Studi Cassinati, anno 2013, n. 4
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di Anna Maria Arciero*
Questa frase, incisa grossolanamente sul coperchio della gavetta da prigioniero di Luigino D’Aguanno, sembra una promessa, in un momento di pericolo, per non procurare dolore alla madre.
È, senza dubbio, la testimonianza dell’amore viscerale che lo legava alla persona più amata al mondo. Ma è anche una frase auto-suggestionante, quasi un giuramento fatto a sé stesso per non soccombere alle traversie della guerra. E di traversie Luigino deve averne passate tante! Se solo si nominano i luoghi dove è stato – Cefalonia, Patrasso, Minsk – se ne deduce la storia.
I particolari della «sua guerra» purtroppo non li ho potuti avere, perché Luigino non è più tra noi, ma i figli e le sorelle hanno raccontato alcuni episodi che lui ricordava spesso. Già il fatto di essere sopravvissuto all’eccidio di Cefalonia, episodio di insensata ferocia nazista all’indomani dell’otto settembre ’43, rende l’idea di quello che deve aver visto e patito questo giovane carabiniere ventiquattrenne, mandato, come tanti altri, da un Mussolini megalomane e in perenne antagonismo-emulazione con Hitler, a «spezzare le reni alla Grecia». Con l’annuncio dell’armistizio è facile immaginare l’imbarazzo delle truppe italiane in Grecia, praticamente abbandonate a sé stesse per la mancanza di ordini precisi da parte del governo, soprattutto perché in molti presidi si conviveva con i tedeschi1. E così Luigino, colpevole di voltafaccia in quanto italiano, si ritrovò prigioniero dei tedeschi, e fu tra i fortunati, perché il colonnello e gli alti ufficiali della divisione «Acqui», attestata nell’isola, furono fucilati, altri ufficiali furono trucidati col solito colpo di pistola alla nuca o crudelmente gettati in mare, chiusi in sacchi; addirittura alcuni soldati, che venivano trasportati verso la Grecia, furono uccisi perché avevano manifestato la loro gioia all’apparire di aerei alleati, dai quali speravano aiuti e salvezza2.
Luigino fu confinato a Patrasso, nel Peloponneso, in attesa di essere deportato ai lavori forzati a Minsk, nella Russia Bianca, oggi Bielorussia, il primo territorio sovietico occupato dai tedeschi al momento dell’invasione. Qui, tra le paludi del Pripet e le foreste, era attivissima la lotta partigiana, per la ferocia dimostrata dai tedeschi nei confronti della popolazione, sempre sospettata di irredentismo. I partigiani attaccavano colonne di fanteria motorizzata, depositi di materiale bellico e carburante, distruggevano ponti, sabotavano linee telefoniche e ferroviarie, in una sorta di guerra fantasma, che poneva i tedeschi di fronte a gravi e inaspettati problemi per assicurare il flusso continuo di rifornimenti alle loro truppe, schierate sul fronte sovietico. Luigino, con gli altri compagni di sventura, era addetto al faticoso lavoro di ricostruzione delle ferrovie, esposto al freddo gelido e umido di quella terra paludosa, in cui però la gente era ospitale e gentile e, per quanto poverissima, era pietosa con lui, che ogni tanto sgaiattolava da uno squarcio della rete di recinzione del campo, e gli offriva qualcosa da mangiare, mentre, quando uscivano i compagni, tornavano carichi «solo di mazzate e sgarberie». Forse, su quella gavetta sempre vuota, o almeno troppo presto svuotata, Luigino si è accanito a incidere «mamma ritornerò» per resistere ai morsi della fame, per sfogare la voglia di casa e di mamma e di patria che sentiva prorompergli dentro. Forse quella frase è stata la molla che non lo ha fatto soccombere alle avversità … che lo ha fatto resistere … perché lo aveva promesso. «Chi ha un perché per cui vivere è in grado di sopportare quasi qualsiasi come» per dirla con Friedrich Nietzsche!
E anche la mamma, dal canto suo, non perse mai la certezza che il figlio sarebbe ritornato sano e salvo dalla guerra. Anzi, spiegava la gentilezza dei russi verso Luigino col fatto che, nell’inverno del ’44, quando i soldati americani, che partivano alla sera per tentare di attraversare il Gari, tornavano al mattino bagnati fradici, lei asciugava i loro indumenti vicino al fuoco con la pena e l’amore di una madre premurosa, sperando che, in qualche parte del mondo, un’altra madre stesse facendo lo stesso per suo figlio. Il senso materno non conosce i confini delle nazioni né gli odi delle guerre.
* L’articolo è già stato pubblicato, assieme ad altre 28 toccanti storie di vicende vissute da persone di Colletornese (Cervaro) nel corso della guerra o dell’immediato dopoguerra, da Anna Maria Arciero nel suo volume La pelle degli umili, Tip. Ciolfi, Cassino 2007, pp. 63-65. Si ringraziano l’autrice, parte integrante della famiglia del CDSC-Onlus e preziosa collaboratrice di «Studi Cassinati», e la famiglia D’Aguanno, in particolare Vincenzo, per la disponibilità.
1«Ma, se la sorpresa fu generale per gli italiani, i tedeschi vi erano già preparati. Era un evento che già dal 1941 il generale Halder aveva considerato possibile e perciò era stato predisposto un piano, denominato Walchiria, che prevedeva operazioni attraverso le Alpi occidentali, contro l’Italia, nel caso che questa si fosse ritirata dall’alleanza e dalla guerra» (dalla relazione del gen. Luigi Mondini, addetto militare in Grecia nel 1940, in Storia della II guerra mondiale, vol. IV).
2 In totale la divisione Acqui immolò 8400 vite. I cadaveri degli italiani massacrati dai nazisti furono cosparsi di benzina e inceneriti. La violenta reazione tedesca fu scatenata dal no alla resa di un gruppo di irriducibili, dopo che al generale Gandin era stato era stata chiesta la consegna delle armi sulla pubblica piazza, sotto gli occhi ironici della popolazione greca.
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