I ragazzi della via Sferracavalli a Cassino

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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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di Donato Rivieccio

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Anni ‘50: nella Cassino post-bellica risorgevano i quartieri con rade case (si partiva dalla tabula rasa provocata dagli aerei americani). In questi quartieri, spuntavano come anemoni nei prati primaverili i primi gruppi di adolescenti organizzati in bande, che esprimevano la loro esuberanza cercando lo scontro con le gang avversarie.

I più focosi erano quelli del rione «Colosseo», che spesso e volentieri collidevano con quelli della «Stazione». Oltre a questi citati, ricordo la banda della «Birra Peroni», del «Campo Boario», di «San Silvestro» (vecchio e nuovo, due gruppi distinti) e «Fraschetti».

Nella zona di interregno tra «Fraschetti» e «San Silvestro nuovo» si coagulò una mini-banda formata da solo due elementi, due fratelli: Ciro e Donato.

I due, numericamente, erano chiaramente destinati a soccombere negli scontri diretti con qualsiasi altro gruppo, in quanto tutti gli altri erano organizzati in drappelli di almeno 8/10 elementi.

A questo punto vi chiederete come mai spettasse a questo esercito striminzito il brand di «banda». Vi spiego: i due fratelli disponevano di un armamentario invidiabile, in quanto il loro padre, Luigi, faceva lo «sfasciacarrozze» e ogni giorno riceveva la visita di clienti che, sui loro carretti, trasportavano schegge di ferro e residuati bellici destinati alle fonderie napoletane. Ebbene, tra questi scarti ferrosi, i due giovani guerrafondai recuperavano elmetti, armi e proiettili che, sebbene inutilizzabili per una vera guerra, per una giocosa parodia di combattimento avevano il fascino di una lampada d’Aladino con almeno un paio di desideri ancora da esaudire.

Insomma, questo binomio battagliero (Ciro e Donato), era rispettato con reverenziale timore come un totem, come un tabù.

Spesso bande contigue inviavano legati per parlamentare, per stabilire patti di alleanza o di non belligeranza, e il generale Ciro (quasi un satrapo persiano) faceva il suo figurone potendo contare su di un soldato semplice, Donato, disposto a ricoprire più di un ruolo per salvaguardare l’efficienza di una perfetta macchina bellica con l’handicap di una manovalanza esigua. Comunque le sortite erano rare in quanto i due preferivano presidiare la propria guarnigione e rinforzarla piantando, per esempio, un’enorme fionda con l’ausilio di strisce di caucciù ricavate dalle camere d’aria di ruote di camion (per le fionde tascabili chiaramente usavano le camere d’aria di biciclette o di utilitarie). Con quella catapulta sognavano di poter espugnare persino le case matte sulle falde del monte. Quando però si doveva intervenire, o per confermare il loro dominio su un determinato sito, o per dar man forte ad un gruppo alleato (pacta servanda), arrivavano ad un compromesso per essere più duttili nell’operatività delle missioni extraterritoriali.

In quei frangenti lasciavano il munizionamento pesante nel loro fortino e raggiungevano il teatro di guerra armati di spade lignee, per essere alla pari dei contendenti ed evitare disfatte eventualmente causate dall’ingombro e dal peso dell’armamento ordinario.

Per inciso, mi piace ricordare che in quei tempi, nei rari giorni di pace, i ragazzi, anche se originariamente schierati in ranghi contrapposti per la tenzone, si dilettavano promiscuamente in momenti ludici, facendo correre i cerchioni di bicicletta (senza copertoni e senza raggi) spingendoli tramite un tondino di ferro ricurvo nella punta; oppure ci si divertiva con i «carrocci» (prototipi dei go-kart, senza motore ovviamente; le ruote erano costituite da cuscinetti a sfera), o con le biglie di vetro (Donato era un campione in quel gioco, in cui bisognava colpire il bersaglio, ossia le palline degli avversari). La sera quelle sfere policrome diventavano un caleidoscopio sfavillante, se collocate in posizione d’eclisse tra il soldato sognatore e la lampadina-sole che pioveva dal soffitto.

Per un breve periodo si giocò a «spacca strummolo», ma Donato ben presto disertò quel passatempo in quanto amava le forme archetipe di quelle piccole trottole e non gradiva che subissero scheggiature e menomazioni causate dalla collisione violenta con un altro cono di legno dalla punta in ferro, scagliato da un sadico energumeno, magari più vecchio di un paio d’anni. Quelle «mini-mongolfiere», quando le si liberava dallo spago accuratamente avvolto intorno, scagliandole sul terreno, roteavano vorticosamente fino a quando si esauriva l’energia cinetica e, dopo le ultime convulsioni con l’estremo spasmo, si adagiavano inerti sul terreno fino al nuovo lancio che le resuscitava.

