Nel Diario1 di Giuseppe Poggi2, L’avventura di Cassino, del luglio 1954, scritto per la partecipazione ad un concorso indetto dal Comune nel decennale della distruzione, abbiamo riletto alcuni passi che riteniamo di notevole interesse, per contribuire a fare chiarezza sul fatto che all’interno delle mura del Monastero, prima del bombardamento del 15 febbraio 1944, non si erano mai insediati soldati tedeschi.
Il Poggi scriveva: «Amavo scendere a valle delle macerie del Capitolo, che nascondevano il segreto di tante morti di civili che vi si erano rifugiati; in un punto ero solito fermarmi, lì dove un monaco converso batteva con un ferro su un bossolo di ottone per cannone di grosso calibro, privo del proiettile, per suonare le ore canoniche» (p. 73). In altre pagine ricordava le macerie dell’Abbazia, sotto le quali giacevano le salme di tanti Cassinati. Queste colpivano i visitatori, molti dei quali ex combattenti provenienti dall’estero, e davano prova tangibile dell’errore commesso col bombardamento. Stranamente gli Anglo-americani inviarono dei prigionieri tedeschi perché contribuissero ad eliminarle insieme con gli operai del Cassinate, che già avevano messo mano all’opera di ricostruzione. L’intervento dei militari non si spiegava con l’intento di porgere un aiuto allo Stato italiano.
«Nel febbraio del 1946 a Montecassino si tenne una conferenza indetta dal Comando Interalleato per predisporre l’impiego di cento prigionieri tedeschi nei lavori di rimozione dei cumuli di rovine. Lo scopo del Comando era quello di accelerare lo sgombero principalmente delle ruderi delle strutture del Capitolo, alla sinistra della Basilica, sotto i quali erano morte tutte le persone che vi si erano rifugiate. Molti, anche fra i Benedettini, sospettavano che gli Alleati speravano di trovare i resti di soldati tedeschi, morti insieme con i civili, per dimostrare che questi occupavano l’Abbazia prima del bombardamento e che la distruzione era stata causata proprio da loro, che vi si erano annidati fin dall’inizio delle ostilità. Tale ipotesi è avvalorata dal fatto che appena vennero trovate le salme, e che esse erano tutte di civili cassinati, e constatato che non vi figurava nessun tedesco, furono ritirate le squadre dei prigionieri» (p. 68).
In effetti proprio per questo motivo gli alti Ufficiali del Comando avevano voluto ed imposto un incontro ad alto livello, perché sicuri di ottenere le prove di quanto andavano affermando sulla distruzione dell’Abbazia.
«Il capitano Mocinski3 che comandava il distaccamento polacco addetto alla costruzione del grandioso cimitero, volle organizzare lui il Convegno ed il relativo pranzo, utilizzando le baracche di lamiera ondulata.
Oltre al Ministero dei Lavori Pubblici, rappresentato da un Direttore Generale, all’Ingegnere Capo, Nicola Ferri e a me, figurava anche il Ministero della Pubblica Istruzione con un giovane architetto, dott. Guglielmi […] Naturalmente il posto principale era riservato all’Abate, mentre per gli Alleati erano due generali, uno inglese e l’altro americano.
