Presentazione del Diario di Antonio Galasso

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Studi Cassinati, anno 2013, n. 4
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Intervento del presidente del CDSC-Onlus Gaetano de Angelis-Curtis

2013, XIII, n. 4-2Antonio Galasso, Italiani di Cefalonia. Le truppe italiane di Grecia dopo l’8 settembre 1943. Diario postumo, Centro Documentazione e Studi Cassinati, 2ª edizione, Cassino 2013, pagg. 88, illustr. b./n., f.to cm. 15,1×20,6; ISBN 978-88-97592-13-6; s.pr.

Il diario di guerra scritto da Antonio Galasso è relativo alle vicende belliche in cui egli rimase coinvolto nell’arco di tempo compreso tra il settembre 1943 e l’ottobre 1944. Era stato già pubblicato, postumo, nel 1994 in occasione del 50° anniversario della Liberazione, con la Presentazione firmata da Emilio Pistilli, allora presidente del Centro Documentazione e Studi Cassinati, poi recensito e ricordato da Fernando Riccardi in un suo articolo su «Studi Cassinati» (n. 3, luglio settembre 2006, a. VI, pp. 170-174) dal titolo L’eccidio di Cefalonia: memoria dimenticata e tradita. Il diario postumo di Antonio Galasso. Ora è riproposto con l’aggiunta di una Prefazione di Bruno Galasso, figlio dell’autore, e un’Appendice formata da varie lettere, fra cui quella, pregevole, di Gerhard Schreiber, uno dei più importanti storici della seconda guerra mondiale.
Antonio Galasso (1920-1968), originario di Sant’Andrea del Garigliano, insegnante, avvocato, amministratore locale (consigliere comunale a Cassino, consigliere e assessore provinciale all’istruzione), scomparso prematuramente, all’epoca dei fatti era un giovane sottotenente del Regio esercito italiano, assegnato al 17° Reggimento fanteria della 33ª Divisione «Acqui».
Il primo settembre 1939, con l’invasione della Polonia, ebbe inizio la seconda guerra mondiale. Per i primi nove mesi l’Italia se ne tenne fuori finché il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò l’ingresso nel conflitto, divenuto successivamente mondiale. Fin dalle prime operazioni belliche, condotte a confine con la Francia, si venne a evidenziare l’inadeguatezza e l’impreparazione dell’esercito italiano. Qualche mese dopo, tuttavia, Mussolini iniziò una guerra parallela a quella dei tedeschi e il 28 ottobre 1940 (data scelta non a caso) il duce avviò la campagna di Grecia. Partendo dall’Albania, già divenuta possedimento italiano da un anno, l’esercito italiano cercò di penetrare in Grecia ma fu fermato subito dopo e si dovette ritirare in territorio albanese con il rischio di imbarcarsi se non fosse sopraggiunto in soccorso l’alleato tedesco, il cui intervento militare portò all’occupazione dei Balcani e della penisola e delle isole elleniche.
Allo scoppio della guerra anche Antonio Galasso, come tanti altri giovani, fu mobilitato. Dopo l’addestramento, nella primavera del 1943, si ritrovò nello scacchiere dell’Egeo, precisamente nell’arcipelago greco delle isole Jonie, inizialmente come comandante di un presidio a Itaca per poi essere spostato a Cefalonia, la maggiore delle isole ubicata di fronte alle coste occidentali della Grecia e presidiata da circa 12.000 italiani (non solo gran parte della Divisione «Acqui» ma anche alcune compagnie di carabinieri, finanzieri e un comando marina) e da due battaglioni tedeschi con 2.000 uomini. A Cefalonia Galasso era stato dislocato a Sami, piccolo borgo marinaro, a presidio di un caposaldo formato da due cannoni anticarro a difesa del golfo omonimo. Lì, nel corso della primavera-estate del 1943, aveva potuto stringere amicizia con diverse persone del luogo, in particolare Alessandra, di qualche anno più grande, e Panaiotis (Mario in italiano).
