Aggressioni e stupri degli uomini in tonaca a strisce nel Cassinate (1943-44)

 

Studi Cassinati, anno 2014, n. 4
> Scarica l’intero numero di «Studi Cassinati» in pdf
> Scarica l’articolo in pdf
.

di Giovanni Petrucci

Premessa
Dalla lettura del libro di Andrea Paliotta, La Diaspora Cassinate, abbiamo appreso tante notizie raccapriccianti sull’improvviso arrivo delle truppe marocchine a Esperia e nei paesi vicini. Furono scene di violenza inaudita, violenza che ricorda quella dei barbari dei millenni passati a finire a quella nel Cossovo di qualche anno fa, quando i soldati violentavano le ragazze e rompevano loro gli incisivi perché esse restassero col marchio di infamia sul volto e non potessero più andare in sposa.
Oggi non si parla più del proclama che il generale Juin tuonò ai suoi uomini alla vigilia delle operazioni sulle nostre terre: «Soldati[…], che avete un sorso di cognac prima della battaglia, che dovete contentarvi delle prostitute arabe al seguito delle salmerie, che rischiate la degradazione, il palo, la fucilazione ogni volta che vi avvicinate ad una donna dalla pelle bianca e la carne tenera, che leggete il disgusto negli occhi belli di queste belle donne nemiche, ma calde[…]. Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga e ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro Generale vi promette, vi giura, vi grida che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà. Per cinquanta ore.[…]»1.
Sono parole dure, che un uomo non poteva pronunciare!
Ammettiamo che non siano vere! È certo però che i generali De Gaulle, Juin, Guillame, Monsambert e gli alti Ufficiali sapevano e forse acconsentivano2; dobbiamo anche precisare che gli stessi Comandanti temevano i Marocchini3 e che i soldati francesi non restarono insensibili alle grida strazianti.
A noi sembravano strani, alcuni con la testa rapata e un lungo codino sulla nuca, i denti bianchi con una finestrella nera causata da uno spezzato: tutti puzzavano ed erano sempre allegri.
Gli stupri furono compiuti da tali combattenti e anche da altri dalla pelle scura.

Esperia
Forse alla popolazione di Esperia e ai molti sfollati riuniti sulle montagne per sfuggire ai pericoli dei bombardamenti e cannoneggiamenti, protesi a salvare la vita, le notizie sul comportamento dei primi erano arrivate non con precisi riferimenti. I Tedeschi avevano avvertito.
Essi, seguendo i loro istinti, ignorando le norme di convivenza umana, agivano come per un sadico giuoco, davano spettacolo delle loro nefandezze e della loro ingiustificabile crudeltà: «la fanciulla crocifissa ad un albero nuda per il sollazzo di tutta la soldataglia che passava (poco dopo morì in manicomio), i padri che si fecero uccidere per difendere, invano, le loro figlie, le vecchie che si offrivano per salvare le giovani, purtroppo nella maggioranza dei casi, senza esito positivo»4.
«Le Truppe del Corpo di Spedizione Francese raggiunsero Vallemaio il 14 maggio, Sant’Apollinare, San Giorgio a Liri e Ausonia il 15, monte Petrella il 16, Esperia e la Catena dei monti Aurunci il 17. Il 18 mattina, alle ore 10,30 i Polacchi del gen. Anders piantarono la loro bandiera sulle macerie dell’Abbazia»5.
Nella cittadina si erano rifugiate migliaia di famiglie ed aspettavano la liberazione! I bestioni di passaggio sostarono tempo limitato ma compirono di sorpresa, senza dare scampo, azioni che hanno lasciato il segno per tutta una vita: difficilmente si cancelleranno anche nelle future generazioni. Si abbatterono sul paese per qualche giorno come una valanga, «[…] lo tsunami travolse tutti quelli che si trovavano sugli Aurunci, indistintamente»6, centinaia di persone.

