.
«Studi Cassinati», anno 2020, n. 1-2
> Scarica l’intero numero di «Studi Cassinati» in pdf
> Scarica l’articolo in pdf
.
di Marcello Carlino*
.
1 – Uno spettro aleggia minaccioso sopra questa civiltà alle soglie del Duemila, che appare nel segno incoraggiante della distensione e della pace e che pure nasconde un inquietante formicaio di contraddizioni. Lo spettro, uno dei tanti, è la smemoratezza. A forza di vedere tutto consumarsi in un baleno, come abiti di moda prestissimo dismessi; a forza di non pensare più progetti ed utopie, che disegnino un futuro possibile, passando a contrappelo la realtà del passato; a forza di registrare senza allarmi cadute vertiginose di tensioni ideali per restringersi comodamente nel qui ed ora di un privatissimo particolare; a forza di proclamare, con editti postmoderni, che la storia, proprio quella che si diceva magistra vitae, è finita; a forza di demandarla a deresponsabilizzanti, efficientissimi (e rassicuranti) sistemi computerizzati, è facile che si perda la memoria. E che si alienino, con la memoria, le radici da cui proveniamo e in cui si forma in larga parte la nostra identità. E che si cancelli, sotto la scolorina della rimozione, l’immagine di quei mostri che hanno abitato, nei sonni ricorrenti della ragione, la nostra storia. Ecco, quei mostri, nelle nebbie di una smemoratezza che non sa più distinguere e giudicare ed è solo capace di “con-fondere”, c’è il rischio di darli frettolosamente per addomesticati e inoffensivi; e c’è il rischio, una volta cancellati dalla nostra memoria e rubati alla nostra attenzione, che ritornino, riconvertiti ad un habitat diverso ma ugualmente feroci, in altri sonni della ragione. L’arte, che già la mitologia classica faceva compagna della memoria, può agire oggi da contravveleno per il morbo subdolo e letale della smemoratezza. E tanto più è contravveleno, non quando lascia tracimare la piena del vissuto così da tradurlo in parole e figure di intonazione e di vocazione patetiche, ma quando sa formalizzare le immagini della memoria e renderle asciutti segni definitivi, che hanno il peso e la consistenza oggettiva delle cose. All’arte è affidato, in questi anni che schiudono il terzo millennio, un compito di grande responsabilità: il compito di non smettere di tener desta la memoria; la responsabilità, che attraverso un giusto e consapevole uso delle forme, di praticare i luoghi della memoria come uno spazio collettivo di riflessione, come dimensione di una pubblica acquisizione di coscienza. Restituire ciò che siamo stati per meglio costruire quelli che saremo: non è compito da poco, in questi tempi nei quali il presente è l’unico tempo che sia coniugato, e certamente non è compito a cui basti, da sola, l’arte. Ciò non la esime, però, dal farsene carico.
2 – Chi lo conosce sa che all’origine della pittura di Vittorio Miele sta la ferita non chiusa, che la guerra gli ha inferto nei giorni che hanno fatto scempio della città martire di Cassino, travolgendola in un’ondata apocalittica. Le sue tele ne serbano spesso, a tratti, le tracce; e anche la voglia di innocenza, che si coglie nelle sue campestri figurine solari o nelle silhouettes in odore di belle époque, è una risposta di compensazione ad un trauma incomposto, che riaffiora infatti per labili, minimo indizi metaforici. Il comun denominatore della esperienza pittorica di Miele, lungo tutto l’arco del suo svolgimento, si riconosce nel profilo utopico (un profilo, perciò, velato di malinconia e di nostalgia, con un sentore di lontananza tutt’intorno) di un’umanità vergine, tornata a meritarsi l’eden di una condizione di natura autentica e incontaminata (ed ecco la fisicità sublimata del mondo contadino della sua stagione più recente), scampata all’inferno della sopraffazione, del terrore, della crudeltà, della morte, della disumanizzazione. Un’utopia di liberazione è la cifra costante della pittura di Miele, che altrove sembra aggirare l’inferno (ma non lo tace del tutto e ne inscrive i ricordi nella metafora ossessiva di una montagna da incubo) e qui, nelle opere documentate in questo libro, lo attraversa per uscirne, stazione dopo stazione in una lunga via crucis. La liberazione, qui, fa mostra di non poter essere, prima di aver rivisto in presa diretta l’inferno e di averlo oggettivato nella forma: l’inferno della guerra e di una ferita non chiusa. E queste tele e questa grafica, pur appartenendo alla maturità del pittore, si pongono idealmente all’origine della pittura di Miele: la parola inaugurale, benché pronunciata più tardi, del suo organico e compatto; l’immagine prima, per quanto manifestatasi compiutamente in una sorta di flash-back, che giustifica e dà pieno senso alle immagini secondo di speranza di un’umanità liberata. A chi osserva è restituita, viva, la memoria di un orrore che tutti ci riguarda e ci ammonisce a non abbassare le difese della riflessione.