Mentre Antonio Galasso si trovava a Cefalonia, la guerra giunse direttamente sul territorio italiano. Infatti nella notte tra il 9 e il 10 luglio gli alleati sbarcarono in Sicilia, mentre nove giorni più tardi, il 19 luglio, Roma venne bombardata per la prima volta (quartiere S. Lorenzo) e nella sera dello stesso giorno la guerra fece la sua comparsa nel Cassinate con il bombardamento dell’aeroporto di Aquino. Proprio in seguito allo sbarco in Sicilia, il Gran Consiglio del Fascismo, nella notte tra il 24 e il 25 luglio, praticamente sfiduciò Mussolini che, rassegnate le dimissioni, fu arrestato (tradotto prima a Ponza, poi alla Maddalena e infine sul Gran Sasso dove venne liberato dai tedeschi) e sostituito come capo del governo dal gen. Pietro Badoglio. Per l’Italia la guerra continuava a fianco dei tedeschi ma Badoglio cominciò a imbastire delle trattative segrete con gli alleati che portarono alla stipula di un armistizio tra Italia e paesi alleati reso di dominio pubblico la sera dell’8 settembre. In Italia, ma anche tra i soldati impegnati sui vari fronti di guerra, l’annuncio dell’armistizio fu interpretato come la fine della guerra. Al contrario fu l’inizio della fase più cruenta, più drammatica e più tragica per la popolazione civile e per i militari italiani.
La sera dell’8 settembre 1943 anche nelle isole greche si diffuse la notizia dell’armistizio sottoscritto dall’Italia, accolta da tutti i militari con gran euforia, a cui, però, si venne a contrapporre, subito dopo, la drammaticità degli eventi che seguirono quell’annuncio. Dopo lunghe trattative, la sera del 9 settembre il gen. Vecchiarelli, comandante dell’XI armata italiana ad Atene di cui facevano parte le forze militari dislocate in Albania e nelle aree centro-occidentali e nord-occidentali della Grecia (Etolia-Acarnaia, Epiro) e dunque anche la Divisione «Acqui» dislocata nelle isole di Cefalonia e Corfù, consegnò l’intero contingente italiano ai tedeschi. Le resa delle truppe italiane che si trovavano nelle zone di terraferma della Grecia non incontrò particolari difficoltà (i tedeschi fecero circolare la notizia, poi rivelatasi falsa, che ai militari che si fossero spontaneamente presentati e avessero consegnato le armi sarebbero stati rimpatriati senza problemi. Quindi molti soldati si lasciarono disarmare facilmente con la promessa di tornare a casa. Altri invece preferirono darsi alla macchia, salire sulle montagne e iniziare una guerra partigiana contro i tedeschi). Grossi problemi si ebbero invece nelle isole greche, in particolare a Cefalonia e Corfù. Infatti il comandante della  Divisione «Acqui», gen. Antonio Gandin, nonostante avesse ricevuto gli ordini del gen. Vecchiarelli si rifiutò di consegnare truppe e armi. Iniziò un lunga trattativa tra i due comandi, quello italiano e quello tedesco, presenti a Cefalonia che però sfociò in un duro scontro armato tra gli ex alleati alla fine del quale prevalsero i tedeschi capaci di piegare la resistenza degli uomini della «Acqui» con l’invio di rinforzi e con l’uso di incessanti incursioni aeree.
Il diario di Antonio Galasso, scritto con prosa asciutta ma essenziale, prende avvio proprio dalla sera dell’8 settembre per narrare le vicende accadute a partire appunto dall’annuncio dell’armistizio. Dallo scritto si evince chiaramente lo stato di confusione generale e di disorientamento dei comandi militari italiani che ritardavano nell’assumere decisioni. Senza ordini precisi, oppure contraddittori (da Roma non ne erano stati impartiti se non nell’annuncio il capo del governo Pietro Badoglio aveva proclamato che cessavano le ostilità contro le forze anglo-americane e che le forze militari italiane avrebbero reagito «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza», mentre dal comando dell’XI armata ad Atene era stato imposto di cedere ai tedeschi le postazioni difensive con tutte le armi e munizioni), il comando della Divisione «Acqui» rimase interdetto e indeciso sul da farsi e sull’atteggiamento da assumere nei confronti degli ex alleati con i quali, alla fine, tentò di imbastire febbrili trattative e negoziati. La speranza degli italiani di veder terminata la guerra e tornare finalmente alle proprie case finì per infrangersi velocemente e violentemente contro le armi tedesche, di chi, cioè, fino a poco prima era l’alleato. Nella notte tra il 13 e il 14 settembre si sarebbe tenuto un atto assolutamente inusuale, se non unico, nell’ambito di una formazione militare impegnata in operazioni di guerra poiché i soldati italiani dislocati sull’isola furono interpellati in una sorta di referendum per decidere sul da farsi e che si concluse con la decisione di opporsi militarmente ai tedeschi. Dunque fra il 16 e il 21 settembre infuriò la battaglia (episodi di tenace resistenza si verificarono anche a Corfù e in altre isole dell’Egeo, come Rodi, Coo, Lero, Samo), finché il 22 si giunse alla resa del contingente italiano a Cefalonia. Poco dopo Hitler diramò l’ordine di non fare prigionieri e di provvedere, dunque, alla fucilazione di tutta la guarnigione italiana superstite.
