochi chilometri di distanza. Vittiglio e un suo commilitone, Haskel Wallich, furono posti a guardia di una costruzione fortificata con l’ordine tassativo di non far entrare nessuno e di sparare con la mitragliatrice all’occorrenza. Spinto dalla curiosità Vittiglio volle entrare in quei locali, nonostante il timore per la possibile presenza di mine, e vide che si trattava di una specie di banca in cui erano ammassati migliaia di marchi in monete. Prese, senza neanche capirne il valore, una manciata di monete e le mise nel suo zaino. Qualche giorno dopo fu assegnato a un’altra missione che prevedeva la cattura di alcuni tedeschi delle SS. Montò la sua mitragliatrice su una jeep e si diresse verso la casa di campagna dove erano stati segnalati. Tuttavia vi trovò solo un anziano tedesco. Prese allora dallo zaino uno dei marchi e lo dette all’uomo e per convincerlo ad accettare dovette minacciarlo con la pistola. Dopo aver sconfitto la resistenza tedesca nel nord est della Francia (a dicembre capitolò l’ultimo dei forti dislocati lungo la Mosella), gli americani della 95ª Divisione furono i primi a entrare in Germania. Il 5 aprile 1945 la sua Divisione liberò un campo di concentramento (Stammlager IV-F) posto nella città di Soest, nei pressi di Dortmund, nella regione della Ruhr, dove si trovavano soldati russi, polacchi e italiani. Fu convocato dal suo comandante, il capitano Heppensteel, per affidargli l’incarico di coadiuvarlo come traduttore negli interrogatori dei prigionieri italiani internati. Quando si presentò davanti ai circa 500 soldati italiani schierati per prima cosa chiese se ci fosse qualcuno proveniente da Cassino. Alzò la mano uno di loro, che si chiamava Carmelo (Carmine) D’Alessandro, bersagliere, il quale rispose si essere originario di Pignataro Interamna. Facendo altre domande sui luoghi e su conoscenze comuni, alla fine scoprì che era un suo cugino (la mamma di Antonio era originaria di Pignataro e anche lei era una D’Alessandro). Il secondo militare che incontrò fu Luigi Margiotta di Cervaro, da due anni internato, a cui chiese se nel campo c’erano ufficiali italiani. Egli rispose che era un tenente dei Carabinieri e quindi di essere l’ufficiale più alto in grado del campo. Vittiglio rimase un po’ interdetto di fronte a questa affermazione perché non vedeva sulla divisa alcun segno che potesse rivelare il grado. Allora Margiotta gli mostrò le stellette che aveva tolto dalla divisa e che per tutto quel tempo aveva tenuto nascoste nelle scarpe per timore di ritorsioni da parte dei tedeschi.
La 95ª Divisione di fanteria di Vittiglio, trasferita dalla III alla IX armata, fu fermata all’altezza del fiume Elba per cui non raggiunse Berlino. Questo fatto fece perdere la scommessa fatta da Antonio con un suo amico, Antonio Cardillo, un italo-americano, della 89ª Divisione. Finita la guerra sul fronte occidentale la Divisione fu rimpatriata, giungendo in Louisiana pronta per partire per il Pacifico, cosa che però non avvenne. Antonio si congedò dall’Esercito e decise di prendersi un anno di vacanza per ritornare in Europa e soprattutto far visita ai luoghi della sua infanzia tra Cassino, Sant’Angelo e Pignataro dove ritrovò i nonni Giuseppe e Lucia, lo zio Giovanni, la zia Elisabetta, i cugini Maria, Rosina, Ida, Vincenza, Mario e Antonio. A Pignataro, dove si continuava a morire per lo scoppio delle mine disseminate nei campi, incontrò una dolce fanciulla, Giuseppina Fazio, il «primo amore della [sua] vita», che tuttavia non gli fu possibile sposare per l’opposizione della famiglia. Tornato negli Stati Uniti sposò Maria Varlese da cui ebbe quattro figlie, Diana, Laura, Joyce e Janet. Il primo luglio 1977, sfortunatamente, morì Maria. Antonio tornò varie volte a Cassino ed ebbe modo di rincontrare Giuseppina, anche lei nel frattempo sposatasi e rimasta vedova. Il 29 dicembre 1988, 42 anni dopo il loro primo incontro, Antonio e Giuseppina si sposarono.
Oggi Antonio e Giuseppina sono due attivissime persone sempre in giro per il mondo dividendosi tra New York, Liegi in Belgio e l’Italia (Cassino, Pignataro e altri luoghi turistici). Hanno avuto modo di visitare 48 dei 50 Stati che compongono gli Usa e hanno partecipato a numerose iniziative celebrative sulla seconda guerra mondiale organizzate in diverse città: naturalmente a Metz (dove nel novembre 1999 in occasione del 55° dalla Liberazione hanno ricevuto le «chiavi della città»), come quelle della Normandia ma anche a Pignataro presenziando a incontri con gli studenti della locale Scuola Media nel 2004 in occasione del 60°.
