Studi Cassinati, anno 2014, n. 4
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di Filippo Carcione*
Eccellenza Reverendissima, cari sacerdoti, dirigenti scolastici, docenti, catechisti e amici tutti.
Più volte abbiamo vissuto insieme momenti di cultura e convivialità come quello presente, grazie all’instancabile opera di don Luigi Casatelli1, il quale, sin dal suo arrivo a Pontecorvo nel 1993, ha sempre legato la sua attività pastorale alla valorizzazione della memoria storica, convinto che un maturo Popolo di Dio non può ignorare la propria carta d’identità, regalando nel tempo tanti studi cui oggi si aggiunge quello dedicato a Luca Spicola che a Pontecorvo ebbe i natali nel 1432, forse nel territorio parrocchiale di S. Maria in Porta, ma poi cresciuto umanamente e spiritualmente sotto il glorioso campanile dell’Annunziata, allora legato all’alto magistero della scuola domenicana. Giovanissimo, indosserà il saio del suo illustre conterraneo S. Tommaso d’Aquino, portandone dal 1454 l’impegnativa eredità prima a Napoli, dove diverrà priore di S. Domenico Maggiore, e qualche anno dopo a Gaeta, dove lascerà la sua impronta di parroco esemplare nella locale Chiesa di S. Domenico, per poi far ritorno definitivo a Pontecorvo in prossimità di quel fatidico 1490, quando terminava i suoi giorni proprio nella città dove aveva visto maturare i frutti della sua vocazione religiosa. Ivi sepolto, verrà, però, ben presto reclamato a Gaeta: qui le sue spoglie mortali, nascoste con documenti d’archivio e pezzi d’argenteria per evitare avidi saccheggi, sarebbero, purtroppo, rimaste così ben occultate da sottrarsi all’individuazione dei posteri. In realtà, le scarne fonti pervenute non ci permettono appunti biografici più dettagliati; tuttavia, quanto sappiamo è sufficiente a farci ricostruire un’attendibile cornice in cui collocare il messaggio teologico di Luca Spicola, che la memoria domenicana già venerava poco tempo dopo la morte, alla data del 22 aprile, ricordandone il modello di vita e le proprietà taumaturgiche, di cui aveva dato ampio saggio. Proveremo, dunque, attraverso i ricchi stimoli forniti dal pur agilissimo testo che presentiamo e sulla scorta simbolica della ricostruzione storiografica che vi viene data, a delineare un plausibile prospetto dei temi dottrinali che il Beato, da buon predicatore domenicano, dovette tenere in agenda in quel tempestoso XV secolo, nonché un sunto del valore iconologico che in epilogo la sua prosopografia permette di abbozzare.
L’arrivo dei Domenicani a Pontecorvo
Approvata istituzionalmente nel 1216 da papa Onorio III, l’esperienza, cui aveva dato avvio a Bologna il sacerdote castigliano Domenico di Guzman (1170-1221), si caratterizza per due elementi essenziali: A) una vita di povertà sine proprio et commune, tanto da essere annoverato al pari della realtà francescana come un Ordine Medicante; B) una capillare difesa militante dell’ortodossia, tanto da meritare per il nome d’ogni suo membro l’originale qualifica personale con la sigla canonica di Ordo Predicatorum. Quest’ultimo aspetto è, insomma, l’elemento d’orgoglio in un’identità domenicana divenuta ben presto autorevolissima nelle migliori scuole europee con i suoi ottimi docenti, tra i quali Tommaso d’Aquino (1225-1274) s’era man mano imposto nella venerazione dei posteri come l’emblema superlativo, ottenendo nel 1323 la canonizzazione di Giovanni XXII dalla sede avignonese e suscitando movimenti per gloriarsi di ospitare le sue spoglie mortali, finché nel 1369 la città di Tolosa, ormai baricentro dell’intelligenza accademica nel Vecchio Continente, forte d’un Papato al momento d’impronta gallicana, non aveva avuto buon gioco definitivo, avocandone la traslazione da Fondi, dove il Dottore Angelico riposava dopo la morte avvenuta nella vicina Fossanova. In questo clima, in cui il legame con S. Tommaso irradiava dentro l’universo cristiano qualunque realtà ne rivendicasse qualche titolo, certamente anche il suo territorio d’origine, cioè la nostra Diocesi, volle avere una parte: troppo piccola per avanzare altri tipi di richieste dinanzi alla voce dei grossi potentati, essa cercò almeno di avere in loco una presenza domenicana, segno imperituro di un affetto e di una fierezza per aver dato i natali all’illustre personaggio. È così che tra il XIV e il XVI secolo si registra gradualmente la ramificazione di comunità domenicane: a Pontecorvo, dove dal 1382 gestiscono una preziosa attività ospedaliera annessa all’Annunziata; a Roccasecca, dove dal 1478 s’occupano della chiesa lì dedicata al Dottore Angelico all’indomani della canonizzazione; ad Aquino, dove c’è notizia di un convento soltanto nel 1581.
