Pellegrinaggio a Canneto.

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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 1-2
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di Giuseppe Poggi

L’arch. Giuseppe Poggi a Montecassino nel corso dei lavori di ricostruzione, con due suoi assistenti.
L’arch. Giuseppe Poggi a Montecassino nel corso dei lavori di ricostruzione, con due suoi assistenti.

Il 22 agosto ricorre la festività della Madonna di Canneto, mi annunziarono molto per tempo Iuccio e i suoi familiari:

– Vuoi venire al Santuario con noi?

Eravamo nell’estate 1946. In quei giorni mi capitava spesso di incontrare a Cassino e nelle zone vicine, ma soprattutto lungo la via Sferracavalli, numerose comitive di gente carica di fagotti, borse, valigie, ecc., portate di solito in testa, che camminavano con passo piuttosto stanco cantando a squarciagola una canzone religiosa dalle note singolarissime. Erano i Pellegrini della Madonna di Canneto. La canzone, costituita da due soli motivi, sembrava derivata da qualche canto arcaico di origine greca, tanto era bella e, cosa davvero miracolosa, non stancava mai, pur essendo una ripetizione continua.

Per me era un canto soprannaturale perché aveva la facoltà di sciogliere la vena poetica della gente e di produrre un’esaltazione religiosa che non sconfina mai nel ridicolo e nel banale, anche se è cantata da gente di tutti i ceti.

I versi, come il motivo musicale, sanno di antico: sono di poche parole semplici ma penetranti che invitano a gridare:

Evviva Maria / Nell’ermo Canneto / Un popolo lieto / Evviva gridò

Sui balzi in Canneto / Comparve Maria / Un suon d’allegria / Quel bosco mandò / Evviva Maria

Delle diciassette quartine si ripetevano solo le prime due o tre e il ritornello con una forza dai toni alti che sfondavano i timpani. Non era un canto, ma uno sfogo di tutte le angosce accumulatesi nell’anno! e una sorta di gara tra chi poteva e sapeva gridare con più veemenza! L’eco si ripeteva insistente per tutta la valle.

Pellegrinaggi e nenie di pellegrini come questi di Canneto sono descritti dal poeta Mistral in Mirella, quando parla dei pellegrinaggi provenzali al Santuario delle Sante Marie.

Il canto ti giunge da lontano a ondate. Ti sorprende all’improvviso quando le comitive passano in città. Senti il desiderio di unirti a quella gente dagli ingombranti fagotti e dai pesi in bilico sulla testa che cammina vari giorni e dorme all’aperto come nelle trasmigrazioni dei popoli arcaici. Gente che si è organizzata da sé, col suo crocifisso di legno e con il piccolo stendardo che precede la comitiva. Molti vanno scalzi. Non pochi vecchi o bambini camminano a fatica.

In gran parte si tratta di contadini che lasciano per un’intera settimana la cura dei loro campi. Ci sono anche molti uomini, anche giovani, e privi affatto di ogni riserva umana, cantano tutti a gran voce e rispondono al rosario anche se un’occhiata a qualche bella ragazza della compagnia ogni tanto ci scappa.

I gruppi più organizzati hanno anche un suonatore di fisarmonica che dà il via ai canti.

Quanta gente in quei giorni si vede passare!

Quel loro motivo caratteristico rimane a lungo negli orecchi.

Anche in questo momento mi par di sentirlo cominciare quasi incerto e disordinato, ma si collega d’un tratto, sfociando all’unisono in acuti quasi selvaggi. È un canto che produce un’impressione indimenticabile. Ti commuove. Ti riempie il cuore.

Anche se non sei credente e se ti atteggi a conoscitore di ben altra musica, non puoi, nel sentirlo, abbozzare un sorriso, perché quelle voci nel loro disordine danno ai cori improvvisati uno strano fascino, creando a volte dei momenti musicali di una bellezza incomparabile.

Il canto è ancora nel nostro orecchio che, subito dopo, altri gruppi, altra ventata di Pellegrini lo invia nell’aria.

