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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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di Giuseppe Russo
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Per raccontare le tragedie della Seconda guerra mondiale si è versato davvero tanto inchiostro negli ultimi anni, ma è pacifico supporre che in futuro se ne verserà ancora molto altro. L’argomento, difatti, continua a stimolare dolorosamente una delle ferite più aperte della storia umana, tanto che a distanza di oltre settant’anni, in tutta Europa, riaffiorano prepotentemente pericolosi rigurgiti ideologici, vuoti culturali potremmo dire, chiaramente figli di una nuova profonda e colpevole «dimenticanza» storica. La World War II, come dicono negli States, pur nel suo complessivo quadro di tragedie e incomprensibile disumanità, sostanzialmente riassumibili nell’odio razziale e nella lucida volontà di sterminio di interi popoli, non fu però solo sangue e bombe. Come ci racconta il mito dell’Araba Fenice, condensato nel motto «Post Fata Resurgo» (dopo la morte torno a rialzarmi), spesso prima di una rinascita è necessaria la distruzione dello status quo, sebbene tale assunto non debba farci dimenticare che i semi della ripresa sono quasi sempre già ben piantati tra le macerie crollanti del vecchio ordine. Un ordine, quello europeo di inizio ‘900, che dicotomicamente, apparentemente senza logica, coltivava il male e le sue vergognose politiche coloniali, razziali e di potenza, mentre le pur differenti società nazionali mostravano segni di incredibile crescita culturale. Mentre si preparava la tragedia, potremmo dire, qualcuno già metteva le basi per ciò che oggi definiamo rispetto, moralità, socialità e democrazia. Ciò, va sottolineato, non avveniva solo nel sottobosco silenzioso della cultura, ma piuttosto andava assestandosi attraverso l’innovazione economica, lo sviluppo di nuovi settori commerciali e della comunicazione, come pure grazie all’accelerazione definitiva di quella mutazione tecnologica sulla quale abbiamo poi basato la nostra nuova esistenza.
Proprio dalla guerra, insomma, nacquero fenomeni incredibili che oggi appaiono normali, come se l’Umanità li avesse sempre vissuti allo stesso modo. Uno di questi, figlio della bellezza artistica del Vecchio Mondo, quell’Europa in cui gli aristocratici potevano permettersi di realizzare il Grand Tour, a noi noto soprattutto grazie a Goethe e alla sua opera Viaggio in Italia, è rappresentato dal turismo degli anni ’40 del secolo breve. Un fenomeno grandioso, potremmo dire, perché riuscì a germogliare proprio durante il periodo di guerra, condensato sostanzialmente nelle prime attività ludiche delle truppe tedesche e poi trasformatosi in business grazie all’iniziativa capitalistica dei vincitori, ovvero di quel mondo anglosassone a trazione statunitense che ne iniziò a sfruttare le potenzialità mentre lo scontro in Italia era ancora in corso, soprattutto nella Campania distrutta dello Sbarco di Salerno (9 settembre ’43) e dell’occupazione di Napoli (1 ottobre ‘43) già liberata dagli scugnizzi (Foto 1).
È ciò che possiamo chiamare economicamente, socialmente e strategicamente, grazie ai tanti segni sparsi tra documenti e foto di guerra, Turismo Militare di Massa, uno strano effetto collaterale e positivo del conflitto che fece oltre 55 milioni di morti nel mondo. La sua nascita può essere collocata sostanzialmente a Parigi quando i nazisti, dopo una serie di schiaccianti vittorie, occuparono buona parte della Francia impossessandosi della sua storica e romantica capitale. Era insomma il periodo dell’invasione hitleriana, del male che si stava diffondendo a macchia d’olio nella civile Europa e avrebbe dominato, a colpi di bombe, campi di sterminio e distruzioni generalizzate, fin quasi alla primavera del 1945. Un fenomeno figlio, o conseguenza, delle odiose leggi razziali, dell’idea di superiorità, della volontà criminale tedesca di creare un modello standardizzato, «puro», di essere umano. Una bugia che però iniziò a palesare nuove e diverse realtà, meno sanguinose, proprio dalla romantica capitale francese, per poi trasferirsi a pieno titolo e velocemente in Italia, nel Bel Paese, dove i soldati tedeschi godevano di maggiore libertà perché «camerata», compagni degli italiani, almeno fino alla vergognosa e inadeguata gestione di ciò che ci ostiniamo a definire «Armistizio dell’8 settembre».