Il primato pontecorvese in questa ripartizione deve, a mio avviso, essere collegato alle tristi vicende di Aquino, che certamente nel 1581, quando il vescovo Flaminio Filonardi celebra un sinodo applicativo del Tridentino, pur restando centro diocesano de iure, ormai da tempo non lo è più de facto, giacché l’assemblea si tiene a Pontecorvo, dove l’Ordinario risiede e dove s’avvia il Seminario reso struttura d’obbligo ad ogni Chiesa locale per la formazione del proprio clero dopo il XIX Concilio Ecumenico: siamo, in sostanza, in quella marcia della storia, che nel 1725 porterà Benedetto XIII (Cum excelsa sedis) a dare finalmente traduzione canonica ad una concreta situazione plurisecolare, elevando Pontecorvo a sede diocesana aeque principaliter con Aquino e, conseguentemente, la Collegiata di S. Bartolomeo al rango di Cattedrale.
Ma da quando il Vescovo aveva lasciato l’antica residenza di Aquino per trasferirsi a Pontecorvo? La storiografia, carte alla mano, deve al momento rispondere ab immemorabili. Ciò nonostante, non mancano piste per orientare un’ipotesi. In effetti, nel 1252, Corrado IV aveva distrutto Aquino perché nella lotta fratricida per la successione a Federico II s’era schierata da parte dell’antagonista Manfredi. È plausibile che questa data segni il giro di boa nella storia della città dopo i fastigi antichi interrotti dalla distruzione longobarda nella seconda metà del VI secolo ma ripresi radiosamente con l’ascesa della Contea emancipatasi tra IX-X secolo dal rapporto di vassallaggio a Capua, di cui era stata fin lì un semplice gastaldato. Dalla metà del XIII secolo il crollo demografico e il degrado ambientale, che seguirono alla ritorsione militare dell’imperatore transalpino, dovettero sortire anche la sventura della struttura diocesana, inducendo il Vescovo a riparare nella vicina Pontecorvo, che, nata intorno all’860 come incastellamento di un sobborgo periferico aquinate, viveva ora il rovesciamento della precedente relazione. Cresciuta di popolazione e di solidità economica dopo l’ingresso nella Terra S. Benedicti dal 1105, in salute politica e istituzionale dopo aver ottenuto un primo statuto che nel 1190 poneva in itinere la marcia verso un’organizzazione municipale, con un clima più salubre rispetto a quello paludoso di un Vallone aquinate abbandonato alla deriva dopo il crudo passaggio tedesco e destinato ad un avvio di risanamento solo con l’epoca dei Boncompagni (XVI secolo), nulla di strano che questa città s’imponesse anche come nuovo baricentro ecclesiastico locale. I Domenicani arrivano, dunque, a Pontecorvo come prima città del territorio, perché qui nel 1382 vennero accolti da un Vescovo che con tutta probabilità, pur mantenendo il titolo di Aquino, vi risiedeva stabilmente, al di là delle traversie epocali segnate dal grande scisma d’Occidente, da almeno un secolo ed aveva ogni interesse a fruire più direttamente del loro prestigio intellettuale e della loro capacità operativa.
