Storia Arte Letteratura – Storie di mole, mugnai e mugnaie*

 

Studi Cassinati, anno 2015, n. 1
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di Marcello Ottaviani

05Nelle società agricole pre-industriali, la scarsezza delle vie di comunicazione e la lentezza dei trasporti rendevano necessario la presenza, anche nei piccoli centri, dei mulini. Quello del mugnaio o molinaro, era uno dei mestieri importanti, con il taverniere, il macellaio, il bottegaio.
Il giudizio che nei secoli sono stati avanzati sui mugnai sono vari, però nella maggior parte tendono a metterli in cattiva luce. Carlo Ginzburg scrive che «La secolare ostilità tra contadini e mugnai aveva consolidato un’immagine del molinaro furbo, ladro, imbroglione, destinato alle pene infernali»1.
Il mugnaio rurale, come lo chiama Giovanni Aliberti2, era un piccolo imprenditore e speculava sul grano e sugli altri cereali che i contadini gli affidavano. In caso di cattivo raccolto anticipava i cereali necessari alla vita quotidiana, riprendendosene una maggiore quantità quando le annate erano buone. Era amico e confidente, ma temuto e a volte anche odiato.
Il mondo dei mulini e dei mugnai ha alimentato la storia, la letteratura e l’arte: racconti, aneddoti, tradizioni popolari, proverbi, leggende, fiabe, novelle, parlano di mole, mugnai e mugnaie. A metà del ‘500 un poeta satirico, Andrea da Bergamo, affermava che «un ver monnaro è mezzo lutherano»3. Il mulino era un luogo d’incontro, di rapporti sociali, dove le idee circolavano, come nell’osteria e nella bottega. L’ostilità tra i mugnai e i contadini che portavano il grano a macinare, era grande, in quanto quest’ultimi pensavano di essere defraudati di una parte della farina; si deve aggiungere a ciò il fatto che molti mugnai per il loro mestiere erano vincolati ai loro padroni, i feudatari, che erano i detentori del privilegio della molitura.
Incomincerò a parlare di un mugnaio del ‘500, che ebbe una vita difficile e fece una fine tragica.
Il suo nome era Domenico Scandella ed era detto Menocchio. Era nato nel 1532 nel Friuli, a Montereale, cittadina a 25 chilometri da Pordenone. Era sposato e aveva sette figli. Faceva il muratore e il contadino, ma il mestiere principale era quello di mugnaio. Si vestiva, anche quando lavorava nei campi, con l’abito tradizionale dei mugnai: una veste, un mantello e un berretto di lana bianca. Sapeva leggere, scrivere e far di conto. Fu accusato di eresia e dichiarò agli Inquisitori4 di essere «poverissimo» non avendo «altro che doi mollini a fitto …»5. In realtà non era poi tanto povero (i due mulini rendevano bene) se poté sostenere adeguatamente la sua numerosa famiglia e se, quando sua figlia si sposò (ma lui era già morto) ricevette una buona dote.
Il nostro mugnaio visse in quel periodo storico particolare nel quale la Chiesa reagì con durezza alla dottrina del monaco agostiniano Martin Lutero. Questi il 31 ottobre del 1517, vigilia di Ognissanti, aveva affisso alla porta della cattedrale di Wittemberg 95 tesi teologiche, contrarie alla dottrina della Chiesa di Roma, al papa e alla pratica delle indulgenze, dando così inizio al movimento della riforma protestante. Le idee luterane si diffusero anche in Italia. La Chiesa rispose con la Controriforma (il Concilio di Trento si svolse dal 1545 al 1563) che ebbe come conseguenza un «irrigidimento su posizioni dogmatiche sempre più rigorosamente definite, accompagnate da un processo di revisione morale e disciplinare»6. Erano momenti difficili e sia il clero che le autorità civili vigilavano sia su ciò che si faceva, sia su ciò che si diceva contro la Chiesa di Roma. Menocchio aveva letto molti libri, di quelli popolari comprati sulle bancarelle, nei quali la dottrina cristiana si mescolava alle leggende e ai fatti straordinari. Parlava e discuteva con tutti di religione, benché i suoi amici l’avessero ammonito a non esporre idee contrarie alla fede cristiana. Il 28 settembre 1583 Menocchio fu denunciato al Sant’Ufficio «… per aver pronunciato parole ereticali e empissime su Cristo»7. Nel 1584 subì il primo processo, con diversi interrogatori, seguito da un secondo nel 1599. Aveva