3 – C’è un “faccia a faccia” di scritture ed immagini in questo libro-catalogo di Vittorio Miele. La necessità di esprimersi interamente sul tema della guerra e di una ferita non chiusa, senza che nulla rimanga di non detto, convoca a rapporto la parola (quella dell’autore e quella, che gli appartiene, del suo alter ego Rocco Zani) e il segno grafico e pittorico. Tra l’uno e l’altro modo di espressione, l’uno all’altro necessario, si danno continuità, coincidenza e anche differenza. Il testo scritto opera da didascalia, intanto, inanellando una sequela di note a piè di pagina. I particolari drammatici e laceranti dell’apocalisse ne vengono sbalzati in primo piano: una madre incinta di un figlio di cui non si sa se potrà mai nascere, “oltre il filo” spinato di un campo di morte; un padre avvolto in un insmettibile mantello nero, che più non occulta un rigurgito di istinto di sopravvivenza, pagato al prezzo di un empio abbandono; e la fame e le bocche di fuoco e il calore bruciante nel ventre di tanti che dicono disperatamente, per l’ultima volta, “io”; e una disperazione assoluta e un orrore che pietrifica e un bestiario ripugnante ( e sono i carnefici e sono le vittime, costretti a farsi carnefici); e un senso di colpa, come un dolore lampeggiante, per essere sopravvissuti e un ricordo che è segno indelebile “del mio tempo” e il fragile corpo della libertà stretto alla memoria delle radici di una vita che si spezzano. Ogni frammento di scrittura sta come a dichiarare l’evento che ha generato e segnato la figurazione pittorica; e di essa evidenzia il senso, mette in esponente il messaggio. E le figurazioni pittoriche investono i frammenti di scrittura di una funzione allocutoria e performativa: la parola interpreta, ma ad alta voce e pubblicamente, facendone azione, la stessa parte interpretata dalla pittura sul tema della guerra e di una ferita non chiusa. Ad alta voce: tutti insieme, i frammenti di testo impaginano una storia, che ha per refrain la desolazione e l’angoscia di una totale disumanizzazione, nella quale non si possono neanche più distinguere le vittime e i carnefici, e che ha per tono dominante il fortissimo dell’urlo.
4 – Ma, mentre scritture ed immagini convergono, le une facendo da eco alle altre, una differenza pure si ravvisa: la stessa storia, della guerra e di una ferita non chiusa, ha due interpretazioni dalle sfumature diverse. Il testo poetico è costruito per stratificazioni successive: la sua tecnica è il porre e l’aggiungere (di qui l’interazione e la gradazione come schema compositivo). Il testo grafico e pittorico, invece, sceglie la prassi del levare. I personaggi non hanno una riconoscibile, netta fisionomia: spolpati, svuotati, con la testa che è un teschio, sono come maschere di una tragedia, maschere di un bianco spettrale ed accecante che contrasta con il nero delle vesti. E dei colori si restringe la gamma: violetti sfrangiati di lutti incombenti e rossi abbaglianti di mortiferi aliti di fuoco si stiacciano sopra una bicromia di bianco e di nero, che emette soltanto i mezzitoni del grigio: la grafica, come dialettica di marmorea assenza e di convulsa, simultanea, autodenegante presenza di tutti i colori, esprime la vera vocazione di questa pittura di Miele, che semplifica all’estremo ogni suo gesto, fino a ritrovarsi, quasi, puro segno. E fino a piegare in forme geometriche la materia di un caos disumano: ed ecco la piramide di una Pietà senza riscatto, ed ecco le sfere tangenti, di elmetti di soldati o di crani in fosse comuni, ed ecco il guscio ovoidale che a fatica contiene il tumore d’angoscia della madre incinta, ed ecco il trapezio di un nero mantello in fuga (in vana fuga dal rimorso) mentre poco più che un viluppo di esilissimi cilindri sono ormai i tanti, poveri e piccoli Cristi vinti dalla fame. Veglia su tutto, sinistra, la montagna dell’apocalisse, l’ossessivo triangolo di una divinità malefica. Gli stessi eventi sono trattati secondo il procedimento del levare, e si leggono, allora, per allusive, e ancora ossessive, corali atmosfere. Plotoni di esecuzione e ossari, tristi emblemi della guerra in ogni stagione e ad ogni latitudine, si conquistano anche in queste opere il loro tragico spazio; ma lo scompaginamento di un’ondata incontenibile (la deflagrazione estrema: un vortice di materia, un turbinio di schegge di colore) e la restrizione in una gabbia soffocante e la fissità di una via senza uscita (perciò quei confini sempre invalicabili: l’infausto triangolo della montagna, le linee parallele del filo spinato), ripetendosi per spostamenti metaforici da una tela all’altra, mostrano per immagini corali il senso più vero dell’evento. E caricano gli sguardi delle figure che si cercano disperate, disperando di trovarsi, di un urlo ricacciato in gola, di un grido che non esce: così muto, definitivamente fermato nello smarrito strazio di un volto, è l’urlo dell’espressionismo pittorico di Vittorio Miele sul tema originario della guerra e di una ferita non chiusa. Al lettore, per tecnica del levare (in rapporto alla tecnica del porre o dell’aggiungere che lavora i testi di scrittura), sono consegnate forme definitive, di plastica asciuttezza, di una semplicità e di una forma che non si dimenticano. Sono le forme dell’inferno che è stata la nostra storia e che dimora ancora in tutti noi; solo guardandole ed imprimendone i segni essenziali nella nostra memoria e nella nostra coscienza, potremo rendere un po’ meno precario il lungo e difficile cammino verso la libertà.
.
* Università La Sapienza di Roma.
.
(103 Visualizzazioni)