Sant’Elia
Il territorio di Sant’Elia venne liberato all’imbrunire del 16 gennaio 1944, da pattuglie della Terza Divisione di Fanteria algerina comandata dal generale Monsambert. Da allora fino al 17 o 20 febbraio, dopo la distruzione di Montecassino, pochi santeliani rientrarono in paese, gli altri, quasi tutti, restarono nei loro ricoveri per le montagne circostanti, in attesa che il fronte si spostasse definitivamente da Cassino. Per oltre un mese furono a contatto quotidiano con i camiciotti a strisce marroni. Tuttavia dopo il bombardamento dell’Abbazia, prevedendo che i combattimenti si sarebbero prolungati e forse volendo che i civili si mettessero in salvo o rilevando che erano di intralcio alle operazioni dei combattimenti, il Comando francese li obbligò ad andar via dai loro rifugi. Essi, non solo da Sant’Elia e dalle frazioni di Valleluce, Olivella e Portella, ma anche dai paesi vicini di Terelle, Valvori e Belmonte Castello, venivano riuniti nel palazzo Lanni in Via delle Torri; di qui alla sera, al buio pesto, perché non venissero avvistati dai tedeschi di Monte Cifalco, in fretta salivano su dodg dagli alti cassoni ed avviati alla volta di Venafro attraverso Cerreto, la pineta di Vallerotonda, Acquafondata, Ceppagna per un viaggio che durava una notte intera. Solo pochi partivano da Portella, proseguivano per S. Michele, passavano per la Casilina, poi per la Strada Longa e le Tre Torri.
Tutti arrivavano al Centro di smistamento del Convento di S. Chiara a Venafro e di qui sfollati in paesi e città dell’Italia meridionale.
Al loro arrivo, i santeliani furono presi alla sprovvista e costretti a subire e così avvennero episodi che destano orrore al ricordo.
È bene, però, fare qualche precisazione a riguardo.
Intorno al 17 febbraio 1944 si verificò la caduta del camion alla curva della strada di Vallerotonda, all’altezza della Loggia di Portella; ci furono dei feriti, ma morirono di certo tutti gli occupanti e si salvò solo un ragazzo, Pasquale Marra7. I soldati addetti erano certamente giovani inesperti della guida come dichiara lo scrittore Jacques Robichon8, e i camion erano di difficile manovrabilità specie per le strade strette e dal fondo mal ridotto dai continui cannoneggiamenti; ma essi impararono subito a simulare incidenti. Dimostravano particolare abilità a deviare leggermente al margine della strada, in zone fuori pericolo, come a Cerreto, prima di entrare nella pineta, o su, alle Serre di Acquafondata. Durante le notti di freddo, sotto la neve o la pioggia insistente, l’autista approfittava del panico diffuso tra coloro che cercavano la salvezza. Bravi commilitoni sceglievano la preda, la isolavano e la costringevano…!
Nel Centro di smistamento di Palazzo Lanni, nelle famiglie che si accingevano a sfollare era diffuso un vero terrore, che si aggiungeva ai pericoli cui si andava incontro. Le donne dovevano stare attente, sempre unite e non allontanarsi mai dai loro uomini!

