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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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di Gaetano de Angelis-Curtis
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La conquista nel 1936 dell’Etiopia, unita a Eritrea e Somalia a costituire l’Africa Orientale Italiana e preceduta dall’aggregazione nel 1934 di Cirenaica e Tripolitania a comporre la Libia, consentì la formazione dell’Impero coloniale italiano. Contemporaneamente si giunse alla riorganizzazione dei reparti di Pubblica sicurezza operanti in Libia e di quelli a presidio del governatorato italiano nel Corno d’Africa. Tale riordino portò alla costituzione del Corpo di Polizia Coloniale, ufficialmente istituito il 10 giugno 1937 con Regio Decreto n. 1211, e poi trasformato nel 1939, con legge n. 748 del 15 maggio, in «Polizia Africa Italiana» (Pai). Il Corpo era alle dirette dipendenze del Ministero delle Colonie, poi rinominato in Ministero dell’Africa Italiana. Svolgeva funzioni di polizia politica, polizia giudiziaria e polizia amministrativa sul territorio delle colonie dell’Africa Settentrionale (Libia) e dell’AOI (Eritrea, Somalia, Etiopia) ma, allo stesso tempo, esercitava anche «compiti di Polizia confinaria, portuale e stradale». Proprio per la specificità delle funzioni espletate fu organizzata una struttura formativa, la Scuola di addestramento di Tivoli1, all’avanguardia per il tempo2. Complessivamente si componeva di 6.400 uomini tra agenti bianchi e indigeni, i cosiddetti ascari di polizia. Il fregio del Corpo era un’aquila ad ali spiegate, con scudo Savoia sul petto e nodo Savoia tra gli artigli. Fondatore e primo comandante fu il gen. Riccardo Maraffa. Il comando generale si trovava a Roma, mentre furono istituiti due ispettorati generali, uno a Tripoli per la Libia, e uno ad Addis Abeba per l’Africa Orientale.
Il primo intervento armato della Pai si ebbe nel 1939 contro ribelli abissini, riuscendo disperderli. Poi nel corso dei combattimenti della Seconda guerra mondiale la Pai fu una unità combattente, affiancando reparti dell’Esercito. Terminò ben presto l’attività bellica in Africa, nel novembre 1941 in AOI con la resa dei territori eritrei e poi, esattamente un anno dopo, in Libia dopo la sconfitta di El Alamein.
Così dopo la perdita delle colonie i contingenti presenti nella madrepatria ed eventualmente quelli rientrati dall’Africa, continuarono le operazioni in Italia mentre la Scuola di Tivoli proseguì nell’addestramento di nuove reclute.
La presenza di tutto il contingente Pai in Italia portò all’assegnazione di vari distaccamenti, utilizzati come magazzini, alle dipendenze dalla Scuola addestramento di Tivoli. Fu il caso di Carsoli oppure di Cassino. C’è da ritenere verosimilmente che in quest’ultima città fossero state assegnate alla Pai varie strutture militari nell’ex Campo di Concentramento di Caira che dal 1927 erano adibite a deposito di materiali della Direzione di artiglieria3. Anche la Pai dovette utilizzare quei locali come deposito di vestiario, di calzature e materiale vario. Invece il personale Pai prese alloggio in strutture abitative, con alcuni che vi si trasferirono con la famiglia.
Così a Cassino giunsero il maresciallo maggiore Arturo Merlo (assieme alla moglie e ai suoi due figli, Nicolino e Alfredo), il vicebrigadiere Mario Gana (con la moglie), le guardie Pai Giuseppe Giovannucci, Francesco Mennuno, Pasquale Picone, Ettore Verardi, Antonio Tabilio, Michele Gallo, Antonio Gorbato, poi c’era l’operaio civile Mario Gallozzi.
Nel frattempo, con la caduta del fascismo, la Pai era impegnata quale forza di polizia a Roma. Poi dopo l’annuncio dell’Armistizio, la Pai partecipò alla difesa di Roma, già dichiarata unilateralmente «Città Aperta». Da quella sera dell’8 settembre e per i tre giorni successivi combatté contro i tedeschi e i «primi morti per la difesa di Roma si registrarono proprio tra le fila della P.A.I.» a Porta S. Paolo, in Via Ostiense, a Castelfusano, alla Magliana, alla Piramide di Caio Cestio4 offrendo, allo stesso tempo, aiuto a militari sbandati5.