Da tutto il pellegrinaggio è praticamente assente il clero. Non ho visto mai dei parroci accompagnare quelle comitive di solito promiscue, che dormono all’aria aperta, sui cigli delle strade. Praticamente i pellegrini si improvvisano ministri del culto e lo fanno con una spontaneità e con un tale schietto godimento spirituale che ti stupisce e ti commuove.

La gente che nei tempi moderni non può sottrarre troppo tempo alle sue occupazioni, compie il pellegrinaggio alla Madonna di Canneto in automobile o autocarro fino al paese di Picinisco per proseguire poi a piedi fino a Canneto.

È tradizione nel viaggio di ritorno di passare dall’altro versante della montagna, scendendo giù dalla parte del Comune di Settefrati, al cui territorio appartiene anche la valle di Canneto.

In questo paese si trova un’altra statua della Madonna che viene portata in processione fino al santuario all’inizio dei festeggiamenti, poi torna in forma solenne nella chiesa parrocchiale a tarda sera.

Io in quel tempo ero ancora un poco febbricitante per una ricaduta malarica e anche disturbato da dolori intestinali. Ma come resistere alla tentazione di andare?

Quei canti mi avevano impressionato per non averne mai sentiti di simili. Quelle folle che da tutti i paesi anche lontanissimi trasmigravano abbandonando le loro case e i loro affari e, a poco a poco, incuranti dello strapazzo, si avvicinavano alla meta, mi parlavano un linguaggio tanto imperioso e attraente che infine accettai di far parte della minuscola comitiva organizzata dal bravo Iuccio.

Veramente il mio desiderio sarebbe stato quello di aggregarmi ad uno dei gruppi di autentici pellegrini, contadini e contadine a piedi, cantando secondo gli usi antichi. Avrei voluto cantare a squarciagola con loro senza alcun ritegno umano, sedermi con loro sui cigli della strada per riposare e rifocillarmi e soprattutto avrei voluto dormire all’aria aperta con loro, con la speranza che l’odore della terra avrebbe temperato certi effluvi.

Naturalmente questa era “poesia”, tanto per le mie condizioni di salute che per il tempo che avrei dovuto sottrarre all’Ufficio e alle mie occupazioni. E la prosa consistette in una macchina che Iuccio aveva noleggiato per noi e che doveva essere riempita almeno come un barile di sardine se si voleva contenere la spesa entro limiti convenienti.

Con mia grande meraviglia, in quella macchina che era fatta per sei persone, vidi entrare, me compreso, e oltre l’autista, Iuccio, Elide, Giovanni, lo zio Peppino col figlio Tonino, l’ottimo fabbro Mattia insieme col fratello Antonio che faceva il meccanico, inoltre Lauretta, Mario e la piccola Annamaria.

La macchina finalmente si mosse, poco prima delle quattro pomeridiane. Raggiunse prima il bivio di Atina, sulla strada per Cassino, poi, toccata la frazione Olivella e il paese di Belmonte, raggiunse Atina, e, scesa al bivio di Villa Latina, raggiunse il fiume Melfa, lo traversò a guado perché il ponte ancora non era stato ricostruito e finalmente arrivò a Picinisco.

Mi avevano dato il posto d’onore, ma per quanto lo fosse, sentivo la spalla di qualcuno conficcarmisi nel torace e le mie gambe facevano parte di un groviglio di altre gambe non bene identificato. Tentai più volte, ciò nonostante, ad invitare gli altri a cantare la canzone alla Madonna, per creare un po’ di atmosfera di pellegrinaggio, ma non trovai il terreno adatto. Non dovevo dimenticare che anch’io, sebbene al posto d’onore non avevo molto spazio per tirare fiato allargando il torace durante gli acuti. Qualche canto ne venne fuori, ma non come io avevo desiderato. Ecco il guaio dei pellegrinaggi moderni!

La cosa mi dispiacque quasi fossi io stesso responsabile del lento disperdersi, tra gente ormai troppo evoluta, di una tradizione commovente.

