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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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A dieci anni di distanza dalla concessione della cittadinanza onoraria che il Comune di Pignataro intese offrire a mons. Bruno Forte, legato al territorio per i suoi trascorsi giovanili in quella cittadina e a Montecassino, pubblichiamo il discorso di accettazione pronunciato nella Sala consiliare giovedì 7 gennaio 2010.
Signor Sindaco,
Signor Presidente del Consiglio Comunale,
Signori Consiglieri,
Reverendo Padre Abate di Montecassino,
Carissimo Parroco,
Cittadine e Cittadini tutti di Pignataro Interamna,
Fratelli e Sorelle nel Signore!
è per me un dono non meritato ricevere la cittadinanza onoraria del Comune di Pignataro Interamna, ma è ancor più motivo di gioia il sentirmi unito attraverso di essa in maniera più stretta a una Comunità cha ho conosciuto da bambino e con la quale sono rimasto legato da vincoli profondi di affetto e di fede condivisa. Le parole che desidero rivolgerVi vorrebbero semplicemente sottolineare i motivi per cui Vi sono grato e il messaggio che vorrei trarre per tutti noi da questo evento di amicizia e di comunione ecclesiale. Sono tre gli spunti che brevemente svilupperò: il ricordo di un rapporto gioioso con la bellezza della natura, vissuto spesso da piccolo in questa terra ospitale; l’influenza che ha avuto su di me il monachesimo benedettino, che ha qui il suo centro e cuore nell’Abbazia di Montecassino; e la ricchezza di rapporti umani e spirituali, qui sperimentata e conservatasi fedelmente nel tempo.
- La casa di campagna che la mia Famiglia possedeva nel territorio di Pignataro mi diede la possibilità – negli anni della mia infanzia e dell’adolescenza – di trascorre frequenti periodi di vacanza, soprattutto in estate, a contatto con la natura. Ricordo i giochi nell’aia della casa, in compagnia specialmente di mio fratello Fabrizio, la conoscenza di piante e di animali tanto utili alla vita e alla fatica umana, le serate in terrazza, trascorse sotto un meraviglioso cielo stellato, in ascolto della musica classica (soprattutto di Mozart e di Chopin!), scelta per noi figli da nostro Padre Nicola, ingegnere ricco di fede, innamorato della musica bella, oltre che di questa terra del Liri. Venendo da abitudini cittadine, le giornate trascorse in campagna mi consentirono la scoperta di un altro volto del mondo: quello della fruizione semplice e gioiosa dei doni di Dio, disseminati nell’opera del creato, dalla silenziosa scrittura dei cieli, che avrei poi ritrovato cantata dai Salmi, all’affascinante ciclo delle stagioni, alla sinergia fra mondo minerale, vegetale e animale sotto il governo laborioso e paziente dell’uomo. Credo che questa esperienza della natura serena ed amica mi abbia segnato in profondo e abbia influenzato i pensieri che avrei espresso, molti anni più tardi, nella maturità della mia riflessione credente sulla vita e sul mondo. Cito ad esempio di un tale sviluppo qualche passo dal volume Teologia della storia, pubblicato nel 1991 come settimo della mia Simbolica Ecclesiale: «Il lavoro richiede il rispetto delle cose create nella loro autonomia propria e nella loro finalizzazione generale al progetto di Dio: questa relazione, che coordina l’iniziativa operosa e trasformante della creatura umana con la dignità e il destino proprio di ciascuna realtà creata, è stata espressa nella tradizione cristiana nella sua forma forse più alta dalla spiritualità della organizzazione benedettina. Il lavoro scandisce la giornata del monaco come una componente necessaria della sua vocazione alla glorificazione di Dio, ed entra armonicamente nel ritmo del tempo qualificato dalla lode dell’Altissimo, inserendovi la natura con i suoi cicli e le sue stagioni: l’interiorità del tempo si salda così all’esteriorità dello spazio in un unico processo vitale, che è al tempo stesso gloria dell’Eterno e realizzazione del creato in comunione con la persona umana e la comunità degli uomini, non nonostante, ma attraverso