Il dibattito teologico all’epoca di Luca Spicola
Quando nasce Luca Spicola, i Domenicani erano ormai arrivati a Pontecorvo da mezzo secolo. Era stato quello un periodo di intrigate vicende ecclesiastiche connesse ad un intenso e infuocato dibattito teologico, che si possono ricondurre a tre tematiche principali, e cioè il conciliarismo, la rilettura dogmatica del neo-platonismo e la polemica orientale.
Anzitutto, s’era consumato, non molto dopo il ritorno romano del Papato dalla cattività avignonese (1305-1370), il «grande scisma d’Occidente» (1378-1417), che, fattosi sentire in tutti gli angoli dell’Europa e, dunque, anche nella stessa Pontecorvo, a un certo punto, con il Concilio di Pisa (1409), s’era ulteriormente complicato, portando addirittura a tre i candidati alla successione di Pietro. C’era voluto il Concilio di Costanza (1414-1419) per rimettere ordine in una cristianità alquanto disorientata, trovando una convergenza unitaria sulla persona di Martino V; ma l’esito della vicenda aveva dato ansa alle tesi di quanti in Occidente andavano accreditando il Concilio come massimo organo di garanzia ecclesiastica, visto che le tradizionali rivendicazioni della Sede Romana quale suprema espressione di autorità sembravano essere naufragate nelle risse di parte. Come se non bastasse, dinanzi all’incertezza dilagante in un consesso ecclesiale che per i propri difetti stava rischiando la diaspora irreversibile dell’unità, tornava forte e cupo il velo mai dismesso del dualismo platonico sempre pronto a strumentalizzare il vessillo agostiniano per azzerare nella vita spirituale ogni capacità antropologica e ricondurre, di conseguenza, ogni movimento positivo alla predestinazione di Dio, così riportando la lancetta della storia a prima dell’impegno speculativo di S. Tommaso, che tanto s’era adoperato per restituire dignità e valore al libero arbitrio dell’uomo in un dialogo teandrico poggiante sull’equilibrio perfetto tra fede e ragione, grazia e merito. In questo clima, se Guglielmo Occam (1288-1349) aveva rilanciato il tema dell’equazione tra umanità e male dopo il peccato originale, sortendo una concezione del disastro genesiaco riparabile unicamente da Dio, Giovanni Wycliff (1320-1384) aveva rimarcato l’inutilità di qualsiasi azione umana a fini soteriologici e battuto la strada al superamento della Chiesa come depositaria d’una mediazione sacramentale tra Dio e l’uomo, laddove la Parola dell’Onnipotente sedimentava direttamente e imperscrutabilmente nel cuore dei suoi eletti, con ciò liquidando l’impalcatura gerarchica, per concimare quel principio di comunità laicale, perfezionato poi da Giovanni Hus (1371-1415), in cui si siede tutti alla pari in forza del Battesimo, vivendo la Cena eucaristica (rigorosamente sotto le due specie) senza letture soprannaturali ma come adesione spirituale alla Parola. Quantunque ancora in cantiere come agenzia di sistemazioni teologiche mature, molto protestantesimo era stato già concettualmente anticipato, dal momento che sola fides, sola gratia, sola Scriptura sembravano ormai profilarsi come unici orientamenti esistenziali di un credente, a cui meriti, buone opere e tradizione ecclesiastica venivano prospettati come devianti impalcature umane. Da ciò si evincono, per effetto, i grandi temi, su cui l’apologetica domenicana era impegnata nella predicazione giornaliera, ovvero il progetto di restituire credibilità alla Chiesa e ai suoi riti, specie i sacramenti di guarigione (la «Confessione» e quello allora noto come «Estrema Unzione»), che chiamavano in causa il suo potere di «sciogliere e legare» (Mt 18,18), nonché la capacità donatale da Dio di ottenere l’alleviamento delle sofferenze, sia nell’oggi della storia («dalle malattie fisiche e spirituali») sia in prospettiva escatologica («dalle pene del Purgatorio»), intercedendo presso l’Altissimo con la promozione di speciali momenti di grazia («le indulgenze)» o per i meriti dei suoi figli migliori («i santi»).