Quindi il 10 settembre 1943 la città di Cassino subì il suo primo bombardamento da parte di una ventina di aerei che la colpirono in due ondate successive. Un’azione inattesa, a soli due giorni dall’annuncio dell’Armistizio, e tragica perché il bombardamento dell’aviazione alleata causò la morte di un centinaio di vittime civili, oltre a tre soldati tedeschi.
Il dato sulle vittime civili è approssimativo poiché in quei frangenti i forti danni prodotti alle strutture edilizie e il fuggi fuggi generale nel timore di nuovi bombardamenti ostacolarono le operazioni di intervento de recupero. Così nell’immediato poté essere rimossa solo una parte delle macerie dei fabbricati colpiti mentre per altri edifici, con i corpi dei morti, non si ebbe modo di intervenire e, conseguentemente, l’identificazione di tutti i morti e il numero preciso delle vittime non sono mai stati accertati. Le ricerche effettuate in questi anni hanno portato a censire con sicurezza un numero di vittime civili pari a 676 ma mancano all’appello una quarantina di deceduti. Tuttavia il bombardamento del 10 settembre non causò solo la morte di inermi cittadini di Cassino o che si trovavano in città provenienti da luoghi più o meno vicini7, nonché il ferimento di persone che portarono i segni per tutta la loro vita, ma provocò la scomparsa anche di militari. Infatti tra i morti di Cassino, oltre ai tre soldati tedeschi, ci sono anche i militari della Pai trasferiti in città qualche tempo prima per provvedere alle operazioni di immagazzinamento dei materiali in dotazione alla Polizia dell’Africa Italiana.
Dopo il bombardamento del 10 settembre, di cui aveva avuto solo «qualche vaga segnalazione verbale», la Pai decise di inviare a Cassino un suo ufficiale, il tenente colonnello Nicola Di Raimo, per effettuare un’ispezione e accertare le vittime e i danni subiti dalle infrastrutture adibite a magazzino. Il ten. col. Di Raimo giunse a Cassino il 27 settembre, accompagnato dal brigadiere Armato e da un operaio, e l’8 ottobre si apprestò a inoltrare al Comando generale il pro-memoria che aveva redatto. Nella sua relazione, il ten. col. Di Raimo, scriveva che appena giunto in città aveva potuto constatare «che la casermetta adibita ad alloggi degli agenti» era stata colpita in pieno dal bombardamento ed era dunque «completamente crollata» mentre i «restanti locali nei quali erano stati depositati i materiali erano stati danneggiati». Quindi continuava elencando i danni alle persone distinguendo le vittime accertate dai feriti.
Risultavano essere morti in seguito al bombardamento:
Giuseppe Giovannucci, guardia, Scuola addestramento Pai di Tivoli – Magazzino di Cassino, di anni 21, nato
il 25 settembre 19228;
Francesco Mennuno, guardia, Scuola addestramento Pai di Tivoli – Magazzino di Cassino, di anni 21, nato a Cerignola (Foggia) il 13 aprile 19229;
Pasquale Picone, guardia, Scuola addestramento Pai di Tivoli – Magazzino di Cassino, di anni 20, nato il 19 gennaio 192310;
Ettore Verardi, guardia, Scuola addestramento Pai di Tivoli – Magazzino di Cassino, di anni 26, nato il 25 dicembre 191611;
Mario Gallozzi, operaio civile12;
Mario Gana, vicebrigadiere, Scuola addestramento Pai di Tivoli – Magazzino di Cassino, ufficialmente disperso in quanto «mancava ogni notizia» per cui ten. col. Di Raimo ne dichiarò la morte presunta13. Il vicebrigadiere era rimasto ferito «in modo gravissimo» per cui era stato caricato su un’ambulanza tedesca al fine di essere trasportato a un posto di medicazione. Tuttavia del vicebrigadiere si era persa ogni traccia. Le ricerche effettuate dal ten. col. Di Raimo e dalla moglie del vicebrigadiere presso i tre posti di medicazione e di ricovero delle salme istituiti in città per l’occasione, presso gli ospedali di Pontecorvo e Frosinone, presso il Comune di Cassino e presso il locale cimitero, risultarono infruttuose così come neanche in seguito poté essere reperita alcuna notizia del sottufficiale14. Il ten. col. Di Raimo riteneva che, in base alla gravità delle ferite riportate, Mario Gana fosse deceduto sull’ambulanza durante il trasporto o appena arrivato al posto di medicazione e seppellito subito dopo in quanto «numerosi cadaveri» risultavano essere stati «tumulati senza preventivo riconoscimento».