le trasformazioni che il lavoro introduce nei ritmi della natura» (280s). Nella luce dell’incarnazione del Figlio il rapporto fra la persona umana e il creato appare segnato «da una relazione di rispetto profondo verso tutto ciò che esiste, di accoglienza obbediente della dignità e della ricchezza di essere di ogni creatura… caratterizzabile con la categoria, propria della tradizione spirituale, della reverentia. Essa può essere illustrata con le riflessioni della Contemplazione per ottenere l’amore, con cui si chiudono gli Esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola», con l’invito in esse contenuto a «considerare come Dio opera e lavora per me in tutte le cose create sulla faccia della terra» e ad «osservare come tutti i beni e i doni discendono dall’alto… così come dal sole scendono i raggi, dalla fonte le acque» (281s). È peraltro questo lo spirito della custodia amorosa verso il creato, espressa da San Francesco d’Assisi ad esempio nella sua Regola non bollata (1221): «Attribuiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che sono suoi e di tutti rendiamo grazie perché procedono da Lui. E lo stesso altissimo e sommo solo vero Dio riceva tutti gli onori e l’adorazione, tutta la lode e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, poiché ogni bene è suo ed Egli solo è buono» (17,17ss). Alla scuola di questa fertile terra della Valle del Liri, ho imparato da bambino quello che ho poi espresso molto più tardi da teologo, osservando come «lo stupore e la meraviglia dinanzi all’evento sempre nuovo dell’amore, che è l’evento dell’essere in ogni creatura» possano divenire «spirito di azione di grazie, povertà recettiva del dono, rispetto e delicatezza verso tutto ciò che esiste» (Teologia della storia, 282).
- Una seconda indimenticabile esperienza dei miei soggiorni in questi luoghi negli anni della mia formazione fu la conoscenza e la frequentazione del mondo monastico nell’Abbazia di Montecassino. Vorrei ricordare un solo nome per tutti, quello di dom Anselmo Lentini, studioso della Regola di San Benedetto e insigne compositore e revisore dell’innologia latina al tempo della riforma liturgica del Vaticano II: con lui intrattenni negli anni liceali una fitta corrispondenza epistolare, tanto importante per gli orientamenti e le scelte future della mia vita. A Montecassino conobbi il monachesimo, specialmente durante le splendide liturgie della Settimana Santa, che eravamo soliti frequentare in Abbazia con i miei Genitori e Fratelli. Come dice la parola stessa, «monaco» è colui che sceglie Dio come unico senso e motivo di vita e a Lui solo si consegna. Proprio perché solo con Dio e per Lui, il monaco è per vocazione destinato alla comunione, che nasce dal riconoscersi figli dell’unico Dio e fratelli davanti al mistero del Suo eterno amore. È la grande intuizione di San Benedetto, che ha trasformato l’eremita, uomo della solitudine e del deserto (in greco «éremos»), in figlio e fratello all’interno di una comunità – il «cenobio» -, fatta di consacrati chiamati a vivere ciascuno ed insieme l’esperienza di Dio. Al monaco – uomo esperto del deserto e al tempo stesso della comunione – ci si accosta con pudore e rispetto, quasi ad ascoltare la flebile voce di silenzio, con cui l’Altissimo passò sulla montagna dell’Oreb davanti al profeta Elia (cf. 1 Re 19,12). Il monaco non parla per quel che dice, ma esattamente per ciò che non dice: il suo silenzio è lode a Dio («Tibi silentium laus!»: Salmo 65 [64], 2); la sua prossimità è la sua separatezza; la sua comunione è la sua solitudine abitata dal Signore. Di Dio il monaco diventa la cifra, esattamente come la lode incessante, di cui sono impastate le sue carni e il suo cuore: eco di una lotta mai sopita e di una resa vittoriosa, perché terribile e salutare è l’esperienza dell’Eterno, davanti a cui ci si copre la faccia. Non è dunque fuga romantica, o sentimentalismo a buon mercato, quello che spinge il monaco nel cenobio, ma l’incondizionata ricerca del Volto amato, l’abbandonarsi a Lui, il dire con la vita che solo