Sulle questioni relative allo svolgimento di quella sorta di consultazione e sul numero degli italiani morti a Cefalonia, in particolare di quelli fucilati dai tedeschi dopo la resa, si è aperto, nel corso degli anni, un lungo dibattito caratterizzato anche da aspre polemiche. Taluni hanno messo in dubbio e hanno negato l’effettivo svolgimento di questa specie di referendum. Tuttavia va rilevato che Galasso nel suo diario testimonia dell’emanazione da parte del gen. Gandin della circolare con cui si chiedeva ai soldati di esprimersi in merito a tre differenti soluzioni: se cessare le ostilità e consegnare le armi oppure continuare a combattere scegliendo anche al fianco di chi e cioè ancora con i tedeschi o contro di loro. Oltretutto va sottolineato che la cronaca di quegli avvenimenti è scritta da Galasso senza fronzoli, senza retorica, senza dimostrare un atteggiamento favorevole o contrario verso qualcuno, solo qualche pagina più avanti annota di aver rivelato, non per ipocrisia, all’austriaco Raimond Ferx, il caposquadra che lo aveva arrestato, di essere stato, come altri ufficiali, «contrari[o] allo scoppio delle ostilità nell’isola» e che poi solo in base al «senso del dovere e dell’obbedienza» aveva finito, come altri, per imbracciare le armi contro i tedeschi. La resa del contingente italiano portò all’arresto del gen. Gandin e del suo Stato maggiore che furono fucilati assieme a gran parte degli ufficiali della Divisione, responsabili, a giudizio del comando tedesco, di aver imposto ai soldati di combattere. Al di là dei dati quantitativi, i tedeschi non avrebbero potuto fucilare gli ufficiali italiani. Si è trattato di un cruento atto non contemplato dal diritto internazionale, di una rappresaglia compiuta dalla Wehrmacht. Pur se in quelle drammatiche circostanze lo status dei componenti delle forze armate italiane era incerto (fino all’8 settembre l’Italia era alleata con la Germania ma poi era intervenuto l’armistizio e il cambio di alleanze cui, però, Badoglio e il re non avevano fatto seguire l’annuncio della dichiarazione di guerra alla Germania), tutti i soldati italiani, sui vari fronti, non potevano essere considerati dei nemici, né, secondo le convenzioni militari, potevano rivestire la condizione di partigiani e neppure quella di franchi tiratori, riservata non a formazioni in divisa. Tuttavia i militari italiani rastrellati dai tedeschi dopo l’8 settembre e poi deportati, anche in assenza di una dichiarazione ufficiale di guerra, furono trattati come «Kriegsgefangen» (prigionieri di guerra) finché il 20 settembre vennero trasformati in «italienischen Militärinternierten» (Internati Militari Italiani), un altro status assolutamente inedito e arbitrario, non riconosciuto dal diritto internazionale tanto che nel corso del loro internamento gli Imi non ebbero diritto nemmeno all’assistenza garantita ai prigionieri di guerra da organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa Internazionale.