una visione panteistica dell’universo, commentava una Bibbia scritta non in latino, ma in volgare (e ciò era proibito). Nel corso degli interrogatori durante i processi, denunciò coraggiosamente le soperchierie dei ricchi e dei potenti che si avvantaggiavano sul volgo per la loro conoscenza della lingua latina. Al molinaro Menocchio piaceva una chiesa che stesse coi poveri, fondata su precetti semplici e pratici, come scritto nei Vangeli. Il vero comandamento del buon cristiano era di amare il prossimo in quanto il prossimo è l’immagine di Dio. Prendendo spunto dal Supplementum delle croniche dell’eremita Jacopo Filippo Foresti, aveva elaborato una sua concezione cosmogonica che si riallacciava a miti antichissimi di molti popoli: «Io gli ho inteso a dir», riferì Giovanni Povoledo, suo paesano e amico, «che nel principio questo mondo era niente, e che dall’acqua del mare fu batuto come una spuma et si coagulò come un formaggio, dal quale poi nacque gran moltitudine di vermi, et questi vermi diventorno homini, delli quali il più potente et sapiente fu Iddio, al quale gli altri resero obedientia …»8. Anche dopo il secondo processo Menocchio fu lasciato libero a patto però che non parlasse in pubblico di argomenti religiosi, che avrebbero potuto traviare gli ingenui paesani. Ma il mugnaio continuò a esporre in pubblico le sue idee. Il Sant’Ufficio di Roma, che continuava a seguire la vicenda, premeva per una soluzione definitiva del caso. Da Roma arrivò l’ingiunzione inappellabile della condanna a morte, in quanto il reo era pervicacemente recidivo: il 6 luglio 1601 il molinaro Domenico Scardella, detto Menocchio, fu giustiziato9.
Nella raccolta di fiabe dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, scritte in Germania intorno al 1812, almeno cinque racconti si svolgono all’ombra del mulino.
Un contadinello, con spregiudicatezza e un’astuzia che rasentano il cinismo, diventa alla fine ricco10. Ad aiutarlo, anche se inconsapevolmente, è una mugnaia, che l’accoglie in una notte buia e piovosa. «Ma il tempo era così brutto e c’era una tale burrasca ch’egli non poté proseguire e tornò al mulino a chiedere alloggio». La mugnaia che è sola in casa, ha un progetto per la testa, perché il marito è assente. “Intanto venne il prete, bene accolto dalla donna, che disse: – Mio marito non c’è, voglio far trattamento». Queste fiabe scritte per gli adulti erano raccontate anche ai bambini, perciò «far trattamento» è una metafora che noi adulti intendiamo benissimo. Ma purtroppo per la mugnaia, questa volta i suoi progetti non vanno a buon fine, perché all’improvviso torna il marito, ma con uno stratagemma il contadinello salva tutti, guadagnandoci anche.
Leggendo questa fiaba viene in mente una novella del Decamerone di Giovanni Boccaccio, nella quale Peronella, che si trova in una situazione difficile, con intelligenza riesce a salvarsi11.
Anche l’asino de I musicanti di Brema conosce i mulini. Per tanti anni ha portato i sacchi del grano a macinare e al ritorno la farina del suo padrone; ma ormai è vecchio ed è costretto a fuggire, se non vuol finire mortadella!12.
I mugnai sono accorti e avveduti mercanti: se hanno belle figlie, cercano di maritarle bene, risparmiando sulla dote: «C’era una volta un mugnaio, che aveva una bella figlia; avrebbe voluto collocarla con un buon matrimonio. Presto arrivò un pretendente, che sembrava molto ricco; e il mugnaio, non trovando nulla da ridire, gli promise sua figlia». È destinata a finire uccisa la bella fanciulla, ma alla fine si salva13.
In un’altra fiaba il diavolo ottiene da un mugnaio povero la mano della bella e pia figliola. Oltre che povero, il nostro mugnaio è debole e atterrito dal maligno. Dopo varie peripezie, la fanciulla sposa il suo re e tutti vissero felici e contenti14. L’avidità è un difetto che anche i re hanno (non solo nelle fiabe): un mugnaio fanfarone e sfrontato dice al re che sua figlia è capace di filare la paglia, ricavandone fili d’oro! Il re chiede in sposa la fanciulla: «Anche se è figlia di un mugnaio … una donna più ricca non la trovo in tutto il mondo …». La sposò e la bella fanciulla divenne regina15.