Dio basta. Il monaco è l’uomo che lotta con Dio: agonia è il suo giorno, tutto immerso nella notte della fede. Ma proprio così il monaco diventa cifra della più grande delle consolazioni: lottare con Dio è vivere. Fuggire dal Suo volto è morire. Il monaco annuncia la gioia e la pace che sorpassa ogni conoscenza: non quella che dà il mondo, ma l’altra che viene da Dio. Col solo fatto di esistere, egli attesta che passa la scena di questo mondo e che Dio sta e resta in eterno. In tal senso, il monaco è il solitario custode del mistero, che ne grida la trascendenza con la flebile voce del silenzio e trasforma il «pondus diei et aestus» in tempo di grazia, scandito dal succedersi dell’«ora et labora» nell’unicità della tensione dell’anima a Dio. Ed è proprio così che il monaco diventa anche la più radicale contestazione di questo mondo che passa, o meglio di chi voglia farne un assoluto: con la violenza dei pacifici, che è la non violenza della carità, l’uomo del deserto e del cenobio smaschera il chiasso che trionfa, il vuoto delle maschere senza verità, coperture del nulla, che con prodigalità si esibiscono sulla scena della cultura debolista di questo tempo post-moderno. La comunità monastica anticipa le cose venienti e nuove, perché accende la sete dell’oltre, del più grande e vero che non passa. E al tempo stesso, invita a anticipare l’eterno nella sola forma che lo renda presente: la carità ardente, l’amore folle di Dio e il servizio umile agli altri. Facendosi solitudine, il monaco diventa amore. A tutti indistintamente chiede di divenire ascolto di Dio nel monastero invisibile del cuore, per farsi amore per gli altri. L’incontro con questo mondo monastico – che tanto segna la terra dominata dall’altura di Montecassino – ha certamente impresso nel mio cuore di bambino e di adolescente la sete dell’incontro con l’Assoluto, di quel possibile, impossibile amore, che solo Dio può suscitare e suscita nella meravigliosa gratuità della Sua chiamata e dei Suoi doni. Questo amore è per tutti: e il monachesimo non cessa di ricordarlo a ognuno di noi, anche nella distrazione della scena del secolo che passa.
- Infine, è la ricchezza di rapporti umani e spirituali, sperimentata fra Voi e conservatasi nel tempo, che vorrei ricordare come terzo motivo di questo momento di festa e di testimonianza. Quanto stiamo vivendo non sarebbe stato possibile senza l’amicizia fedele di tanti, dalla Famiglia Evangelista in tutte le sue componenti, ai De Giorgio, al carissimo don Adamo… Quanto ho imparato dalla laboriosità, dalla dignità e dall’accoglienza sempre cara e festosa di queste persone! Il loro ricordo nel tempo mi commuove, l’affetto fedele mi tocca nel profondo, la forza della preghiera che ci unisce mi consola! «Sul ponte dell’amicizia passa Cristo», amava ripetere il Vescovo che mi ordinò sacerdote, il Card. Corrado Ursi, Pastore della Chiesa di Napoli dal 1966 al 1987, Padre di cui porto con venerazione la Croce pettorale, da lui lasciatami in dono. L’amicizia è possibilità di autentica realizzazione umana e cristiana, le cui sorgenti sono nel Dio amico dell’uomo che – creandoci capaci di amare a sua immagine e somiglianza – ha voluto anche insegnarci le vie per suscitare e vivere l’amicizia. Conoscendo le nostre fragilità e paure, non è difficile riconoscere la grande domanda che il tema dell’amicizia – come più in generale quello dell’amore – suscita in ognuno di noi: chi ci renderà capaci di amare? Il Profeta di Kahlil Gibran intuisce la risposta: «Quando ami non dire: Ho Dio nel cuore, ma piuttosto: Sono nel cuore di Dio» – «When you love, you should not say: I have God in my heart; you should rather say: I am in the heart of God». Si diventa capaci di amare quando ci si scopre amati per primi, avvolti e condotti dalla tenerezza dell’amore verso un futuro, che l’amore costruisce in noi e per noi: fare questa scoperta vuol dire credere e confessare nella verità dei gesti e del cuore la Trinità del nostro Dio. Alla scuola della Croce e della Resurrezione del Signore, la fede viene a scrutare, nelle