A proposito di briganti

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«Studi Cassinati», anno 2019, n. 3
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di Anna Maria Arciero

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12_Assemblea4Ho letto con vivo interesse il libro di Maurizio Zambardi, Il capobrigante Domenico Fuoco tra storia eleggenda, un’opera veramente corposa, dove con meticolosità sono riportati documenti e fatti che hanno riscontro storico accanto ad altri leggendari, tramandati dalla tradizione popolare.

Dell’episodio del capobrigante Cristofaro Valente, che dominava il territorio di Cervaro e che fu ucciso in un agguato, conosco una leggenda che si racconta nella zona di S. Lucia di Trocchio. Pare che questo brigante – «don Cristofaro» lo chiamavano – avesse costretto una ragazza del posto a fidanzarsi con lui e lei, obtorto collo, aveva dovuto acconsentire alle sue visite notturne. Quando arrivava, lui si sdraiava sullo scanno davanti al fuoco, poggiava la testa sulle ginocchia di lei e le chiedeva: – Cercami i pidocchi. – Era una pratica usuale all’epoca: non essendoci pozioni anti-pediculosi, l’unico rimedio per combattere i fastidiosi animaletti era scovarli nei capelli e schiacciarli tra le unghie. Considerata tale abitudine, il padre della ragazza si accordò con la forza pubblica, che si acquattò in gran numero tra le querce fuori dell’abitazione, in una notte buia e tempestosa; lui si nascose in cucina e, quando il brigante arrivò e, come suo solito, si sdraiò sullo scanno ad attendere, indifeso, il fatidico rito, uscì allo scoperto e gli inferse un colpo di accetta sul collo, uccidendolo. Gli altri componenti della banda, che lo avevano seguito, furono facilmente sopraffatti dalle guardie.

Con la storia narrata da Maurizio Zambardi ci sono vari riscontri: il cognome Valente, comunissimo nella zona, il fatto che Cristofaro Valente morì in un agguato e che poi per la sua uccisione fosse stato giustiziato da altri briganti un contadino di nome Benedetto Di Nallo, cognome anch’esso comunissimo nella zona. Certamente, come dice Nicosia – citato da Zambardi – l’immaginazione popolare avrà ritoccato con carica emotiva il fatto, ma il fondo di verità rimane.

C’è poi un’altra storia brigantesca che mi raccontava sempre mia madre, classe 1912: suo nonno Angelantonio, possidente benestante, aveva dovuto prestare a suo fratello una forte somma di denaro perché i briganti gli avevano sequestrato il figlioletto e avevano chiesto il riscatto, pena il taglio dell’orecchio. Il ragazzino, abbastanza sveglio, riuscì però a fuggire e raccontò di essere stato portato a monte Leucio. Naturalmente il riscatto non fu pagato. Mia mamma lo raccontava con orgoglio, per mettere in mostra, più che la generosità del nonno, la sua disponibilità finanziaria.

Un altro episodio in cui i briganti rimasero beffati riguarda la zona di Foresta, sita nella zona ovest di monte Trocchio, dove tuttora esiste una sorgente a cui si arriva percorrendo via «Fontana dei banditi». Evidentemente, trovandosi nel folto di querceti secolari, la sorgente era luogo frequentato dai briganti. Poco lontano, in un povero casolare sulla costa del monte, abitava la famiglia Marandola: padre, madre e una figlia, Francesca, molto bella e giovanissima – classe 1846 – . Una sera, mentre un suo corteggiatore, Fedele Arciero, abitante sul versante est, valicava l’altura con un accompagnamento di amici per portare la serenata, anche un gruppetto di briganti si avviava verso il casolare. Arrivarono per primi i briganti e irruppero nella stanza dove era accesa una candela. Il padre ebbe la prontezza di buttarla a terra, per dar modo a Francesca, nel buio, di svignarsela dalla parte posteriore. La ragazza, spaventata e temendo il peggio, si buttò in un cespuglio di rovi. Intanto arrivava la comitiva canterina di Fedele e i briganti scapparono via. Francesca fu soccorsa prontamente dal suo salvatore, che però non fu ricompensato con un sì. Lei gli preferì un certo Francesco Sidonio della sua zona, ma la storia della disavventura coi briganti la narrava sempre sua figlia Geseppella – classe 1884 – andata sposa ad un Arciero del versante est di Trocchio. Come si evince dalle date di nascita, la storia e la toponomastica sono compatibili con gli avvenimenti briganteschi dell’epoca.

Altro brigante rimasto vittima della sua stessa presuntuosa ignoranza fu quel tale di Villa Latina, che disse al barbiere che gli radeva la barba: – Questa è l’ultima barba che mi fai. – Il tono era enigmatico per il barbiere, il quale, temendo il peggio, affondò la lama nel collo del suo cliente. E così, all’istante, si avverò la profezia.

A giudicare da questi episodi che si raccontano, forse la tradizione popolare ci ricama un po’ su per mettere in luce, più che le efferatezze, l’ignoranza e l’ingenuità di certi comportamenti, quasi a voler dimostrare che, per quanto crudeli e prepotenti, quei fuorilegge erano spesso sopraffatti dalle persone amanti del quieto vivere.

Forse si ricama anche sul brigante Domenico Coia, di Cerasuolo, piccolo borgo della zona di Isernia, i cui discendenti raccontano con orgoglio che era una specie di Robin Hood : rubava sì ai ricchi, ma per donare ai poveri abitanti della sua terra, di cui conosceva le condizioni miserevoli.

Come diceva Gabriel Garcìa Marquez «La vita non è quella vissuta, ma quella che si ricorda per raccontarla».

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