Alla data del 27 settembre i corpi delle quattro guardie perite risultavano ancora sotto le macerie. Quelli di Francesco Mennuno ed Ettore Verardi furono estratti nel corso della giornata con l’ausilio del personale comandato dal ten. col. Di Raimo il quale si interessò del reperimento della «cassa mortuaria» e del loro seppellimento. Invece i corpi delle altre due guardie rimasero sotto i detriti e il ten. col. Di Raimo prese accordi affinché i lavori di scavo fossero proseguiti nei giorni successivi a cura del Comune.
I feriti risultavano essere il maresciallo maggiore Arturo Merlo e, «molto gravemente», l’altra guardia Antonio Tabilio. Tutti e due erano stati ricoverati all’ospedale di Pontecorvo. Viceversa erano rimasti illese le altre due guardie Michele Gallo e Antonio Gorbato.
Inoltre il bombardamento aveva colpito e totalmente distrutto la casa del maresciallo maggiore Arturo Merlo (di Nicola e Antonia Antillitano, originario di Reggio Calabria) provocando la morte della moglie e il ferimento dei due figli. Nella relazione il ten. col. Di Raimo volle mettere in evidenza la «passione e lo zelo», nonché il comportamento «ammirevole ed encomiabile» tenuto nell’occasione da Arturo Merlo il quale, nonostante la morte della moglie, il suo ferimento «in modo grave alle gambe» e quello dei figli, lasciò «in barella il magazzino solo dopo aver dato precise istruzioni» alla guardia superstite, Michele Gallo, «per la ricerca» dei superstiti e la «sorveglianza del materiale»15.
Per quel che riguardava i danni materiali il ten. col. Di Raimo scriveva che, oltre all’«arredamento completo della caserma, [al] corredo e [all]’equipaggiamento dei militari», erano andati distrutti «tutti i materiali depositati nel vastissimo androne» e in uno dei locali di deposito. Invece quelli che si trovavano negli altri locali si erano salvati. Questi costituivano solo una parte dei materiali depositati a Cassino. Infatti proprio dall’inizio del mese era in atto lo sgombero dei locali di Cassino di «stoffe, tessuti, calzature e materiali di maggiore valore e interesse per il Corpo» che man mano venivano spostati nel deposito di Carsoli. Tuttavia le operazioni di trasferimento si erano dovute arrestate a causa della mancanza di vagoni ferroviari.
Così il 10 settembre si trovavano in giacenza a Cassino quei materiali non ancora trasportati a Carsoli, e cioè «teli da tenda, maschere, tascapani … in quantità più o meno ingente», per cui se non fosse stata avviata l’opera di trasferimento si sarebbe avute delle perdite maggiori. Tuttavia gran parte dei materiali che non furono distrutti quel 10 settembre andarono ugualmente persi dalla Pai. Infatti gli spostamenti d’aria dovuti al bombardamento avevano «divelto porte serrature e finestre» dei magazzini e così la mancata sorveglianza e la scarsa protezione dei locali «aveva fatto sì che qualche giorno dopo» si portassero sul luogo dei reparti tedeschi i quali prelevarono gran parte degli articoli militari lì depositati. Anche a Cassino è rimasta traccia di quanto avvenuto. Infatti testimoni di allora ricordano come l’ex Campo di concentramento, che era divenuto un «deposito di vestiario, di calzature e di materiale vario», fosse stato «occupato immediatamente dai tedeschi» i quali prelevarono «tutto quello che conteneva, servendosi della gente della zona», nella fattispecie di Caira, «per inventariare e confezionare ogni cosa»16.
Alla fine della sua ispezione il ten. col. Di Raimo, prima di andar via da Cassino, consegnò, come da istruzioni ricevute, la somma di L. 2.000 al maresciallo Merlo, di L. 1.000 alla signora Gana, di L. 500 alle guardie Gallo e Tabilio. Inoltre lasciò sul posto il brigadiere Armato e l’operaio affinché provvedessero al recupero delle salme e dei materiali residui. Egli fece poi ritorno a Cassino il 7 ottobre successivo con autocolonna per provvedere allo sgombero di tutto il materiale che era «stato possibile recuperare (borracce, schedari e maschere antigas)».