Accanto a questi motivi, non cessava, infine, l’attenzione alla polemica mai sopita con l’Oriente, dal momento che il grande scisma di Michele Cerulario (1054) aleggiava incessantemente sui rapporti ecumenici con tutti i suoi effetti nefasti, a dispetto dei recuperi unionisti più volte tentati, dei quali il II Concilio di Lione (1274) restava nel diario ecclesiastico come quello che più aveva fatto sperare, giacché, almeno per un attimo, il grosso scoglio rappresentato dall’aggiunta latina del Filioque (= Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio) era apparso superabile alle istituzioni bizantine. L’imperatore Michele VIII Paleologo (+1282) e il patriarca Giovanni Bekkos (+1296) avevano sottoscritto l’accordo, ma, rientrati in patria, s’erano persi nella burrasca della reazione greca che continuava ad agitare la lista delle tradizionali posizioni anti-romane: oltre a rivendicare la processione dello Spirito Santo solamente ex Patre (e non anche Filioque), essa non smetteva di difendere l’assetto pentarchico calcedonese (451) disposto, nelle interpretazioni più generose, a ritenere il Papa un primus inter pares, all’interno di un’ecclesiologia, in cui non vi sono una Chiesa madre e le sue figlie, ma solo Chiese sorelle, al più sorelle maggiori alcune di loro (cioè i patriarcati di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme), mischiando, poi, con questi elementi teologicamente più significativi altri via via più banali come i vari rimproveri al costume occidentale di chiedere ai preti il celibato, di usare nella liturgia eucaristica il pane non lievitato, di sospendere il canto dell’alleluja nel periodo quaresimale e, addirittura, di imporre ai chierici la tonsura.
I pilastri dottrinali della formazione a Pontecorvo
In questo coacervo di tensioni, matura la formazione teologica di Luca Spicola alla scuola domenicana, che, all’ombra dell’Annunziata, lo assiste negli studi, fornendogli una solida piattaforma dottrinale, che doveva fondarsi certamente su due pilastri e cioè sul tomismo, ovvero l’inalienabile quanto prestigioso “marchio di fabbrica”, e sul Concilio di Ferrara-Firenze-Roma (1438-1445), XVII Ecumenico nella storia della Chiesa, convocato da papa Eugenio IV per rispondere ai grandi quesiti epocali, che, al netto dei contenuti, ruotavano principalmente sul Primato pontificio, l’esistenza del Purgatorio e la processione dello Spirito Santo.
La discussione sul Primato pontificio era stata scottante nel nostro territorio: cellule conciliariste avevano preso terreno a Montecassino, al punto che nel 1437 era dovuto intervenire direttamente Eugenio IV a scomunicare l’abate Pirro Tomacelli, che parteggiava per il Concilio di Basilea, inaugurato nel 1431 e rimasto aperto anche quando, nel 1438, vista la piega anti-romana che esso aveva preso, il Papa aveva cercato di chiuderlo d’autorità per trasferirlo a Ferrara, ma senza ottenere risultati tempestivi, visto che quell’assemblea si trascinerà ugualmente fino al 1449, dopo aver finanche eletto, nel 1439, un temporaneo anti-papa nella persona di Felice V.