Così, il primo embrione di un turismo di lusso alla portata di molti, sebbene non ancora per la massa, come pure di un turismo squisitamente low cost e prettamente votato ai grandi numeri, si impiantava a Parigi il 14 giugno del 1940, esattamente nello stesso giorno in cui la città della Tour Eiffel cadeva nelle mani di Hitler.
La differenza tra queste due sorgenti direttrici delle attività ludico-culturali, però, è evidente nella tragicità della perfida ideologia nazista, dei suoi proclami, delle sue più basse aspirazioni. In primis, l’embrionale turismo di lusso allargato ai ranghi non necessariamente verticistici della Wermacht, nasceva quale esigenza bellica, quale strategia di infiltrazione tra la popolazione occupata, quindi come controllo dell’informazione e prevenzione di atti contro il regime. Parigi andava insomma vissuta, come accadeva per le città storiche dell’alleata Italia, per dominare, informarsi, scoprire i punti deboli del nemico e tenersi pronti alle più adeguate reazioni, quelle che avrebbero consentito la distruzione preventiva delle residuali attività industriali sopravvissute ai bombardamenti americani del ’43, durante la frettolosa ritirata dai fronti di Salerno e Napoli. Inoltre, il secondo aspetto dei tour di lusso, urbani e non, è più strettamente legato ai diretti desideri di potere, di superiorità, di sfarzo delle élites militari, nonché di tutto il mondo affaristico civile che ne assecondava necessità e vizi. Abitudini, quindi, assolutamente in linea con i normali costumi dei facoltosi vertici politici, economici e militari dell’Europa dell’epoca. Il vero aspetto caratterizzante di questo fenomeno fu, però, la spinta al turismo low cost organizzato per le truppe, per quell’ampia massa di giovani soldati che, in piena tempesta ormonale di onnipotenza in un paese occupato, avrebbero creato non pochi problemi di gestione, soprattutto se consideriamo le pressanti «necessità di politica razziale». Difatti, nonostante i dispacci interni della Wermacht, che chiedevano esplicitamente ai soldati tedeschi di evitare atteggiamenti poco consoni alla propria austera cultura, soprattutto contatti sessuali che avrebbero potuto generare figli impuri, non ariani, i militari nazisti di ogni rango furono spinti a visitare le bellezze francesi dando vita al primo reale flusso turistico massivo dell’era contemporanea. Assolutamente significativa è la ben studiata promessa di una visita a Parigi, ad ogni reparto e soldato della Wermacht, con lo slogan «Jeder einmal in Paris» (tutti una volta a Parigi). Una strategica e precisa volontà di far provare almeno per un breve periodo una vita relativamente lussuosa da «occupanti», una sorta di ricompensa, forse versione mitigata del saccheggio barbarico, basata su pasti in ristoranti esclusivi ed attività ricreative in teatri, musei o centri sportivi.