Il bombardamento dei magazzini della Pai starebbe a provare che, ipotizzando l’ubicazione dei magazzini nelle strutture dell’ex Campo di Concentramento di Caira, l’attacco aereo avrebbe avuto un raggio di azione più ampio di quanto finora ritenuto poiché non si sarebbe concentrato solo in prossimità della stazione ferroviaria (colpendo l’area delle Terme Varroniane e della località di Agnone) e nel centro città (da via Sferracavalli, a villa Baccari, a viale Dante, alle vicinanze del Liceo classico divenuto sede del quartier generale tedesco) ma avrebbe colpito anche la periferia lungo la strada di collegamento con la frazione di Caira.
Tornando alle vicende generali della Pai, quest’ultima, dopo l’internamento del gen. Maraffa, operò a Roma al comando del gen. Umberto Presti. Nei territori settentrionali, nell’ambito della Repubblica Sociale Italiana, fu operato un tentativo di riorganizzazione del Corpo con l’apertura, nell’autunno del 1943, della scuola di Busto Arsizio. Poi con provvedimento del 5 gennaio 1944 la Pai passò alle dipendenze della Guardia Nazionale Repubblicana. Invece nell’Italia meridionale, sotto l’autorità del Regno del Sud, la Polizia dell’Africa Italiana convisse accanto alle altre Forze dell’Ordine, ma il 15 febbraio 1945, con Decreto Luogotenenziale n. 43, si giunse allo scioglimento. Sulla Pai, fra le altre cose, pesò negativamente la collaborazione con i tedeschi nella sostituzione a Roma dei Carabinieri17.
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NOTE
* Ringrazio il dott. Raffaele Camposano, direttore dell’Ufficio e Museo Storico della Polizia di Stato per la pregevole documentazione bibliografica trasmessa nonché Carlo Nardone per le preziose indicazioni fornite. Della vicenda legata alla morte dei poliziotti Pai a Cassino, nonché della stessa presenza in città del Corpo, non si è avuto mai ragguaglio nelle ricerche e negli studi svolti sulle vicende belliche a Cassino e nemmeno è mai emersa dalle testimonianze raccolte tra le persone che vissero quella esperienza del 10 settembre 1943. Sulle vicende della Pai cfr. R. Girlando, PAI-Polizia dell’Africa Italiana, Italia Editrice 1996 e R. Camposano, F. Santilli (a cura di), Dura lex sed lex, Ministero dell’Interno, Ufficio Storico della Polizia di Stato, Roma 2018.
1 «La Polizia dell’Africa Italiana infatti doveva non solo gestire i già complessi problemi di ordine e sicurezza pubblica in ambito coloniale, ma anche concorrere con l’alleato germanico alla difesa del territorio sotto il profilo bellico contro gli Inglesi. Quindi, non solo poliziotti ma anche soldati. Il riverbero in tema di pubblicità di tale scuola valicò ben presto i confini d’Italia: in essa giunsero anche soldati e poliziotti provenienti da Germania e Francia per acquisire nozioni e tecniche operative ritenute innovative e che non tardarono a imporre la P.A.I. Come una delle forze di Polizia più importanti e blasonate. Dalla scuola di Tivoli uscivano poliziotti con un elevato standard militare e culturale, ricevendo anche una valida formazione sotto il profilo linguistico mediante l’insegnamento della lingua francese e tedesca» (https://polizianellastoria.wordpress.com/2016/07/17/gli-istituti-distruzione/).
2 Dopo aver ricevuto dalle autorità consolari tedesche nell’Africa Italiana lusinghieri rapporti sull’alto grado di addestramento degli uomini della Pai, il luogotenente per la Baviera, von Epp, chiedeva nel 1939 di poter visitare la scuola della Pai a Tivoli, per rendersi conto di persona di quanto potesse essere utile farla frequentare dagli ufficiali germanisti. Ne riportò una tale positiva impressione da sollecitare immediatamente Berlino a chiedere al ministero dell’Africa Italiana di consentire che, intanto, 250 sottufficiali e soldati dei corpi speciali del Reich seguissero un corso di addestramento di 6 mesi presso la scuola di Tivoli. Fu soltanto una prova sperimentale, cui seguirono altri mesi regolari per ufficiali tedeschi, nel maggio 1940, nel gennaio, febbraio e maggio 1941 (Ibidem).