Il gatto con gli stivali è una fiaba che più delle altre ricorda la nostra infanzia, quando con la fantasia seguivamo le avventure di questo gatto straordinario che con i suoi stivali prodigiosi percorreva pianure e valicava monti, per fare alla fine la fortuna del suo padrone. Anche lui conosce i mulini e i grassi sorci che vivevano nei magazzini: «Un mugnaio non lasciava come eredità ai tre figli altro che il suo mulino, il suo asino e il suo gatto. La divisione fu ben presto fatta, senza chiamare né notaio né procuratore, che avrebbero ben presto consumato il povero patrimonio. Al primogenito toccò il mulino, al secondo l’asino e il minore non ebbe che il gatto». La sagacia e l’avvedutezza sono certamente le principali doti del vecchio mugnaio: comprende bene di lasciare il mulino al solo figlio maggiore, che in tal modo può continuare a gestirlo e ricavarne da vivere. I mugnai erano accusati di arricchirsi alle spalle dei clienti, ma la gestione di un mulino comportava l’esborso di consistenti somme che servivano per la manutenzione ordinaria e straordinaria dei macchinari: pertanto lasciare il mulino ai tre figli sarebbe stato veramente sciocco! Certo, il terzo figlio riceve solo un gatto, ma «per quanto sia il vantaggio di godere di una ricca eredità che ci venga di padre in figlio, di solito ai giovani l’industriosità e il saper fare valgono più dei beni acquisiti». Infatti il terzogenito del mugnaio, con l’aiuto del gatto, sposa la figlia del re16.
Il grande musicista romantico Franz Schubert compose nel 1823 un lied su una bella mugnaia, prendendo il tema dalle poesie di Wilhelm Muller.
Un giovane mugnaio, camminando lungo un ruscello, giunge ad un mulino e vede una giovane mugnaia, di cui si innamora. Sopraggiunge un cacciatore, che non va a caccia di sola selvaggina: conquista la fanciulla e al mugnaio non rimane altro che morire di dolore!
Alla vigilia di Natale Scrooge parla con due signori di Londra, andati a trovarlo nel suo ufficio, per avere un contributo per i carcerati.
« – E gli ospizi? Li hanno chiusi forse?
– No davvero; così si potesse!
– Sicché il mulino dei forzati e la legge sui poveri son sempre in vigore?17
– Sempre, ed hanno anche un gran da fare.
– Oh! Io avevo temuto alle vostre prime parole, che qualche malanno avesse rovinato coteste utili istituzioni».
Dickens non poteva lasciarsi sfuggire di nominare quel luogo terribile di Londra in cui i condannati erano costretti in condizioni disumane a redimersi facendo girare la grande ruota della macina del mulino; e Scrooge è felice di sentire che, sì, il mulino dei forzati esiste ancora e che lui, Scrooge, con le tasse, contribuisce a tenerlo in funzione. Il vicino Natale non farà breccia nel suo incallito animo taccagno, i signori venuti per un donativo non avranno nessun contributo! Solo una conversione, più violenta di quella di Saulo di Tarso, riuscirà a far tornare a Scrooge la pietà e l’amore verso le persone povere e sfortunate18.
«Ci sarà pure un giudice a Berlino!», ragionava il mugnaio della collina di Sans-Souci, a Postdam, vicino a Berlino. La mugnaia Rosina, sua moglie, trovò la strada giusta per arrivare al «Giudice», al re di Prussia, Federico II il Grande. Ma perché il mugnaio aveva bisogno di un giudice? Ecco i fatti19:
Il mugnaio Arnold aveva in affitto sulla collina di Postdam un mulino ad acqua, di proprietà del conte di Schettau. Erano generazioni che il «Mulino del Gambero» (Krebsmule) veniva dato in affitto agli Arnold. Nel 1770 il barone von Gersdorf costruì, più su del mulino, una peschiera, deviando l’acqua. Il mulino perciò, per diversi mesi dell’anno, rimaneva privo d’acqua e dunque non poteva più macinare per cui il mugnaio non poteva più pagare il fitto. Il giudice feudale condannò Arnold a pagare e poiché questi non poteva, il mulino nel 1878 fu venduto all’asta e fu acquistato proprio dal barone von Gersdorf. A nulla valsero i numerosi appelli ai giudici e le rimostranze del mugnaio. A questo punto entra in scena la mugnaia Rosina che si dà da fare (ma in senso buono, era avanti negli anni) per venire a capo della questione. La donna, tramite un suo nipote soldato, narra la vicenda al principe Leopoldo di Brunswick, nipote del re, «adorato dal popolo, perché buono, affabile, umano». La madre del principe Leopoldo parla a suo fratello il re di Prussia. Il sovrano, con buon senso e concretezza, messi da parte tutti i cavilli giuridici, convoca i giudici e davanti a loro dà ragione al mugnaio Arnold. «Quella sentenza», argomenta il re, «… è ingiusta… è contraria alle mie intenzioni di padre del popolo; e voi l’avete pronunciata in mio nome. Quando mai ho io oppresso il povero in favore del ricco?…. E più che il dolor potendo l’ira, batteva la sentenza colla mano gottosa…». Li fece mettere in una carrozza e portare in prigione. Il mugnaio Arnold ebbe un risarcimento del danno liquidato in 1358 talleri, 11 groschen e 1 pfenning e tornò a esercitare nel suo mulino (ma preferisco non parlare di ciò che avvenne alla morte di Federico, ma penso che si possa immaginare!)20.