Il primo nucleo, su cui venne preparato per la predicazione il novello frate domenicano Luca Spicola, non poté, dunque, sicuramente disertare questo aspetto: bisognava, infatti, riaffermare la dottrina della monarchia Petri, secondo cui il mandato speciale, affidato a Pietro da Mt 16,18 (Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam) per porlo come riferimento assoluto del collegio apostolico e organo supremo di governo nella nascente comunità cristiana, è ereditato pienamente dai vescovi di Roma, suoi successori nella sede dove egli mori martire, i quali nella storia sono chiamati a continuare l’esercizio del suo ministero come tribunale ultimo della Chiesa (Roma locuta causa finita). Di conseguenza, il Concilio Ecumenico fonda la sua autorevolezza canonica nella misura in cui si svolge cum Petro e sub Petro, cioè è valido se contempla la partecipazione del Vescovo di Roma e si mette a servizio dei suoi indirizzi, giammai in contrapposizione. In tal guisa, l’apologetica cattolica del tempo, di cui i Domenicani sono tra i megafoni più qualificati, replicava alle rivendicazioni conciliariste, che già da allora sedimentavano le spinte nazionaliste degli episcopati locali, i quali, attraverso rapporti di forza all’interno del Concilio, prendevano a portare la voce e gli interessi delle corone regie che si andavano allora consolidando e che, nei secoli a venire, terminato il loro processo di emancipazione, confezioneranno quell’assolutismo di stato invasivo persino nella speculazione teologica, laddove prenderà a sponsorizzare, con bieca strumentalizzazione, prodotti ecclesiologici drasticamente anti-romani come il gallicanesimo e il febronianesimo.
Non di meno, i chiarimenti in merito avevano effetti benefici nel contenere le spinte della polemica sul fronte orientale, ribadendo che il Primato pontificio è molto più che una tollerata preminenza onorifica di un patriarcato sugli altri, in quanto non era stato dettato da contingenze storico-politiche che un tempo avevano fatto di Roma la capitale dell’Impero, bensì scaturiva da una precisa volontà del Cristo, che, pur avendo dato a tutti gli apostoli il potere di «sciogliere e di legare» (Mt 18,18), aveva però anch’essi compreso nella subordinazione a Pietro, laddove finiva per riservare esclusivamente a quest’ultimo l’imperativo di «pascere le sue pecorelle» (Gv 21,15-17).
I temi della predicazione a Napoli
Il successivo segmento biografico, che vede Luca Spicola operare dal 1254 nel quartier generale domenicano di Napoli costituito dalla Chiesa di S. Domenico Maggiore, si scontra con un ambiente regio particolarmente diffidente nei confronti del Papato: qui la corona aragonese s’era dovuta affermare con forza sugli Angioini, che erano stati sostenuti da Roma, al punto tale che nel 1437 il papa Eugenio IV era giunto a scomunicare Alfonso I, definendolo usurpatore. Nel 1443 c’era stata una pacificazione formale, ma la rotta di collisione era rimasta tutta tra soggetti istituzionali che correvano, senza potersi incontrare, su rette parallele della storia, in quanto da un lato il Papato continuava a guardare il Regno di Napoli con un’ottica conservatrice di stampo feudale pretendendone una relazione vassalla in ogni movimento, mentre dall’altro lato il Regno di Napoli, sull’onda delle trasformazioni europee, non solo pativa ogni giorno di più l’ingerenza ma, al contrario, cominciava ora a ritenere le strutture ecclesiastiche del proprio territorio come un corpo gregario, quanto gli altri, alla ragione di stato. E nel 1463 le tensioni mai spente erano di nuovo esplose crudamente proprio a riguardo del nostro territorio, allorché la Santa Sede aveva incamerato Pontecorvo sotto il suo diretto dominio temporale, soffiandola al Regno di Napoli, che avrebbe volentieri occupato la città, per farne un prezioso avamposto nei suoi confini settentrionali.