Al pranzo, che aveva una importanza particolare, come tutti quelli che avvengono in certe occasioni, provammo la contrarietà di vederci separati drasticamente dal gruppo di coloro che avevano il massimo potere, composto da S. E. l’Abate, Mocinski, i Generali e il Direttore del Ministero dei Lavori Pubblici. A questi il pranzo venne servito nella baracca principale del Comando; a me, all’ing. Capo, all’arch. Guglielmi in quella secondaria del Bar del Reggimento polacco. Il pranzo non fu di nostro gradimento e ci lasciò a pancia vuota […] Quando giunsero i prigionieri tedeschi, furono montati per loro altri quattro o cinque simili capannoni di lamiera zincata presso i ruderi della Foresteria femminile. Secondo gli accordi presi nel Convegno questi avrebbero dovuto essere comandati per quanto attiene alla disciplina dai militari polacchi, ma per l’aspetto tecnico erano alle mie dipendenze, quindi del Genio Civile di Cassino. I lavori avevano la supervisione dell’Abate Rea. In pratica però, il simpatico Capitano Mocinski, come tutti i militari anglo-americani, credeva di essere un capo assoluto; fingendo di non comprendere l’italiano e di masticare poco il tedesco, approfittava della difficoltosa comunicabilità e cercava di affermare le sue prerogative anche nella direzione dei lavori. Io fui costretto allora a richiedere parecchie volte l’intervento dell’Abate, al cui incontro partecipava un Benedettino con il compito di interprete. Il bravo Mocinski faceva il sordo tutte le volte che gli tornava conto e quando pensava di risolvere agevolmente problemi difficoltosi. Così avvenne che una mattina, per rimuovere alcuni tronconi da lui ritenuti pericolanti, fece saltare con una mina involontariamente tre arcate superstiti del porticato bramantesco nel lato verso l’ex ufficio postale, sotto la testata del grande refettorio. Questo increscioso episodio mi diede ragione e favorì il completo ritorno alla mia stabilita direzione dei lavori! […] Intanto nell’Abbazia erano cominciati i ritrovamenti dei pietosi resti dei civili che lasciarono la vita sotto le macerie dell’ala del Capitolo. Tra le oltre 170 vittime, solo 116 erano riconoscibili e tra queste solo una cinquantina poté essere identificata, attraverso oggetti trovati loro addosso. Gli altri erano un indistinto ammasso di calcinacci e di ossa fratturate. Fu istituito un servizio di polizia per l’eventualità che si rinvenissero dei valori, ma di questi si trovò ben poco. In quel tempo nell’Abbazia stazionavano in permanenza due Carabinieri ed il Pretore di Cassino veniva di rado, e solo quando c’era da compilare qualche verbale di ritrovamento. Come necroforo si prestò il mio assistente, un “voltarolo” romano; questi, munito di guanti speciali, deponeva i pietosi resti entro apposite casse individuali o comuni, non bare, secondo che essi appartenevano ad una sola persona o no […] Al ritrovamento assisteva sempre un monaco benedettino, che impartiva la benedizione ed eseguiva fotografie di documentazione. Era facile ricostruire le vicende degli ultimi istanti. Molte di queste erano raccapriccianti: si vedevano madri che proteggevano i bimbi con i loro corpi, e quella protezione forse causò ai piccoli innocenti una più lunga ed orribile agonia, stentando a morire sotto il cadavere materno; alcuni si notavano protesi con le mani allungate verso le aperture; si trovarono parecchi teschi di fanciulli con residui di capelli arruffati e coperti di terra.
Si poterono anche intuire certe scene tragiche, come quella dell’ex carabiniere salvatosi dalla prima ondata del bombardamento, che, nel tentativo di aprire un varco per fare uscire la sua famiglia, rimasta sepolta in un vano sottostante la Chiesa, trovò la morte alla successiva, proprio quando tutti stavano per scappare; o l’altra della coppia individuata tra le salme. Lui era sposato e morì vicino alla sua donna. Non fu una morte improvvisa, non tragica, ma lenta e sofferta, dei due innamorati uniti per sempre in un gesto di amore senza fine (p. 93)»4.
Dopo il rientro dallo sfollamento nessuno metteva in dubbio l’evento storico, in quanto allora se ne avevano prove tangibili. Ancora oggi sono in vita alcuni testimoni che vissero come rifugiati all’interno dell’Abbazia e non vi incontrarono mai alcun Tedesco.
Ricordiamo quando don Oderisio ci accompagnava nelle postazioni all’interno delle macerie e ci faceva notare che i militari germanici vi si erano insediati dopo il bombardamento, mostrandoci tanti particolari e una volta osservammo un disegno adattato su quanto restava di una parete sgretolata. La vignetta della caricatura di Churchill che si tirava dietro le armi, oggi, staccata dalla parete semidistrutta del fondo, figura in tantissime pubblicazioni sul bombardamento di Montecassino; ma non dice più nulla sul suo vero significato storico.
«Sul muro dell’improvvisato refettorio potei anche notare due pitture lasciate dai Tedeschi, che dopo la distruzione dell’Abbazia, e allora soltanto, si piazzarono tra i suoi ruderi.
La prima di queste, che esistono ancora, raffigura alcuni soldati tedeschi veduti di dietro nel solo busto. Sono vestiti ed armati di tutto punto e con l’elmetto, come fossero in trincea; uno di loro però è una donna vestita da soldato. Uno ispeziona il fronte con un binocolo da trincea, che individua anche le distanze.
La vignetta disegnata con bravura è intitolata La Stella, e si vede sulla traiettoria di un cannocchiale per l’appunto una stella, ma sulla traiettoria dell’altro appare, cioè appariva, una bellissima Venere nuda, che i monaci si affrettarono a cancellare.