Lungo la strada mi venivano indicati i posti dove erano passati certi conoscenti della famiglia di Iuccio, insieme con altri Santeliani, durante la guerra e dove era successo questo o quel fattaccio. La strada in vari punti era stata deviata, in altri passava su certi rilevati di fortuna e ancora non c’era la possibilità di ripristinare la sede primitiva, perché mancavano i ponti, molto costosi e difficili da costruire, dato lo sconquasso del terreno.

Quando arrivammo a Picinisco, erano già le cinque di sera. Il paese era gremito di gente. C’era la banda musicale della città di Atessa, di cui naturalmente Iuccio conosceva il maestro. Non si gustava troppo per il vociare della folla e fuori del raggio di quindici metri era completamente soffocata.

La strada da cui eravamo giunti era allo sbocco del paese, fiancheggiata a destra da varie case in gran parte riparate e a sinistra da una specie di strapiombo sulla vallata, con uno splendido panorama. Sboccando nella piazza dove era il palco: si vedevano di fronte delle case sormontate a distanza da un roccione con relativa fortezza; a destra c’era una grande porta monumentale per la quale ci si addentrava nel paese vero e proprio, mentre a sinistra, dove, di fronte a una chiesa, si innalzava il palco della banda musicale; per una strada in salita, meno antica, ci si incamminava nella direzione della Madonna di Canneto.

Sotto il palazzo comunale, verso un’osteria affollatissima, corsero immediatamente i miei occhi.

Quando, per ragioni di lavoro, arrivo nei paesi del Cassinate, vado a cercare il vino, non perché sia uno sbevazzatore, ma perché amo assicurarmi delle qualità organolettiche del vinello di produzione locale.

Immediatamente il bravo capo comitiva che aveva intuito il mio desiderio ci fece cenare in quella specie di osteria che era vicinissima al palco.

La notte la passammo presso una famiglia amica, la cui casa era, però, piena di gente, tanto che dovemmo contentarci di dormire sul pavimento, su coperte che ci vennero gentilmente prestate.

La mattina dopo, alle cinque, eravamo già in cammino tra boschi di faggi e di castagni insieme con altri pellegrini, cantando di tanto in tanto a squarciagola.

La strada era abbastanza faticosa, specialmente per me, ex alpinista che la malaria aveva lasciato pieno di acciacchi. Incontravamo ogni tanto gente con muli e dovevamo tirarci da parte per lasciarli passare, perché in qualche punto la strada era un semplice sentiero su un versante scosceso, in altri, magari, la mulattiera si divideva in due percorsi di cui uno poteva sembrare la scorciatoia dell’altro.

Salvo il canto caratteristico dei pellegrini, che anche nelle pause rimaneva come un eco nell’aria, non c’era del resto in quella gita niente altro di considerevole, che la rendesse diversa dalle solite escursioni in montagna.

Quando, finalmente, arrivati alla meta guardammo dall’alto della grande valle di Canneto, i miei occhi non potevano credere a uno spettacolo simile.

Sembrava di essere nella valle di Josafatte o in qualche paese incantato dipinto su tela del Settecento. Stavamo per scendere in una grande pianura in parte erbosa, in parte formata da piccoli ciottoli e sabbia come l’alveo di un torrente, intersecata dalle acque limpidissime di un fiume.

Tutto intorno c’erano delle montagne dalla vegetazione lussureggiante. Attraverso certi faggi secolari che formavano un primo piano, si vedeva tutta la valle popolata da un via vai di gente animatissimo. C’erano comitive che arrivavano o ripartivano, altre che stanche riposavano, sdraiate sul prato, altre infine che sulle sponde del piccolo corso d’acqua bevevano alla sorgente.

Parecchi avevano passato la notte entro capanne di frasche accendendo grandi fuochi, che ardevano ancora.

Tutta questa animazione e anche il vociare confuso che si levava dalla folla non riuscivano a togliere ai monti il loro aspetto severo.

Un fiume, una radura, degli alberi anche se enormi e secolari, non erano certo cose soprannaturali. Eppure pareva che su tutto quanto si vedeva gravasse un tale senso di Sacro, che mai in nessun altro luogo di pellegrinaggio mi aveva fatto un’impressione simile.