Venendo a tempi più vicini a noi, siamo nel 1871 in piena battaglia per la tassa sul macinato, molto colorita è la descrizione che l’ingegnere toscano Faustino Cerri fa del mugnaio toscano Gigione Casali21.
«Hai mai tu visto quel mio mugnaio Gigione Casali grosso, grasso e pacchiero che pare un beato Ermolao?22 Or come tu sai, questi è un abilissimo mugnaio che alla sua volta, in special modo la sera (suo turno), scende in mulino soffermandosi prima sulla porta d’ingresso, da dove volge lo sguardo a destra, a sinistra, e drizzandolo quindi per lo innanzi entra nel salone da dove con lento passo ascendente sale in palmento, si leva la cacciatora, si mette la blouse e la berretta, chiede un fiammifero ai compagni, accende la sua pipetta eterna, va intorno alle macine, prende la consegna dal mugnaio che sorte, dal quale si informa delle diverse qualità di farina che debbono essere prodotte, e per la responsabilità della consegna osserva se i grani sono al loro punto di manipolazione e di umidità per quelle date farine, ed attinge tutte le notizie che possono essere relative alla sua missione di otto ore ed in special modo quelle che si riferiscono all’attualità d’azione; osserva con occhio pratico i registri delle càssule delle tramogge, o dei tubi di conduzione, tasta le farine che sortono dalle macine, per conservarle uguali, ed osserva gli alzatoi; … Ed è poi curioso l’osservare che talvolta il nostro Gigione, restato che è solo, sul tardi della sera, si addormenta sopra uno sgabello presso le macine, con le braccia incrocicchiate sul petto, la berretta abbassata sull’occhio, ed il mento posato suo collo; … ma se una macina lievemente altera il suo moto, ecco che Gigione quasi fosse in piena veglia o come destato da un fulmine caduto a quattro metri salta frettoloso alla macina e provvede come di regola».
Per restringerci alla nostra zona, in questa breve rassegna di mugnai merita di essere ricordato, ma per la sua efferatezza, Gaetano Mammone, originario di Alatri, che aveva in affitto le mole di Sora dell’ex duca Boncompagni. Nel 1799 le truppe francesi, al comando del generale Championnet, avevano conquistato Napoli e proclamato la Repubblica Partenopea. In molti Comuni del nostro territorio, allora facenti parte del Regno di Napoli, furono create amministrazioni repubblicane. Mammone aveva organizzato una banda di circa 5.000 uomini e terrorizzava gli abitanti che simpatizzavano con i francesi. Si vantava di aver ucciso di sua mano più di quattrocento persone tra francesi e sospetti repubblicani23.
«Era Mammone un monomane dell’omicidio, crudelissimo e truculento, i cui feroci istinti lo ravvicinavano più alla belva che all’uomo. Man mano però le loro efferatezze [dei seguaci di Mammone] irritarono e disgustarono lo stesso Vescovo di Sora, già loro mandatario, al punto che questi, reso edotto il sovrano, lo fece arrestare a mezzo di Rodio, altro capomassa reazionario. Il Mammone, riuscito a fuggire, fu di nuovo catturato dal Principe di Assia, Governatore di Gaeta e mandato prigione a Napoli dove il bandito si lasciò morir di fame»24.
Un mugnaio, che somiglia molto al toscano Gigione, era quello che gestiva le mole di Aquino. Era buono, socievole ed ironico. Compare si chiamava, «Compare per antonomasia, il quale era lì un re nel suo regno». Aveva sempre la botte piena, sia quella del mulino (dove si raccoglieva l’acqua) che quella della cantina. Gli piacevano la buona compagnia, gli arrosti e le fritture, per cui le riunioni conviviali cui participava finivano spesso in bisboccia. Aveva una moto Guzzi (la mitica Guzzi!) che diceva di andare ad … acqua! Le mole ad acqua producevano farina e con il ricavato della farina si comperava la benzina!25
Chiudo la rassegna, riportando una parabola della tradizione popolare, riferitami da amici isolani.