profondità del mistero, l’eterna sorgività dell’Amore del Padre, principio senza principio, gratuità pura e assoluta, che dà inizio a tutto nell’amore e non si ferma neanche di fronte al doloroso rifiuto del peccato. Accanto all’eterno Amante, la nostra fede confessa il Figlio, l’eternamente Amato, la pura accoglienza dell’Amore, che ci insegna come divino non sia soltanto il dare, ma anche il ricevere, e con la Sua vita nella carne, “esistenza accolta” vissuta nell’obbedienza filiale, ci rende capaci di dire il nostro sì all’iniziativa della carità di Dio. Con l’Amante e con l’Amato la fede contempla, infine, la figura dello Spirito, che unisce l’uno e l’altro nel vincolo dell’Amore eterno e insieme li apre al dono di sé, al generoso esodo della creazione e della salvezza: estasi di Dio, lo Spirito viene a liberare l’amore, a renderlo sempre nuovo ed irradiante. Nel dinamismo incessante dell’eterno amore, nel reciproco darsi ed accogliersi dei Tre che sono Uno, aperti a dare l’essere e la vita alle creature amate e ad assumerle nella loro comunione eterna, il Dio cristiano si offre come l’evento irradiante dell’amore eterno: «In verità, vedi la Trinità, se vedi l’amore». «Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore» (S. Agostino). Proprio così il Dio trinitario è amicizia e si fa presente dovunque vincoli di vera amicizia si stabiliscano fra gli uomini. In questi legami possiamo riconoscere la Trinità come origine, grembo e patria dell’amore. Tutto ha origine in essa e ne porta l’impronta: l’essere è, nel più profondo, amore e l’uomo è fatto per amare. Tutto vive in essa: e quando l’esodo dell’umana esistenza si apre all’avvento divino proclamato e donato, ecco che la gratuità diventa possibile nel dono della carità del Padre; la gratitudine si schiude nella fede, che evoca l’obbedienza del Figlio; e la libertà della comunione si realizza nella speranza, impronta dello Spirito, che unisce tutti i tempi nell’eternità dell’amore e li apre alla perenne novità divina. In questa vita raggiunta e contagiata dell’amore, tutto tende alla Trinità, mèta e patria del cammino dell’uomo: tutto un giorno riposerà in essa, quando l’amore non conoscerà più tramonto e l’esodo e l’avvento si incontreranno per sempre. Amato così dal suo Dio, l’uomo può divenire capace di amare il suo prossimo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Giovanni 15,12). “Siano in noi una cosa sola» (17,21). Avvolto dall’amore eterno, accolto nella storia trinitaria dell’amore, l’uomo può costruire storie d’amore e di amicizia nei giorni della sua vita terrena. Perciò, è necessario che la fede non cessi di illuminare e confortare la fatica di amare con il racconto del giorno dell’amore: il giorno in cui, nella Croce e Resurrezione di Cristo, cielo e terra si sono incontrati, perché esodo e avvento potessero incontrarsi in sempre nuovi giorni di amicizia e di pace. E perciò il mio grazie a tutti Voi per il dono della Vostra amicizia è tributo di gratitudine a Dio e vorrebbe essere condivisione di esperienza, dono e stimolo per tutti, balsamo che incoraggia, piccola luce che illumina, pace che raggiunga gli abissi del cuore. Ce lo doni il Dio tre volte Santo, Amico degli uomini, che è venuto fra noi per chiamarci all’amicizia con sé, nel tempo e per l’eternità! Nel Suo nome Vi benedico e a Lui tutti e ciascuno Vi affido!
Mons. Bruno Forte è arcivescovo metropolita di Chieti – Vasto.
Nato a Napoli il 1° agosto 1949, ordinato presbitero il 18 aprile 1973, è stato eletto alla sede arcivescovile di Chieti – Vasto il 26 giugno 2004.
Attuali incarichi:
Presidente Conferenza episcopale abruzzese-molisana;
Membro del Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi;
Consultore della Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita Apostolica;
Membro del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani;
Membro del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione;
Consultore della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo.
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