Gli episodi
I santeliani, conosciuto il comportamento delle bestie armate, che girovagavano sempre in coppia, passato lo smarrimento iniziale, impararono a sfuggire, a nascondersi e, in certi casi, ad opporsi con la forza fisica, o ricorrendo addirittura alle loro stesse armi. Ormai queste erano ammucchiate in ogni dove ed era facile procurarsele.
A Campo di Manno, un caseggiato distante poche centinaia di metri in linea d’aria da Valvori, in una stanzetta a piano terra giaceva a letto Antonietta (*), incinta di otto mesi e malata. Delirava e pie donne, da vere cristiane, si trattenevano da lei, dandosi il cambio, cercando di confortarla e le approntavano decotti di camomilla e di fiori di tiglio senza zucchero. Anche un tenente medico francese, assai distinto e giovane, si recava puntualmente da lei e le procurava qualche medicinale. Ripetevano che durante il giorno stringesse un cuscino al petto, ritenendolo il suo bambino. Un pomeriggio del 30 gennaio arrivarono due in tonaca a strisce e spalancarono la porta. Uno si fermò sul limitare, imbracciando il fucile a gambe divaricate come a guardia e l’altro entrò senza nascondere le sue voglie alle anziane che stavano col santo rosario tra le dita intorno al letto della morente. Alcune vecchiette corsero gridando con le mani nei capelli scarmigliati al Comando francese distante venti passi a chiedere aiuto e noi ragazzi restammo impalati dal terrore lì vicino. Mattia, un giovane aviere, cognato della partoriente, chiese ad Enrico di spostarsi e comprendemmo che era pronto a sparare. Non fiatammo. Era tornato da Aquino dopo il bombardamento del 19 luglio ed era armato. Per fortuna arrivarono gli ufficiali francesi che, con le pistole spianate, imposero ai due ribaldi di andare subito via. Ci fu una colluttazione all’interno, nei pressi del letto, ma tutto si risolse per il meglio9.
Il pomeriggio della domenica 6 febbraio, Angelo Palombo, che tutti conoscevano col diminutivo ‘Ngeliglio, accorse alle grida di aiuto di alcune sue vicine, riunite proprio nella sua masseria delle Chiaie per prestarsi aiuto vicendevolmente in caso di necessità. Era un pezzo di uomo aitante e sprezzante del pericolo; fece in tempo a prendere la vanga dinanzi alla stalla e ad assestarla sul braccio destro della sentinella di spalle e di guardia; l’uno e l’altro, che aveva deposto il fucile per menarsi sulla preda, furono costretti a scappare, abbandonando anche le armi10.
Il giorno seguente, di mattina, di fronte al Raticcio, sotto il canale, due in burnus si avvicinarono furtivamente, videro una gallina che razzolava in un recinto, la presero e pensarono di portarla via; avevano in mente anche qualche altra bravata! Si accingevano ad andarsene, quando sbucò come una furia dal ricovero, scavato nella scarpata dell’altura Antonio Arciero, un giovane forte e coraggioso che era ritornato da alcuni mesi dal fronte; si avventò contro i due, si impossessò dei loro fucili, tolse i percussori e li buttò nel fiume; poi gliene diede di santa ragione con una verga gridando come un ossesso: «Questa mi serve per mia moglie che aspetta un bambino!»11.
Nel caseggiato di (*) le famiglie cercavano di far rintanare le ragazze in anfratti, nelle parti più interne e buie dei ricoveri, ma quelli sapevano che erano tenute nascoste. Una sera del 10 febbraio infatti minacciarono di lanciare bombe a mano contro le abitazioni, se le ragazze non fossero uscite.
Arrivò come un falco l’arciprete don Gennaro Iucci che, vestito come loro ma completamente di nero, li prese a bastonate e li mandò via a […]12.
Qualche giorno prima del bombardamento dell’Abbazia, fecero irruzione in uno dei ricoveri del Raticcio dove trovarono una donna e dimostrarono chiaramente di volerne abusare alla presenza di tutti, grandi e piccoli; perciò le strapparono gli abiti di dosso mentre lei si dimenava con tutte le forze e gridava come un ossesso. Sbucarono dal buio i figli, si avvicinarono impavidi, poi vennero fuori altri ricoverati dall’interno e le bestie, alla vista di tanta gente forse disposta a tutto, pensarono bene di darsela a gambe. Nell’allontanarsi però lanciarono due bombe a mano per spaventare chi era presente ed evitare azioni alle loro spalle13.
Il mio amico Fernando raccontava che durante lo sfollamento alla volta di Venafro, di notte, alla Serre di Acquafondata ci fu il solito studiato tentativo di capottamento. I neri si resero conto dello stato di salute della sorella e la fecero accomodare in cabina di guida. Se non che, dopo qualche chilometro, improvvisamente Fernando riconobbe la sua voce, gli urli, il pianto. Corse sulle ginocchia dei viaggiatori e raggiunse il finestrino che dava sull’autista. Aveva con se un temperino da ragazzi, che in quell’occasione al balilla fu particolarmente utile. Tagliò il telone e mise la lama al collo del commilitone che aveva ceduto il suo posto. Si fermò l’intera autocolonna, ma la ragazza, lasciata sulla neve, fu salva!
Nell’immediato dopoguerra tutti sapevano che la Storta aveva ucciso con un’accettata un barbuto e lo aveva precipitato nel Rio Valleluce.
Qualcuno cominciava ad accennare a lotte da pari a pari; oggi, a distanza di settanta anni, quando ormai sono scomparsi i protagonisti, in paese, nei crocicchi, si sussurrano tra i denti all’orecchio notizie non so se vere: un dodicenne pensando di poter liberare la madre, catturata da due di quelli, con una bomba a mano a limone ne colpì alla testa uno; ma lo scoppio uccise anche la poveretta e il socio; un uomo temeva per la moglie e le due figlie perciò si era armato e si teneva sempre appartato. Un pomeriggio stranamente ne arrivò uno solo e non celò le sue intenzioni. Ma fu colpito e gettato nel Rapido.
Forse di tali episodi, di cui vagamente si sente qualche accenno, ne accaddero altri, che sono rimasti sepolti nella memoria. Quando nella primavera del 1945 vennero soldati dell’esercito algerino per traslare i corpi nel cimitero militare francese di Venafro, ne trovarono tanti in posti isolati»14.
Fortunatamente presto, nel 1950, intervenne pietosamente lo Stato Italiano per il risarcimento dei danni subiti. La somma complessiva di L. 39.394.054 venne equamente divisa: si intascò con piacere in quei tempi bui, intanto il denaro distribuito fu una seconda, più grave ed indelebile offesa!
Così va il mondo!