In attrito con il Papa, gli Aragonesi, che precedentemente avevano sostenuto il partito conciliarista, ora lasciavano campo libero alla circolazione di idee alternative alla dottrina romana con lo scopo preciso di indebolirne l’ascendente ecclesiale. E così l’occamismo con i suoi derivati aveva larga fortuna nell’insegnamento di scuole e accademie napoletane. Si può, pertanto, ritenere a buon diritto che in Napoli la predicazione domenicana, di cui Luca Spicola, a un certo punto, non è solo semplice interprete ma addirittura responsabile come priore di S. Domenico Maggiore, sia intervenuta nelle tematiche, che sedimentavano ampiamente già nel secolo precedente i contenuti dottrinali delle Chiese riformate. È fin troppo facile pensare al giovane frate dell’Annunziata, oggi maturo predicatore di punta nel grande capoluogo del Meridione, impegnato a sua volta ad anticipare gli elementi dottrinali che caratterizzeranno il chiarimento tridentino, ma che già la grande lezione tomista ingloba sostanzialmente tutti nel suo arsenale teologico, laddove esprime la pazienza della Scolastica a colmare i vuoti lasciati dall’agostinismo al di là della meritoria e sacrosanta diga fatta a suo tempo contro la deriva pelagiana, che, leggendo il peccato originale come reatum personae e non reatum naturae (colpa personale di Adamo non trasmessa al genere umano), aveva ridotto il cristianesimo a vuota precettistica, intorno alla quale ruota la capacità o la deficienza dell’agire etico umano, arbitro esclusivo della partita soteriologica.
Alla morsa tra le opposte esagerazioni dell’ottimismo pelagiano, che svilisce l’insegnamento evangelico come capitolo della filosofia morale, e del pessimismo agostiniano radicalizzato dall’occamismo, che abbandona l’uomo nell’angoscia di una tetra predestinazione, la scuola domenicana del tempo sfuggiva con sano equilibrio insegnando che, sebbene il peccato originale abbia comportato un guasto antropologico esponendo intelletto e volontà ad una maggiore seduzione del male (concupiscenza), l’intervento di Dio (grazia) soccorre senza sosta tutti i gli uomini, nessuno escluso, tramite l’azione della Chiesa e dei suoi sacramenti, ottenendo ai peccatori il perdono celeste non per cieca predestinazione ma per la loro libera risposta positiva (buone opere) all’offerta salvifica schiusa dall’espiazione vicaria di Cristo: offerta che l’infinita misericordia dell’Onnipotente giunge a protrarre oltre i confini della storia per i penitenti che in vita non hanno avuto tempo di riparare alle loro colpe con adeguata soddisfazione (Purgatorio) e che, in una comunione d’amore tra i vivi e i morti, mentre offrono la loro Quaresima escatologica a riscatto proprio ma anche come benigna preghiera per chi hanno lasciato in terra, possono veder alleviato il debito ultraterreno per i suffragi della Chiesa ancora pellegrina nel corso dei secoli (indulgenze) e per i meriti eccedenti della stessa Chiesa già adunata nella Domenica senza tramonto (intercessione dei santi).