Dal gioco di «mazza e pieuz’» (prodromo del baseball), scaturì l’idea delle spade di legno. Con l’ausilio di un sol chiodo, i ragazzi della via Sferracavalli costruirono il prototipo della loro Excalibur. «Gliu pieuz’» [legnetto di sezione circolare lungo una quindicina di centimetri, aguzzo alle due estremità per favorirne, una volta battuto col bastone lungo (un metro circa), l’innalzamento e poter essere scagliato più lontano possibile da un secondo colpo al volo] divenne l’elsa dell’arma bianca.

Un bel giorno la banda dei due dovette operare una sortita ardita con le spade in una zona impervia tra acquitrini (micro laghi provocati forse dai crateri formatisi a causa della caduta delle bombe) e mura diroccate, anch’esse retaggio della Seconda guerra mondiale, nei dintorni della vecchia torre campanaria (non fu spianata dalla guerra ma smembrata in seguito, e i suoi blocchi tufacei, numerati per favorirne la ricostruzione, in attesa di una ricollocazione ideale, una piazza ottimale). Fu una battaglia epica; i due si persero di vista, ma continuarono a menar fendenti. Alla fine si ritrovarono nei pressi di uno stagno. Non c’erano ninfee in quello specchio d’acqua ma un ammasso di lenticchie verdi che ne orlavano il contorno. Non si sentivano squilli di tromba, ma, all’ombra delle tife e tra i giunchi, le ranocchie acclamavano i due condottieri con il loro gracidio, come fosse un peana, mentre la coppia di spadaccini imberbi rientrava esausta nel proprio accampamento. Nella parte avversa vi erano stati dei feriti (piccole escoriazioni, non pensate a scene cruente) e Donato aveva con sé due spade, poiché una era stata sottratta al contendente, che l’aveva lasciata cadere a terra e se l’era data a gambe.

I fratelli rientrarono nel loro fortino con tre o quattro medaglie virtuali sul petto, e fu là che Donato trovò il coraggio per presentare una rivendicazione sindacale. «Caro Ciro, mio generale, con tutta sincerità devo confessarti che da tempo mi sento un po’ affogato nel ruolo di soldato semplice. Sono stato sempre fedele ed obbediente, sono stato sempre puntuale nel servire le vettovaglie nelle gavette, ho tenuto ben lustrate le baionette, sono stato sempre diligente nel disegnare le mappe con i sentieri della Rocca e di Montecassino, dove andiamo a procurarci gli “strugli” – parla degli steli esili eppur resistenti di color paglierino che spuntano tra i ciuffi di “stramma” – con cui ho realizzato le frecce più affidabili, ben bilanciate, con le punte rinforzate dal filo di rame avvolto all’estremità per aumentarne la gittata, ho procurato le pietruzze per le nostre fionde nei campi di ghiaia degli eserciti nemici. Non ti sembra giusto, a questo punto, nominarmi generale?».

Cadde tra loro un silenzio fragoroso.

Durò poco: in breve, Ciro il Magno tirò fuori la somma dei suoi ragionamenti con un’aplombe degno di Cesare al Rubicone (alea iacta est: il dado è stato lanciato, quale numero uscirà? L’uno? Il sei?).

«E sia», disse, e Donato pensò: è fatta, è uscito il sei! (povero illuso).

«E sia. Per meriti speciali, per il tuo valore nei combattimenti, per la tua fedeltà, ti nomino generale sul campo…» – pronunciò queste parole con fare solenne, appuntandomi una patacca sul petto – «…vuol dire che da oggi, Io sarò Generalissimo!».

Il Gattopardo ce l’ha insegnato, ogni rivoluzione all’inizio appare come un sovvertimento epocale, ma in seguito si palesa come trait-d’union tra l’ancien régime e la restaurazione.

E così Donato, pur da generale, continuò a fare l’attendente del generalissimo, anche se ebbe netta la sensazione che quel grado roboante non fosse solo una forzatura grammaticale, ma anche un imbroglio appena larvato.

Di lì a poco, deposte le armi, il più giovane dei fratelli si dedicò ai giochi del calcio (con scarso successo), della musica e dell’amore.

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Post scriptum

Per amore di verità, e quindi per scendere di qualche gradino dal piedistallo auto celebrativo, mi apro ad una confessione. Quella forcella gigante che piantammo al centro del nostro accampamento non resse per più di qualche tiro, e la gittata, che nei nostri programmi doveva raggiungere i fortilizi nemici, a stento arrivava alla nostra stessa palizzata. Inoltre, è sì vero che ero abile a confezionare le frecce con gli «strugli», ma per gli archi potevamo contare sull’aiuto di Alessandro, storico operaio di papà [ad onor del vero quel nome, smussato dalla pietra pomice del nostro dialetto-idioma (un colpo al cerchio e uno alla botte) suonava «Lisàndr» (il vocativo era più asciutto e levigato: «Lisà!»)]. Avrete capito che quell’esercito binomiale, Ciro e Donato, poteva contare persino su di una milizia mercenaria (Alessandro ed altri stagionali) che con amore famigliare irrobustivano la nostra tempra militaresca con il loro contributo, tanto da far aumentare la sacralità di questi dioscuri-scugnizzi col petto risplendente di medaglie, stellette e croci di guerra.

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