1 A. Paliotta, La Diaspora Cassinate, CDSC-onlus, Cassino 2014, p. 277-278.
2 B. D’Epiro, Linea Dora. La battaglia di Esperia, Sant’Elia F. R. 1994: «[…] Il Maggiore della riserva francese, Grandmougin, rivelò “come quegli scempi non si potessero evitare, giacché i Marocchini non avrebbero mai rinunciato, dopo il combattimento, alle loro usanze di guerra, alle donne e al bottino”. Il Gen. Guillaume, che li guidava per gli aspri sentieri degli Aurunci, ben sapeva che tipo di gente fossero i Goumiers, della loro crudeltà, ferocia e aggressività, ma in quelle terribili giornate di orrore, di morte, nulla fece».
3 B. D’Epiro, Dramma di un popolo, Cassino 1982, p. 157: «Gli ufficiali, mentre i Marocchini predavano, se ne stavano chiusi nei rifugi, impauriti loro stessi». Anche io ho assistito addirittura ad atti di ribellione con fucilate.
4 Dall’articolo di Giancarlo Callegari riportato in A. Paliotta, La Diaspora … cit., p. 261.
5 G. de Angelis-Curtis, Introduzione in A. Paliotta, La Diaspora … cit., p. II.
6 A. Paliotta, La Diaspora … cit.
7 L’episodio è rievocato in «Studi Cassinati», n. 2, aprile-giugno 2006, p. 109.
8 J. Robichon, Le Corps Expeditionnaire Français en Italie 1943/1944, Paris 1981. In un passo del libro, l’autore riferisce di un incidente accaduto per cause diverse lungo la strada Sant’Elia-Acquafondata: che forse si riferisca a quello occorso la notte del 17 febbraio? Certo è che l’autore definisce i «conducteurs[…] peu familiarisés encore avec l’effrayant engin».
9  Testimonianza oculare di chi scrive.
10 Testimonianza del prof. Giovanni Palombo, figlio di Angelo.
11 Dai ricordi di Fulvio Vacca.
12 AA.VV., Cinquantesimo Anniversario degli eventi bellici 1943-1993, Comune di S. Elia Fiumerapido, S. Elia Fiumerapido 1993, p. 67.
13 Testimonianza di Benedetto Rodi nato il 7 agosto 1933.
14 D. A. Lentini, Echi di Montecassino, gennaio-giugno 1979, p. 42: «[…]Si diedero subito a scavare nel nostro orto, ma trovarono soltanto un militare loro […]».

(147 Visualizzazioni)