Grazie ai ben organizzati uffici amministrativi e turistici del Palais Bourbon, che potremmo definire un vero e proprio tour operator controllato dai militari tedeschi, la mission strategica di Jeder einmal era offrire a tutte le truppe d’occupazione una vacanza nella grande capitale nemica conquistata, attraverso la teutonica organizzazione di specifici tour a rotazione che poi si estesero anche alle altre città conquistate dalla Wermacht. A tal proposito, oltre alle numerose foto che testimoniano queste visite in un mondo quasi illusorio e lontano dalla tragedia di una guerra di sterminio in corso, restano le affascinanti pagine della Guida Aryen e della rivista informativa «Wegleiter», opuscoli bilingue in francese e tedesco redatti per guidare i soldati alla scoperta delle attrazioni turistiche parigine che includevano il Louvre, il Moulin Rouge o le gare sul circuito di Longchamps. Ma se questi semi di un turismo che oggi, al netto dell’emergenza sanitaria, rappresenta uno dei settori più rilevanti dell’economia mondiale, furono gettati e innaffiati a Parigi in un clima autoritario, in Italia furono alimentati da un più sincero e volontario spirito culturale. Ufficiali e truppa vivevano le nostre città, le nostre bellezze artistiche, i nostri paesaggi, con la libertà dell’alleanza politico-militare garantita dal Patto d’Acciaio siglato tra Hitler e Mussolini il 22 maggio del 1939. Palermo, Catania, Roma, Napoli, Firenze, Pisa, Venezia, Milano e tante altre città artistiche del nostro Bel Paese erano costantemente meta di questo fenomeno duale (Foto 2). Turismo di lusso delle élites militari e turismo più verace e assolutamente low cost per le truppe che in Italia si incontravano tranquillamente nell’area archeologica di Pompei, in centro a Napoli, nella Reggia di Caserta, al Colosseo a Roma, sui ponti di Firenze, sulla Torre di Pisa o in Piazza Duomo a Milano. Alcune mete, inoltre, erano particolarmente gettonate per questioni enogastronomiche e naturalistiche come Amalfi, Sorrento, il Vesuvio o Capri. Si può notare, quindi, che i circuiti che oggi vedono la continua presenza di visitatori del nord Europa, Germania in testa, ricalcano esattamente la «mitologia» delle mete visitate dai combattenti che ne tramandarono virtù e riti alle proprie famiglie nel dopoguerra. Bellissime le foto di tanti giovani soldati tedeschi che circumnavigavano Capri (Foto 3) affittando le barche dei pescatori locali, o che sostavano in Piazza Flavio Gioia ad Amalfi sorseggiando al tavolo un fresco vinello locale. Affascinanti, proprio per l’evidenza di un aspetto economico oggi tanto familiare, le foto di altri militari nelle masserie contadine dei nostri paesi collinari, dove si recavano a gruppi per comprare e farsi cucinare salsicce e formaggi caserecci, sostanzialmente ciò che oggi definiamo ufficialmente «agriturismo» (Foto 4).
Le vicende turistiche in Italia, tra l’altro, non si limitano al racconto di un aspetto affascinante nella cornice di un insano conflitto bellico e ideologico, piuttosto si legano anche a diversi episodi che hanno avuto gravi ripercussioni sia contestualmente alle vicende militari sul campo, sia nella storia della ricostruzione postbellica, soprattutto nell’ambito dei beni culturali e in genere della nostra cultura. In particolare, tale effetto collaterale può essere ben compreso ricordando l’inutile, beffardo e tragico bombardamento angloamericano dell’area archeologica di Pompei (Na), oggi una delle più visitate meraviglie italiane, seconda solo al Colosseo, che fu colpita il 24 agosto del ’43 con il risultato di arrecare solo gravi danni al nostro patrimonio storico senza alcun vantaggio, almeno minimo, di tipo militare. Questo incomprensibile atto vandalico, come fu definito ovviamente dalla propaganda fascista e nazista, tra l’altro non a torto, nacque sostanzialmente da un gravissimo errore di valutazione dell’intelligence angloamericana, la quale, oltre ad ulteriori aspetti che per brevità non si esplicitano, avendo «inteso» la presenza di reparti nazisti e di una probabile santabarbara all’interno del parco archeologico campano, ordinò il pesante attacco. Invece,