Galasso ci testimonia con il suo diario che la notizia dell’ordine decretato dal comando tedesco di fucilare gli ufficiali italiani circolava tra i militari fin dalle prime ore successive alla resa del contingente. Proprio i timori per la condanna che minacciava gli ufficiali italiani, indussero il sottotenente Galasso, nel frattempo arrestato dai tedeschi, a tentare la fuga. Riuscì a ottenere l’aiuto iniziale di un caposquadra austriaco, Ferx, che mise a repentaglio anche la sua stessa vita nell’organizzare la fuga. Sbarazzatosi della divisa, Galasso riuscì a raggiungere Sami dove poté contare sul sostegno di Alessandra e di altre persone del luogo. Abbandonata quindi l’isola di Cefalonia, raggiunse quella di Itaca e poi si trasferì sulla terraferma. Per più di un anno visse, anche in modo rocambolesco, in continua marcia su strade e sentieri di montagna, con scarsi alimenti, con il costante pericolo di essere catturato dai tedeschi, assistendo alla lotta intestina già presente fra le formazioni partigiane greche, tra episodi di solidarietà e altri di ostilità. Incontrò molti altri soldati italiani rifugiatisi sulle montagne dopo l’8 settembre soffermandosi a descriverne brevemente ma efficacemente, in più occasioni, le caratteristiche che li contraddistinguevano in quei momenti: «zoccoli di legno ai piedi, o scalz[i], vestiti laceri o addirittura a brandelli, barba incolta, capelli lunghi, spioventi sulle orecchie, sguardo distratto o assente completamente, un sacchetto o una coperta lacera sulle spalle, il volto scarno, il passo stanco e lento e la testa ricurva». Appresa rapidamente la lingua greca, svolse lavori saltuari anche pesanti. Fece da intermediario tra partigiani, popolazione locale e militari italiani i quali riuscivano a sopravvivere lavorando e potendo contare sulla ricompensa in denaro offerta dagli inglesi alle famiglie che li ospitavano. Attraversò a piedi tutta la Grecia centrale, percorrendola dalle coste jonie fino a quelle egee. Nel diario non mancano parole di encomio a favore del popolo greco per l’affetto nutrito per gli italiani, per il sostegno e l’aiuto offerto in quei duri mesi. Dopo l’evacuazione della Grecia da parte dei tedeschi nell’ottobre 1944 la vita si fece più facile per lui e gli altri italiani. Giunto nella città di Volo (Volos) in Tessaglia si imbarcò alla volta dell’Italia assieme a tanti altri connazionali che avevano vagato come lui nel corso di quell’ultimo anno in territorio greco. Il 10 dicembre raggiunse Taranto dove fu avviato in un campo reduci paradossalmente chiamato «Sant’Andrea». Qui i militari provenienti dalla Grecia furono separati secondo la discriminante di fascisti o badogliani, cercando di convincere quest’ultimi a rimbracciare il fucile e continuare a combattere a fianco degli alleati. Antonio Galasso, tuttavia, sentendosi un unico ideale “politico”, comune a tanti altri, cioè quello di far ritorno il più velocemente possibile a casa, approfittò della possibilità di lasciare le armi. Si congedò e poco prima di Natale poté riabbracciare la famiglia a Sant’Andrea. Si chiudono così le peripezie di uno dei tanti militari italiani impegnati nelle vicende belliche, raccontate in modo avvincente e coinvolgente, traversie di un giovane che nella sfortuna della drammatica situazione in cui forzatamente si venne a trovare ebbe la “fortuna” di aver potuto contare sulla solidarietà umana e sul sostegno di varie persone (Alessandra, Mario e addirittura un ex alleato poi nemico come l’austriaco Raimond Ferx) che favorendo la sua fuga da Cefalonia riuscirono prima a salvarlo dalla fucilazione cui erano destinati gli ufficiali italiani e poi a sottrarlo dall’ancor più cruento e amaro destino dei suoi commilitoni che in circa duemila perirono su tre navi che li trasportavano dall’isola alla terraferma greca inabissatesi per le mine o per gli attacchi aerei alleati e in centinaia di migliaia, compresi i sopravvissuti delle isole jonie, che furono relegati nei campi di concentramento dell’Europa centrale dove, per quasi due anni, per quelli che sopravvissero, patirono fame, freddo, malattie, maltrattamenti, soprusi, violenze e il lavoro coatto, mentre tra i 30 e i 50.000 Internati Militari Italiani perirono nei lager nazisti per la maggior parte per malnutrizione e malattie ma anche per esecuzioni dovute a insubordinazione oppure a causa di bombardamenti alleati o nel corso dei lavori cui furono costretti.

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