3 Sulle vicende della struttura militare adibita inizialmente a luogo di internamento dei prigioni austro-ungarici, poi a Scuola Allievi Ufficiali Carabinieri e infine a Deposito della Direzione artiglieria e oggi dismesso cfr. l’approfondito studio di C. Nardone, Il Campo di concentramento di Cassino-Caira nella Prima guerra mondiale, Cento Documentazione e Studi Cassinati-Onlus, Cassino 2018.
4 R. Camposano, F. Santilli, a cura di, Dura lex sed lex … cit., p. 132. Nonostante tale resistenza i comandi tedeschi decisero di sostituire con poliziotti della Pai i Carabinieri di Roma di cui avevano pianificato il disarmo e la deportazione. Il piano di rastrellamento fu attuato la mattina del 7 ottobre 1943 ma la fuga di notizie permise a 7.000 dei 9.000 Carabinieri di mettersi in salvo (Ivi, p. 133).
5 Era stato il gen. Maraffa che aveva dato ordini di accogliere nella Pai centinaia di ufficiali e soldati del Regio Esercito sbandati dopo l’armistizio, impedendo così la loro deportazione in Germania. Tuttavia alla fine di settembre i tedeschi assaltarono il Ministero della Guerra dove si era insediato il comando della «Città Aperta». La Gestapo ne arrestò il comandante, il gen. Calvi di Bergolo, il gen. Maraffa, e vari ufficiali dello Stato Maggiore nonché il capo della Polizia Carmine Senise che furono tutti portati in aereo a Monaco di Baviera per essere internati nel Campo di concentramento di Dachau dove il gen. Maraffa morì l’11 dicembre 1943 in «circostanze poco chiare» (R. Camposano, F. Santilli, a cura di, Dura lex sed lex … cit., p. 133).
6 Ad esempio solo molto recentemente, nel 2018, si è potuto ricostruire la vicenda del cassinate Domenico Rotondo e della moglie Emma Berger, di origine tedesca, residenti a Roma e venuti il 10 settembre a far visita al padre di Domenico, Vittore, gravemente ammalato, e a Cassino i coniugi trovarono la morte a causa del bombardamento («Studi Cassinati», a. XVIII, n. 3, luglio-settembre 2018, p. 226).
7 Ad esempio perì anche il ferroviere («frenatore) Ferdinando Soave di Cervaro, classe 1909, padre di tre figli, che fu colpito mortalmente da una scheggia in località «Quinto Ponte» mentre in bicicletta si stava dirigendo verso la stazione ferroviaria per prendere servizio («Studi Cassinati a. XIV, n. 3, luglio-settembre 2014, p. 233).
8 www.cadutipoliziadistato.it/caduti/giovannucci-giuseppe/
9 www.cadutipoliziadistato.it/caduti/mennuno-francesco/
10 www.cadutipoliziadistato.it/caduti/picone-pasquale/
11 www.cadutipoliziadistato.it/caduti/verardi-ettore/
12 Il nominativo risulta censito nell’elenco dei 67 deceduti di Cassino (a meno che non si tratti di una omonimia): figlio di Guglielmo aveva 19 anni.
13 www.cadutipoliziadistato.it/caduti/gana-mario/
14 In città i cadaveri furono depositati in camere mortuarie temporanee allestite nella chiesetta di S. Rocco, in alcuni ambienti dell’Edificio scolastico «Principe di Piemonte» (noto localmente come Scuola S. Antonio in quanto ubicato a fianco all’omonima chiesa), e nell’androne del Palazzo Vitti.
15 Il maresciallo maggiore Antonio Merlo era già stato insignito di Medaglia di bronzo al Valor Militare per una operazione di salvataggio che aveva compiuto nel porto di Derna in Libia il 27 agosto 1940 (Istituto del Nastro Azzurro).
16 S. Saragosa, Storia del deposito di artiglieria della contrada Monterotondo di Cassino, in «Studi Cassinati», a. II, nn. 3-4, settembre-dicembre 2004, p. 133.
17 R. Camposano, F. Santilli, a cura di, Dura lex sed lex … cit., p. 133.
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