molto più probabilmente, come testimoniato da altri famosi casi, la presenza e, quindi, l’avvistamento di diversi militari tedeschi in loco era semplicemente la conseguenza del fenomeno turistico in atto. La conferma, per Pompei, arriva anche solo banalmente dalle tante fotografie di soldati tedeschi che, come oggi fanno i milioni di turisti che la visitano, scattavano fotografie ricordo tra le bellezze della città inghiottita dalla storica eruzione del Vesuvio (Foto 5). Ma i tedeschi hanno lasciato prove di questo turismo più rilassato, meno pressante rispetto a quello francese, imposto chiaramente dalle ideologie razziali e dai regolamenti militari, in tutte le più importanti località italiane. Napoli, prima del suo periodo nero, il 1943, era meta anche di un fiorente turismo fotografico, paesaggistico e artistico, per il quale possiamo ad esempio citare il protagonista di un’altra incredibile vicenda, quella del furto dei beni evacuati da Montecassino prima della sua distruzione il 15 febbraio del 1944. Prima di esser coinvolto nella rocambolesca operazione di sgombero dell’Abbazia guidata da mons. Diamare, il capitano della Divisione Göring Maximilian Becker, medico tedesco e professionista delle belle arti, durante la permanenza a Napoli visitava regolarmente Pompei per lo studio delle forme classiche e per completare i suoi lavori artistici. Proprio osservando foto e fotocartoline, le seconde tanto in voga tra i militari germanici presenti in Italia e in Francia, si osserva un vivace flusso turistico che appare incredibilmente moderno e organizzato, un vero precursore di ciò che il nostro capitalismo ha poi reso porzione fondamentale dei bilanci economici nazionali di mezzo mondo. Incredibili le foto alla Reggia di Caserta, dei veri e propri selfie lungo le vasche del parco borbonico, come pure simpaticamente affascinanti le foto a Venezia in Piazza San Marco, con i soldati a giocare con i piccioni esattamente come accade oggi, scene che potrebbero sembrare la vera ispirazione di tante commedie italiane del dopoguerra girate in quel luogo. Foto che mostrano via via la mutazione di un fenomeno iniziato in Francia da una semplice e becera occupazione militare, poi trasformatosi negli anni in linfa vitale per la ricostruzione morale dell’Europa. L’Italia, paese amico della Germania, fu però il vero collettore di questa rapida evoluzione degli atteggiamenti ludici dei militari nazisti, tanto che al termine dell’alleanza italo-tedesca essa contribuì perfino a terribili e inaspettate conseguenze. L’esempio più evidente è nella «strage di Bellona», 54 martiri uccisi ad inizio ottobre del ’43 nella cittadina del casertano diventata successivamente famosa per la «pizza all’americana». Una conseguenza dell’8 settembre certo, ma a ben vedere un mix tra improvvisati cambi di casacca italiani e la brusca interruzione delle normali e amichevoli abitudini ricreative delle truppe germaniche, in moltissimi casi addirittura accasate in tante famiglie, facoltose o umili, dell’Italia fascista sotto le bombe alleate. Il rifiuto di un rapporto amichevole, magari accompagnato da una cena a base di prodotti locali, contribuì sfortunatamente alla catena degli eventi, o potremmo dire azioni-reazioni, che il 6 ottobre si concretizzò nell’inopportuno omicidio di un soldato tedesco, nel ferimento di un secondo commilitone e nella successiva reazione del locale Comando che, dopo un terribile rastrellamento, diede vita alla prima delle più gravi reazioni militari della Divisione Göring nell’Italia post armistizio. Iniziava, tristemente, il disumano fenomeno dello stragismo nazista.
Superato l’apice della gloria, come ci hanno ben raccontato gli storici, il III Reich si avviava, sul finire del 1943, contestualmente all’invasione del «ventre molle dell’Europa», l’Italia secondo la famosa definizione di Churchill, ad un veloce declino che avrebbe cambiato definitivamente gli equilibri di forza mondiali. Con lo sbarco a Salerno e l’occupazione di Napoli, più che con l’operazione di conquista della Sicilia, gli angloamericani iniziarono a globalizzare un’Italia ferma e impoverita dalla guerra, innestando sui nostri territori concetti più avanzati e speculativi di imprenditorialità e gestione pubblica. Nondimeno, ritornando al tema principale, modificarono in modo sostanziale ciò che i tedeschi avevano imposto in Francia e liberamente praticato in Italia: il turismo.
