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«Studi Cassinati», anno 2019, n. 2
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di Costantino Jadecola
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Era il 5 gennaio 1919 e l’aria era ancora intrisa dell’acre tanfo della Grande guerra quando a Roccasecca, allora provincia di Terra di Lavoro, nasceva Severino Gazzellone, cognome poi mutato,“per chiara fama”, in Gazzelloni, come recita il relativo decreto del presidente della Repubblica.
Profondamente legato alle sue origini e alla sua terra, aveva con essa una assidua frequentazione e l’onorava, non di rado, con memorabili concerti. Come quella serata che nel 1987 ebbe come scenario i ruderi del castello costruito dall’abate Mansone, quando l’allora sindaco di Roccasecca Luciano Rossini gli consegnò, a nome della città e dei suoi cittadini, una medaglia d’oro. In realtà Roccasecca aveva già provveduto, una decina di anni prima, a questo doveroso attestato. Ma poi la medaglia gli era stata rubata e lui ci teneva tanto a riaverla.
Nella memoria collettiva è rimasto anche il ricordo di Severino dei giorni del terremoto di maggio 1984 quando con il sindaco del tempo, Luigi Frezza, ed altri, mentre si constatavano i danni già procurati dal sisma al palazzo comunale, una nuova scossa costrinse tutti ad un repentino fuggi fuggi.
Ancora in quell’anno, il 10 novembre, aveva tenuto un applauditissimo concerto in Fiat, a Piedimonte San Germano; a Montecassino, invece, avrebbe suonato nell’estate dell’89 in occasione del conferimento della laurea “honoris causa” da parte dell’Università di Cassino allo storico Herbert Bloch.
Erano, questi, alcuni dei ricordi che a Roccasecca rivivevano, tra i capannelli di gente, nella mattinata di una lontana domenica di novembre del 1992 che faceva seguito a quella notte appena passata quando lui, in una clinica di Cassino, era passato a
miglior vita.
Vale a dire, dalla cronaca alla storia, vuoi per essere stato un virtuoso del flauto, vuoi per essersi prodigato, come pochi altri, per far amare la musica alla gente. «Soffiando dentro questa canna ho portato la musica a tutti, in tutto il mondo», aveva detto. Una verità di cui era perfettamente consapevole.
Stranamente la sua storia professionale «nasce» proprio un giorno di novembre: ancora un sabato, come il giorno della sua morte. Lui, Severino, aveva appena sei anni ma già aiutava papà Peppino, che faceva il sarto, uno di quei raffinati artigiani di una volta, e suonava il bombardino nella banda di Roccasecca.
Severino ricorda questi ed altri particolari in un racconto fatto ad Emilia Granzotto e pubblicato dalla Eri nel 1984. «La sera di quel davvero fatidico sabato di novembre del 1925 avevamo ‘pescato’, come diceva papà, una stazione tedesca. Suonava, nientemeno, la Filarmonica di Berlino, una delle più celebri orchestre sinfoniche del tempo. Il primo pezzo in programma era un Mozart, il ‘Concerto in sol maggiore k314’ per flauto e orchestra.
« (…) Rimasi affascinato. Ascoltai fino in fondo immobile, in silenzio, stringendo l’ago tra il pollice e l’indice. Ero emozionato, quasi mi venivano le lacrime. Mio padre capì, e mi fece una carezza. Io sussurrai: ‘Papà, credo che questo sarà il mio mestiere’».
Due giorni dopo il padre lo «presenta» al maestro Giovanni Battista Creati, che dirige la banda di Roccasecca. Dura un anno, l’apprendistato. Poi Severino entra a far parte della banda a pieno titolo. Non ci volle molto perché si spargesse la voce che nella banda di Roccasecca, già molto apprezzata perché composta da ottimi elementi, c’era questa attrattiva in più: un ragazzetto di nome Severino che suonava il flauto in piedi su una cassetta.
«Eravamo davvero molto richiesti. Io, di solito,‘entravo’ dopo una suonata di Mozart e un pot-pourri di Verdi. Montavo su quella specie di podio, sorridevo in giro inchinandomi, attento a non perdere l’equilibrio, e facevo il mio Pastore svizzero con tutti i sentimenti. La gente mi applaudiva dopo ogni variazione, alla fine mi gridava bravo e mi buttava confetti. A volte qualcuno mi regalava dei soldi, venticinque o anche trenta lire.
«Io cominciavo a sentirmi importante».
Per il resto, Severino era un bambino come gli altri. Ma sentiva forte la mancanza della madre, Amalia Pascarella: «Era morta giovanissima, che io non avevo ancora due anni. Ma le zie e le sorelle ne parlavano sempre. Dicevano che era bella, dolce, bionda…».
Intanto, la «carriera» procede. E procede anche la scuola: «In teoria, data la mia età, avrei dovuto rimanere a casa e andare a scuola. Ma per fortuna al paese avevo un maestro meraviglioso. Lui e Creati sono stati i miei primi amici, i primi che hanno creduto nelle mie possibilità. Era un prete, don Raffaele, bravo, intelligente, capiva tutto. Mi ha molto aiutato».