Le azioni di guerra di cui Antonio Vittiglio si sente più fiero e che ricorda con lucidità ed emozione, a prescindere da quelle strettamente militari come la cattura del gen. Kittel, sono quattro e fanno riferimento a quei momenti di umanità sempre vissuti in un contesto bellico ma nell’ambito di un suo personale pensiero racchiuso in un sintetico ed efficace motto: «il più bel regalo che puoi fare a una mamma» con riferimento, cioè, alla cattura di nemici e non alla loro uccisione, oppure alla condivisione di cibo con giovani mamme anche trasgredendo i perentori ordini ricevuti, oppure all’invio di lettere e messaggi destinati a mamme ignare della sorte dei loro figli in guerra, come nel caso dei Margiotta:
Il primo gennaio 1945 mentre si trovava nella campagna oltre Metz, aerei della Luftwaffe, due Messerschmitt ME 109, attaccarono la postazione dove si trovava. Antonio prese il suo mitragliatore e fece fuoco. Colpì il primo aereo che si allontanò. Il secondo invece fece una virata e puntò contro di lui. Fece di nuovo fuoco e una pallottola del suo mitra colpì la carlinga dell’aereo tranciando un condotto da cui fuoriuscì del fluido. Il pilota dell’aereo riuscì, con abilità, a far atterrare il velivolo qualche centinaio di metri più avanti. Vittiglio assieme a un suo commilitone, Moses Cerda di origini messicane, corse in direzione dell’aereo per catturare il pilota. Quando sopraggiunse nei pressi vide il pilota all’impiedi sulle ali dell’aereo con le mani alzate. Avrebbe voluto catturarlo e farlo prigioniero ma un suo commilitone che lo aveva preceduto fece fuoco e vide il pilota accasciarsi colpito a morte. Il soldato americano fu messo sotto processo da Patton. Quando fu chiamato circa sessant’anni dopo da una commissione che indagava per conoscere le modalità dell’abbattimento e chi ne fosse stato l’artefice, mentre altri cercavano di appropriarsi del fatto, gli fu facile raccontare, nel corso di una serie di domande postegli anche a trabocchetto, quanto accaduto. All’invito a fornire un giudizio sul pilota, pur essendosi trovato faccia a faccia con la morte, o la sua o quella del tedesco, rispose senza esitazione: «era un bravo pilota, un eroe che difendeva la patria». Un’altra volta, sempre di pattuglia, vide avvicinarsi alcuni militari, esploratori, tedeschi. I suoi commilitoni gli fecero ampi e inequivocabili gesti perché iniziasse a sparare con la mitragliatrice che aveva in dotazione. Invece lui non volle e di rimando chiese che i suoi commilitoni si disponessero in modo da accerchiare gli esploratori tedeschi. E così senza sparare un colpo e senza spargimento di sangue riuscirono a farli prigionieri. Un’altra volta, contravvenendo agli ordini emanati dai vertici militari americani che vietavano tassativamente di offrire cibo ai civili tedeschi, dette la razione di cibo appena ricevuta a una giovane mamma tedesca in stato interessante e alla sua bambina di circa sei anni che era con lei. Lì nei pressi si trovava un soldato tedesco che teneva sotto mira i militari americani e quando vide la scena di Vittiglio che dava il suo rancio alla giovane donna decise di non premere il grilletto, come egli stesso ebbe modo di raccontare in una lettera inviata a sua madre. Quando Antonio incontrò Luigi Margiotta nel campo di concentramento, l’allora tenente dei Carabinieri gli chiese se era possibile inviare una lettera alla madre a Cervaro che non aveva notizie del figlio da tempo. Si informò e attraverso la Croce Rossa fu possibile spedire la lettera a Cervaro. Quando poi Antonio la incontrò a Cervaro nel 1946, la signora Margiotta, appena saputo chi fosse, piangendo, lo baciò e lo ringraziò perché con quella lettera aveva saputo che il figlio era vivo.
Scambio di corrispondenza tra il gen. Margiotta e Antonio Vittiglio nel dopoguerra.
Dott. Luigi Margiotta
Generale Corpo d’Armata Carabinieri (T.O.) – Roma, 14.10.2009
Gentile signora Giuseppina e caro Antonio,
con sempre commosso ricordo e profondo affetto ricambio i vostri cari saluti, con la speranza di potervi riabbracciare quando, nella stagione meno fredda, la mia ormai tarda età mi permetterà di muovermi da Roma. Allego, come richiesto, la mia fotografia in divisa, in ansiosa attesa di poter rivivere, nella …. del libro, l’indimenticabile incontro con il caro Antonio, che segnò la fine della mia tormentata prigionia in Germania. Con tanta fraterna affettuosità anche da parte di mia moglie
Luigi
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Caro Luigi, ho letto con viva commozione i saluti che mi hai mandato. È sempre un piacere per me ricordare i momenti trascorsi assieme, anche se in circostanza non proprio felici. Ti ringrazio dell’ammirazione che provi per me, soprattutto quando mi consideri un “salvatore”. Sono stato contento e, a dire il vero anche un poco orgoglioso, del fatto che la nostra amicizia sia nata nel momento in cui ha avuto fine la tua prigionia in Germania. Non nascondo il fatto di essermi sentito un poco “eroe nel liberarti” ma voglio precisare una cosa: non l’ho mai detto ma anche tu, per me, puoi essere considerato un eroe, per aver resistito alle angherie del nemico e per aver sempre conservato quella dignità che ti distingue. Nell’attesa di poterti rivedere al più presto per poter ricordare i momenti passati insieme.
Mando un forte abbraccio a te e alla tua famiglia, il tuo amico di sempre
Antonio
* Un particolare ringraziamento va a Franco Di Giorgio, Alberto D’Alessandro e Antonio Murro.
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