I temi della predicazione a Gaeta
Non sappiamo per quanto tempo Luca Spicola abbia soggiornato a Napoli e, di conseguenza, in quale momento preciso di quei decenni centrali della seconda metà del XV secolo abbia avuto corso il suo trasferimento a Gaeta, dove avrebbe mantenuto, comunque, il suo impegno di predicatore con carico di speciale responsabilità, esercitando l’ufficio di parroco nella Chiesa di S. Domenico. Una lettura superficiale del dato potrebbe far pensare ad un regresso di carriera dopo il suo licenziamento dal capoluogo del Mezzogiorno, ove non si consideri a sufficienza nella mappa domenicana l’importanza della nuova destinazione, donde nel 1318 il vicario generale dell’Ordine, Roberto da S. Valentino, aveva fatto partire nientemeno che la petizione alla Santa Sede per la canonizzazione di S. Tommaso. Qui il Golfo ospitava quel superbo porto tirrenico, quasi a metà strada tra Roma e Napoli, storico crocevia di traffici internazionali tra sud e nord della penisola, con capacità di proiezione nelle grandi isole e, da lì, verso tutto il bacino occidentale del Mediterraneo, polo d’attrazione per mercanti e commercianti d’ogni specie, che a quell’epoca, anche se pallido ricordo del vecchio potentato medievale, ancora ostentava ad arte i blasoni goduti dal pur defunto ducato bizantino, mantenendo un tasso di presenze orientali rimasto discreto all’inizio dell’età moderna, allorché la demografia urbana accusa addirittura qualche recupero per effetto di esodi che, dopo l’avvento della turcocrazia (1453), si diramano da Costantinopoli in tutto l’Occidente e, particolarmente, nei luoghi, dove, come nel nostro caso, potevano riscoprirsi antichi vincoli di sangue.
È giocoforza che la predicazione di Luca Spicola abbia potuto concentrarsi qui sulla materia della controversia greco-latina, in particolare su un’adeguata spiegazione del Filioque, fruendo del riferimento superlativo costituito in merito per la scuola domenicana dal Contra errores graecorum di S. Tommaso, che, sulla linea della patristica latina espressa da Ambrogio e Agostino, difende la duplice processione dello Spirito Santo, consacrando una teologia della Terza Persona come risultato dell’eterno dialogo (Amor) tra Padre (Amans) e Figlio (Amatus), la cui comunione è tale che tutto quanto è della Prima Persona è anche della Seconda Persona, contro ogni prospettiva ontologica che, insinuando capacità esclusive della Prima (come appunto l’essere la sola fonte in grado di far procedere la Terza), finisse per rivitalizzare l’antico subordinazionismo ariano includente nel rapporto trinitario categorie divisive di maior e minor, ante e post.
Del resto, una certa recrudescenza di motivi polemici non poteva non essere viva in un ambiente, dove gomito a gomito si celebravano riti con usi liturgici differenziati, a partire dal diverso passaggio del Credo, che gli Orientali recitavano rigorosamente secondo l’assetto letterario niceno-costantinopolitano, ritenendo un’interpolazione abusiva l’aggiunta latina del Filioque, disposti, tutt’al più, ad ammettere, sulla linea della patristica greca espressa da Atanasio e i Cappadoci, che «lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio», ovvero insistendo sulla distinzione del rapporto tra l’Uno e l’Altro in ordine alla Terza Persona, per evitare che una loro confusa miscela ipostatica vanificasse la sussistenza trinitaria in una deriva modalista. In un simile contesto, dando seguito alle deliberazioni fiorentine che, in una lungimiranza ancora troppo avanti per la lentezza storica dei capricci umani, concedevano il pluralismo liturgico nella recita del Credo (sia con che senza il Filioque), Luca Spicola potrebbe essere stato uno degli alfieri, che, pur attento a non permettere il bollo ereticale della propaganda greca sulla tradizione latina e ferma restando la fede reciproca della parti nella perfetta consustanzialità trinitaria, avrebbe cercato di anticipare la distensione ecumenica.