Stava arrivando nel Bel Paese, a fine guerra in tutta Europa, il vento caldo del turismo commerciale, imprenditoriale, più meramente ludico che culturale, ovviamente con il classico scopo americano di fare «a pile of money». Per recuperare il tempo perduto, potremmo dire, non solo per l’ovvia valenza storico culturale di determinati luoghi, gli americani decisero di riutilizzare intelligentemente tutti i percorsi precedentemente tracciati dai tedeschi, i quali avevano proficuamente abituato le popolazioni e gli imprenditori locali a vivere in un contesto commerciale di servizi resi ad escursionisti e vacanzieri in divisa. Ancora una volta ricompare, quindi, il turismo. Dove già si aiutavano visitatori in divisa a godere del paesaggio, dei musei, dei parchi archeologici, dei teatri e cinema, come pure dei tanti servizi commerciali di ristorazione e accoglienza, si creavano nuove e più favorevoli condizioni per fare soldi mentre si mascheravano tali attività, comunque utili a tutti, come il necessario ristoro, riposo, dalle tragedie vissute al fronte. Erano arrivati, quindi, i rest camp in Italia, soprattutto nella Campania conquistata e trasformata in una retrovia tanto sicura da ospitare il Quartier Generale Alleato nella Reggia di Caserta dall’11 novembre del 1943 (Foto 6).
Arrivati a Napoli il 1 ottobre dello stesso anno, i comandi britannici e americani, in testa alla coalizione che annoverava anche altre nazioni, organizzarono un vero e proprio protocollo militare, come già fatto dai tedeschi a Parigi, chiamandolo R&R, Rest and Recuperation, ossia riposo e recupero, obbligando interi reparti a prendersi del tempo libero al termine di fasi particolarmente logoranti delle operazioni belliche sul campo, soprattutto per i traumatizzati combattenti di prima linea. In particolare, il Comando americano assegnava ai propri combattenti, come vero e proprio dovere (duty), una serie di attività ricreative in luoghi particolarmente belli allo scopo di rinfrancare lo spirito e rinvigorire il morale dei ranghi militari. Oltre a viaggi in siti naturalistici, tra cui citiamo ad esempio la Grotta Azzurra di Capri o le Grotte di Zinzilusa in provincia di Lecce, o a carattere storico-artistico-museale, come le visite ad Ischia, Capri, Sorrento, Amalfi e immancabilmente agli scavi di Pompei, le truppe americane soggiornavano in appositi rest camp perfettamente attrezzati per le classiche attività ludiche anglosassoni (Foto 7). Alcool, sigarette, freccette, musica, pin up appese al muro e tanto altro che veniva coordinato pure con varie attività sportive, dal baseball alla box, e perfino alle pratiche religiose testimoniate non solo dalla partecipazione alle messe nelle chiese siciliane, campane e pugliesi, ma addirittura da cerimonie di battesimo nell’acqua nelle fontane dei giardini della Reggia di Caserta! (Foto 8 e 9). Non dimentichiamo, poi, che a quel tempo, rispetto al più degradante e incontrollato sistema odierno, ovviamente senza entrare nella questione morale, il turismo per i soldati angloamericani era legato anche agli svaghi di natura sessuale che, proprio in Campania, erano spesso impiantati nei nostri beni culturali semidistrutti dai bombardamenti. A tal proposito si può citare l’improprio uso del ferito Teatro San Carlo di Napoli che per un certo periodo, fino all’oculato affidamento al colto Capitano inglese Peter Francis, che lo riportò alle sue vere attività dal 15 maggio del 1944 con l’attesa rappresentazione dell’Aida, ospitò anche spettacolini a sfondo sessuale per far sfogare i bollenti spiriti dei tanti soldati americani accampati in una città praticamente distrutta e pericolosamente «epidemizzata» da malattie veneree, pidocchi e successivamente febbre tifoide.