Un topo cadde nel cassone della farina e s’infarinò tutto. Lo vide, stupito, il molinaro. Il topo non si perse d’animo, si scrollò di dosso la farina e «Sieme tutte mulinare» disse con insolenza.
Saggezza popolare, che si adatta bene anche ai giorni nostri.

* Il presente scritto fa parte di un lavoro sulle mole di Fontana Liri di prossima pubblicazione.

1 C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi: il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino, 1976, p. 138.
2 G. Aliberti, Mulini, mugnai e problemi annonari dal 1860 al 1880, Giunti-Barbera, Firenze, 1970, p. 149.
3 C. Ginzburg, Il formaggio … cit., p. 138.
4 Come vedremo era stato accusato di essere un eretico e un blasfemo.
5 C. Ginzburg, Il formaggio … cit., p. 3.
6 G. Spini, Disegno storico della civiltà, Cremonese, Roma,1963, vol. II, p. 118.
7 C. Ginzburg, Il formaggio … cit., p. 4.
8 Ivi, pp. 62-63.
9 Il 17 febbraio 1600 era morto sul rogo, a Roma, a Campo dei Fiori il filosofo nolano Giordano Bruno.
10 J. e W. Grimm, Fiabe, Einaudi, Torino, 1992, Il contadinello, pp. 233-236.
11 G. Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Felice Le Monnier, Firenze, 1952, pp. 207-215.
12 J. e W. Grimm, Fiabe … cit., I musicanti di Brema, pp. 102-104.
13 Ivi, Il fidanzato brigante, pp. 147-149.
14 Ivi, La fanciulla senza mani, pp. 114-118.
15 Ivi, Tremotino, pp. 196-198.
16 C. Perrault, Il gatto con gli stivali e altre fiabe, BUR, Milano, 2004.
17 L’espressione usata da Dickens è «The Treadmill and The Poor Law» che viene generalmente tradotta come «La legge Treadmill e la Legge sui Poveri»: la mia traduzione letterale mette in evidenza che si trattava di un mulino azionato da candannati (spesso giovani o ragazzi) mediante una grande ruota a gradini (n.d.a.)
18 C. Dickens, Ballata di Natale, Mondadori, Milano, 2001.
19 Seguo per tutta la vicenda Emilio Broglio, Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande, Roma, 1880.
20 Esempi che esaltano la virtù e la giustizia dei sovrani sono diffusi, specialmente nel Medioevo. Dione Cassio (155-240 ? d.C. ), storico greco che scrive in latino, autore di una storia romana, riporta un episodio leggendario dell’imperatore romano Traiano (53-117) ritenuto sovrano giusto e virtuoso. Una vedova afferra le briglie del cavallo di Traiano e gli chiede giustizia per il figlio, ingiustamente assassinato. Sebbene in procinto di partire per una battaglia, Traiano scende dal cavallo e rende giustizia alla donna. L’episodio, oltre che in numerose opere medievali, quali il Fiore dei filosofi, il Novellino e la vita di San Gregorio, è ricordato nel canto X (vv. 73-93 ) del Purgatorio di Dante.
21 F. Cerri, Ancora del consorzio fra mugnai…, Pisa, 1871, pp. 63-64.
22 Ermolao Barbaro detto “Il Giovane” (Venezia 1454-Roma 1493) fu umanista, patriarca di Venezia e diplomatico al servizio della Repubblica di Venezia. Era persona prudente e onesta.
23 A. Carbone, La città di Sora, Tipografia Casamari, 1970, pp. 188-189: «Il caso del brigante Mammone, di cui parlano Francois Lenormant e Norman Douglas …era un mostro antropofago che si vantava di aver personalmente ucciso 455 persone con la più raffinata crudeltà e che portava attaccato alla cintura il teschio di uno di essi da cui, durante i pasti, beveva sangue umano…»; cfr. anche Generoso Pistilli, Fontana Liri, Ed. Meridionali, Isola del Liri 2000, pp. 116-118.
24 O. Emery, Isola del Liri, 1935, p. 30.
25 C. Jadecola, I mulini della Forma, E.d.A., Cassino 2000, p. 43. Jadecola cita Tommaso Di Nallo, Aquino nostra, Cassino, 1990.

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