Un modello di santità sacerdotale
Nemmeno è dato conoscere il tempo in cui Luca Spicola rientrava all’Annunziata di Pontecorvo per trascorrere i suoi ultimi giorni prima dell’esodo eterno censito all’anno 1490. Leggendo l’icona che, al termine del suo pellegrinaggio terreno, lasciava a quanti l’avevano amato e che nei primi decenni del XIX secolo ancora riempiva d’entusiasmo il cuore cittadino interpretato sublimemente dalla vena poetica dell’arcade Pietro Pellissieri (1762-1831), dottrinario di S. Marco, possiamo scorgere una personalità concentrata nell’incarnazione magistrale delle «tre virtù teologali». È un esempio che detta in modo più specifico un modello di santità sacerdotale. Dalla sua vicenda particolare emerge:
A) un testimone di fede («uomo della Parola»): campione eccellente del carisma domenicano, predica incessantemente in tutte le sedi, in cui opera, rischiarando le menti nelle intemperie d’un poliedrico Quattrocento, che da un lato provoca continuamente le scosse dell’ortodossia e prepara il terremoto protestante del secolo venturo, dall’altro riattizza i motivi della plurisecolare controversia greco-latina e rallenta di nuovo l’anelito del movimento ecumenico;
B) un testimone della speranza («uomo dell’Ascolto»): interprete attento e premuroso del ministero presbiterale, nelle sue esperienze pastorali di priore a Napoli e di parroco a Gaeta si distingue per la presenza nel confessionale ad accogliere il grido di dolore del peccatore pentito e per la corsa puntuale al capezzale dei moribondi onde raccoglierne l’ultimo lamento e alleviarne l’angoscia del trapasso con il sacramento dell’Estrema Unzione, oggi chiamato e amministrato più lucidamente come Unzione degli Infermi;
C) un testimone di carità («uomo dell’Impegno»): educato alla scuola domenicana di Pontecorvo, dove i tempi di studio e di preghiera s’alternavano puntualmente con l’attività ospedaliera, porta con sé, ovunque si muove, una speciale sensibilità verso i malati, a cui offre la sua dedizione integrale, ovvero al corpo, mettendo a frutto le competenze infermieristiche maturate in gioventù, e all’anima, affidando quotidianamente la salute eterna di ciascuno all’intercessione dei santi, anzitutto la Vergine, alla cui devozione era cresciuto contemplandola con il titolo dell’Annunziata: quella Vergine che chissà quante volte, nel corso della sua vita, doveva aver pregato tenendo a mente le parole imputate al suo illustre conterraneo d’Aquino:
«Beatissima e dolcissima Vergine Maria, Madre di Dio tutta piena di bontà, Figlia del Re dei cieli, Signora degli Angeli e Madre dei credenti: oggi e per tutti i giorni della mia vita ripongo nelle tue mani pietose il mio corpo e la mia anima, e tutti i miei atti: pensieri, volontà, desideri, parole e opere, tutta la mia vita e tutta la mia morte».
* Testo della conferenza, tenutasi a Pontecorvo il 5 dicembre 2013, di presentazione del libro di d. Luigi Casatelli, Il Beato Luca Spigola da Pontecorvo. Domenicano, Arte Stampa Editore, Roccasecca 2013.
1 D. Luigi è autore dello studio pubblicato per l’anno giubilare sulla Concattedrale di S. Bartolomeo, di cui è arciprete titolare, considerato la sua opera magna. Quindi la sua produzione letteraria si è rivolta agli uomini di Chiesa che hanno onorato il ruolo ricoperto e inciso profondamente come modelli nella formazione permanente dei credenti, fra cui l’arciprete locale Grimoaldo (garante della prodigiosa Apparizione giovannea al contadino Giovanni Mele avvenuta secondo tradizione in contrada Melfi sul fiume Liri intorno all’anno 1137), il noto predicatore francescano Bernardino da Siena (celebrato per una memorabile sosta urbana avvenuta secondo la storiografia locale nel 1439), nonché i grandi nomi della storia contemporanea, come i due cardinali nativi del luogo, Gaetano Aloisi Masella (protagonista di un famoso incontro con Bismarck nel 1878 destinato ad avviare lo smantellamento progressivo del Kulturkampf) e Benedetto Aloisi Masella (rimasto nel ricordo planetario per aver dato il toccante habemus papam alle elezioni di Giovanni XXIII nel 1958 e di Paolo VI nel 1963).
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