Severino, se a sette anni e mezzo è solista nella banda di Roccasecca, a dodici è già primo flauto in quella di Taranto, «con un compenso di settecento lire al mese che nel 1931 era una bella cifra». Insomma, al «mercato delle bande» se lo contendono. A suon di soldi, naturalmente: così da Taranto passa a quella di Campobasso e poi a quella di Avezzano e poi ancora a quella di Sora e di qui a quella di Lanciano.
Ma è anche il tempo di andare al Conservatorio, a Roma. «Allora per i cento chilometri tra Roccasecca e Roma ci si impiegava mezza giornata, i treni erano pochi, le coincidenze impossibili. Quanto alla strada, poi, neanche a parlarne. Mica c’era l’autostrada, e neanche l’asfalto. Era tutta strada bianca, tutta polvere, uno stradone dove noi ragazzini andavamo a vedere Binda e Guerra quando facevano il Giro d’Italia, oppure la corsa di motociclette, Milano-Roma Taranto. C’erano sì le corriere, ma facevano, solo piccoli tratti, tra paese e paese, in un gran polverone d’estate e affondate nel fango d’inverno. Percorrere cento chilometri allora era un’impresa.
«(…) Al Conservatorio ci andavo tre volte la settimana. Sempre in treno, il più delle volte sui merci, cinque chilometri a piedi la mattina all’alba da casa alla stazione, cinque chilometri a piedi la sera, che era poi sempre notte fonda, dalla stazione a casa. E tante tante ore di quel maledetto treno per andare, tante e tante ore di treno per tornare».
Però, ne vale la pena: arriva, infatti, il diploma. Ma, appena dopo, anche la chiamata alle armi. La destinazione è Gaeta. Non è che se la prenda con comodo ma saluta questo, saluta quello, Severino a Gaeta ci arriva con un paio di giorni di ritardo. Quanto basta per buscarsi cinque giorni di prigione. Ma non se la prende più di tanto: ha con lui il fedele flauto. E, poi, sono in tanti quelli che si trovano nella sua stessa condizione: «Io soffiavo nel flauto e loro cantavano, vecchi cori dell’altra guerra, o canti dei loro paesi. Poi loro intonavano magari una canzonetta e io mi davo da fare con l’accompagnamento. Quando erano stufi di sgolarsi io andavo avanti con i concertini».
Questa «euforia» collettiva dura tre giorni. Il quarto, infatti, il colonnello comandante decide di intervenire. E, tra l’altro, vuole anche sapere chi è che suona il flauto: una conoscenza che darà i suoi frutti. Dice, infatti, Severino: «Perché è solo grazie al flauto se io la guerra non l’ho fatta, o per lo meno l’ho fatta in condizioni assai poco disagiate, esonerato subito dal servizio attivo in quel certo battaglione e trasferito all’ufficio di smistamento della corrispondenza, specialmente addetto alla posta degli ufficiali. La guerra l’ho passata prima a Gaeta a istruire i cori soldati, poi nel complesso artistico, si chiamava così, del Corpo d’Armata dove avevano riunito tutti i musicisti più bravi capitati sotto le armi».
Così fino all’8 settembre. Quando, in quello sbandamento generale, Severino non trova di meglio da fare che tornare alla sua Roccasecca, da dove, allorché il “clima” di guerra s’arroventa quanto basta da lasciar temere il peggio, con i suoi familiari, e come del resto fanno un po’ tutti, sale sulle più tranquille pendici del monte Cairo. Finché un giorno, stanco di quella vita da sfollato, non decide di scendere a Roccasecca, in compagnia dell’inseparabile flauto, dove, tra i militari del comando tedesco, c’è un capitano che era stato primo violino alla Filarmonica di Vienna. Sta di fatto che tra Severino e il capitano tedesco nasce un sodalizio artistico. E, con un lasciapassare, da Roccasecca può tornare a Roma: è, in pratica, il decollo verso il mondo. Verso il successo.
Con un occhio, però, sempre alla sua terra, a Roccasecca.Fra lui e Roccasecca, fra lui e il territorio, era un tutt’uno. Ma non in termini di mera esteriorità quanto, piuttosto, di un affetto critico e, dunque, sentito, sincero.
Aveva detto qualche mese prima di morire: «La situazione, in questo nostro territorio, non è delle più felici. Per favorire altri interessi, perdiamo quello che è più importante: la nostra cultura, le nostre tradizioni».
Per il suo non celato affetto per questa terra era stato anche oggetto di critiche: in pratica, essendo una gloria internazionale, non poteva perdere «tempo in serate nostalgiche tra le montagne della Ciociaria». Ma lui rispondeva: «Io, invece, adoro ‘perdere tempo’ in quel modo. E anche per andare a una partita di calcio, o a mangiare le fave con il pecorino insieme ai miei figli, o agli amici del paese. Mi piace perdere tempo a guardare le vetrine dei negozi, o a scegliere la frutta sulle bancarelle del mercato. È un perdere tempo che io considero vita». E, di vivere, aveva una gran voglia: «Più che paura di morire debbo dire che ho una gran voglia di vivere, e di vivere a lungo».
Ma in ciò, evidentemente, non è stato accontentato. Lo avrà tuttavia compensato di questo desiderio non esaudito l’aver potuto chiudere gli occhi laddove li aveva aperti alla luce, tra il grande affetto di chi era in qualche modo esaltato dal fatto di poter vantare questo rapporto umano e diretto con il «flauto d’oro», nonostante quella inevitabile patina d’invidia e di gelosia.
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