L’altra rappresenta il cocuzzolo di Montecassino con i ruderi sui quali punta i piedi un colossale soldato tedesco, che guarda la piana di Cassino dove Churchill, vestito da ragazzino con calzoni corti e il sigaro in bocca, si sta trascinando dietro, a guisa di giocattoli, carri armati, cannoni e aerei.
Denk’ste! Dice il soldato tedesco e non si sa esattamente cosa intenda dire, pur comprendendosi abbastanza bene il senso. I Monaci hanno avuto agio, in seguito, di consultare vari ex ufficiali tedeschi e alleati, in gita turistica, che hanno lasciato due versioni: o il pittore intendeva far dire al Tedesco “e adesso veditela tu come riuscire a passare” oppure “grazie affettuosissime, ora che hai distrutto l’Abbazia: io mi ci piazzo dentro! Era proprio quello che volevo!”.
In una fotografia, pubblicata nel Diario di Guerra di E. Grossetti e M. Matronola, inconfutabile prova storica, si vede un militare tedesco in una postazione di Sant’Onofrio, che è all’esterno del Monastero, scattata qualche ora dopo il bombardamento.
La testimonianza citata trova esatta conferma in una narrazione di Dom Luigi De Sario, il ricostruttore di tutte le Chiese del Cassinate, al bibliotecario, prof. Dom Gregorio De Francesco: «Gli ufficiali del Comando anglo-americano si affrettarono ad inviare all’Abbazia, non appena seppero del rinvenimento di morti sotto le macerie, un centinaio di soldati tedeschi, ancora trattenuti quali prigionieri. Ritenevano che questi, già combattenti a Montecassino, conoscevano bene tutti i luoghi, forse minati, nei quali avevano lasciato pericolose munizioni ed erano in grado di identificare i commilitoni caduti durante il bombardamento aereo. Quando si resero conto che le vittime erano dei civili cassinati, che avevano cercato asilo nel Monastero, li mandarono via immediatamente».
La pagina del manoscritto dell’architetto Poggi aggiunge una singolare e toccante testimonianza sul ritrovamento dei cadaveri dei civili e dà prova che all’interno dell’Abbazia, al momento del bombardamento aereo, non vi erano soldati tedeschi.
1 L’originale del Diario è custodito dalla figlia, dott.ssa Andreina Poggi, responsabile della Fondazione Negri Sud onlus di Lanciano; copie furono affidate alla Biblioteca di Montecassino ed al prof. Emilio Pistilli.
2 L’architetto Giuseppe Poggi venne reclutato, insieme con altri professionisti, nell’immediato dopoguerra per la ricostruzione dell’Abbazia. In precedenza aveva lavorato nello Studio dell’arch. Luigi Moretti a Roma. Fu incaricato dall’ing. capo del Genio civile, Nicola Ferri, dello sgombro delle rovine di Montecassino. Nei primi tempi progettò e diresse i lavori di costruzione del piccolo Monastero di S. Giuseppe, che poté ospitare i Benedettini rientranti da varie parti d’Italia.
3 Il capitano Mocinski faceva parte dell’équipe tecnica incaricata della realizzazione del Cimitero militare polacco i cui progettisti erano gli architetti Waclaw Hryniewicz e Jerzi Skolimowski. Soprintendente ai lavori era l’ingegnere Roman Wajda. Gli scultori furono Michal Paszyn, autore della grande aquila a monte del Cimitero, e Duilio Ciambellotti, autore delle due aquile ai lati dell’entrata.
4 Fernando De Rosa, L’ora tragica di Montecassino, Pescara 2003. Nelle pagine del libro si rivivono molti dei giorni, di circa un mese, trascorsi dai rifugiati a Montecassino fra cui i due innamorati che già prima del bombardamento del 15 febbraio avevano perso la loro figlia. «Ma già dal primo pomeriggio di mercoledì 9, quando sono cadute tutte quelle granata sopra le nostre teste, era pronta per te, papà, una dolce compagnia. Ora hai già accanto Margherita, la ragazza quindicenne dai capelli d’oro alla quale un proiettile infilatosi nell’angusto cortile del Campanile ha spezzato la vita vicino al pozzo maledetto […] Al lume di un cero, c’era stata la veglia funebre per Margherita, con il pianto disperato della madre, le preghiere dei parenti, qualche bestemmia. S’inebrian d’oro / gli occhi miei / al sole che indora / i capelli biondi / di Margherita» (pp. 142-143).
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