Come fatto precedentemente dai nazisti, le autorità militari, britanniche e americane, si prodigarono con veemenza per promuovere visite, escursioni e attività ludiche dalle pagine di bollettini e riviste specificamente create per le truppe. È il caso del famoso periodico «Stars & Stripes», quasi una copia del già menzionato «Wegleiter» tedesco, che pubblicava pagine e pagine di indicazioni sui principali luoghi di interesse storico-artistico o paesaggistico italiani, come pure programmi, orari e mappe sui vari intrattenimenti disponibili nelle città liberate, tra cui concerti, spettacoli e show la cui testimonianza più bella e autentica è l’artigianale magazine americano «The Chronicle’s guide to local recreation centers» che veniva pubblicato a Piazza Margherita, ad appena un centinaio di metri dalla Reggia di Caserta. Un giornale a carattere locale, votato all’informazione per le numerosissime truppe presenti nell’unico capoluogo italiano cancellato dal fascismo, in cui venivano riportati appuntamenti, frequenze e programmi radio, attività sportive e soprattutto si mappavano i diversi locali impiantati in città non solo per i soldati, ma anche e soprattutto per le tante soldatesse a stelle e strisce, le WACs (Women’s Army Corps), cui erano addirittura dedicate sale di ritrovo e coiffeur/estetisti su Corso Umberto I. Ma in genere, tutte le riviste ed i dispacci che i vertici militari emanavano per seguire il protocollo R&R, valorizzavano le attività turistiche con continui reportage sulle visite organizzate e già terminate dalle truppe combattenti, in città di rilevante importanza storico-artistica come Roma, Firenze, Palermo, Catania, Bari, Taranto, Caserta, etc., includendo spesso i più importanti luoghi del turismo religioso come ad esempio San Giovanni Rotondo in Puglia, visto che l’ampia fetta di truppe di confessione cattolica utilizzava regolarmente le chiese italiane e chiedeva una più libera fruizione di luoghi di particolare significato come la stessa San Pietro a Roma (Foto 10).
Il sistema del R&R, già presente da inizio secolo, trasformato in un più pressante e politico protocollo gestionale, economico ed amministrativo durante la Seconda guerra mondiale, fu ampiamente istituzionalizzato dalle forze armate statunitensi durante l’occupazione in Italia. Ciò, però, non fu realizzato esclusivamente per fini interni ma, come successo per i nazisti in Francia, era stato concepito altresì per avviare un vero e proprio turismo militare di massa, sia pensando alla prevedibile ricostruzione postbellica europea, sia per controllare i nuovi paesi allineati attraverso una globalizzazione delle presenze civili che legittimasse un mercato turistico-ricreativo massivo dall’America verso l’Europa, sostanzialmente per plagiare il nuovo mondo postbellico a misura anglosassone (Foto 11). A ben vedere è ciò che effettivamente viviamo oggi, sulla base stabile di quanto fatto ieri in quei particolari anni di sangue. Passando dalla normalizzazione dell’occupazione americana in Italia, a partire dalla Campania, primo vero fronte di una globalizzazione economica passata per la Napoli della Tammurriata nera e dei nuovi figli «nir nir», gli States conquistarono la fiducia degli affamati italiani, assestarono l’aura da «liberatori» e prepararono il terreno ad un consumo turistico di massa funzionale sia all’inserimento dell’Italia nella sfera delle democrazie capitalistiche, quindi militarmente nell’Alleanza Atlantica, sia al definitivo imbrigliamento della nostra economia nel sistema politico-economico del nuovo leader mondiale.
Tra le tante tragedie della WW2, che gli italiani parzialmente mitigarono aderendo solo formalmente a determinate ideologie, almeno per la stragrande maggioranza della popolazione e delle pur inquadrate istituzioni fasciste, il fenomeno del Turismo Militare di Massa rappresenta un particolare ed affascinante indicatore degli straordinari cambiamenti che l’Europa visse in quegli anni e, come detto all’inizio di questa trattazione, ne trasformarono il volto con lo stesso schema mitologico dell’Araba Fenice.
In effetti, oggi si può affermare con sostanziale certezza che siamo rinati dalle nostre ceneri anche grazie ad una improbabile massa di turisti in divisa, prima tedeschi e poi anglosassoni, che fruirono e apprezzarono i luoghi magici della nostra cultura millenaria, avviando il turismo di seconda e terza generazione ed una florida industria globalizzata che muove ogni anno milioni di persone e le economie di tutto il pianeta.
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