Il santuario era su una piccola cresta che emergeva nella valle. Appena arrivate le comitive di pellegrini, con il portatore di crocifisso o di stendardo in testa, recitando interminabili preghiere, facevano per tre volte il giro attorno alla chiesetta, prima di entrare finalmente. Era un percorso anche malagevole e in certi punti si passava appena, tra due file di bancarelle che lo ingombravano per vendita di giocattoli e ricordi.

Neppure era facile entrare, data l’enorme folla e dovendo poi i pellegrini entrati in chiesa confessarsi e comunicarsi, dovevano fare lunghe attese, presso i confessionali le donne e nella sacrestia gli uomini, dove cinque o sei preti salesiani attendevano al sacramento in mezzo alla stanza, servendosi di una semplice sedia. Spesso i poveri penitenti inginocchiati sul pavimento udivano qualche peccato pronunciato troppo ad alta voce dal penitente vicino. Rimase memorabile la frase, uscita proprio dal cuore di uno di essi, che, richiesto dal confessore se avesse mai rubato, rispose che avevano rubato invece a lui non so che cosa di cui non si dava pace, ma non aveva degli indizi. A quei tempi si faceva infatti un gran parlare di furti compiuti dopo la guerra dai primi rientrati in paese, che non disdegnarono neppure le sedie della chiesa di Santa Maria Maggiore [in Sant’Elia Fiumerapido], tanto che don Gennaro [Jucci] aveva dovuto ripetutamente, ma senza esito, inserire nelle sue prediche un’intimazione ai ladri.

Nel santuario, assai modesto dal lato architettonico, ma egualmente interessante, era venerata una statua di Maria Vergine scolpita in legno nel 1300, vestita in epoche successive, chiamata la Madonna Nera, dal volto scuro ma bellissimo.

Dentro la chiesa c’era gran confusione, ma, a poco a poco, ogni cosa si vedeva andare a posto e tutti si facevano tranquillamente le loro devozioni.

Dopo aver lasciato un’elemosina per una messa, acquistando anche coroncine e immaginette, ce ne uscimmo, com’è consuetudine dei pellegrini, camminando all’indietro per non volgere le spalle alla Madonna. Appena usciti di chiesa passammo in rivista le bancarelle, essendo consuetudine acquistare dei giocattoli per i bambini. Comprammo anche un quadruccio dei santi Cosma e Damiano, uno medico e l’altro speziale, dei quali nonna Caterina era tanto devota.

Finalmente raggiungemmo la vallata e, scavalcato il fiume su un rudimentale ponticello, risalimmo fino alle impetuose sorgenti.

Nelle acque cristalline e freschissime delle pagliuzze d’oro quasi impercettibili (non so se fossero pepite o semplici fili di mica) venivano pescate per divertimento dai bambini.

Finalmente ci disponemmo a pranzare. I nostri fagotti dal mostruoso volume sostennero impavidi l’assalto. Pollo arrosto, polpette, salame, uova, ecc.

Nelle fotografie di quella gita che conservo ancora si vede l’intera comitiva accoccolata su un gran masso erratico al quale era abbarbicata una pianta. Si vede inoltre la stessa comitiva sdraiata sul prato nel simpatico atto di bere e mangiare e finalmente la compagnia che riparte, dopo aver salutato la Madonna.

Me ne andai con una specie di rimpianto per un piccolo desiderio insoddisfatto. Mi avevano spiegato che, con un rito abbastanza semplice ma misterioso, due persone prese con il mignolo delle destre, recitando tre Ave e tre Pater e gettando un determinato numero di sassolini nell’acqua presso le sponde di quel piccolo fiume stringevano un patto di comparaggio di Canneto.

Chissà perché mi era venuto il desiderio di fare di Tracia la mia comarella, ma mi trattenni perché la cosa aveva un lato alquanto ridicolo, data la nostra diversità di età.

Al ritorno passammo dal versante di Settefrati. Giunti dopo il primo tratto in salita a un belvedere dove si vedevano i resti della statua di San Giovanni Bosco, distrutta dai bombardamenti, ci fu chi si incaricò di spiegarmi la dislocazione delle truppe durante la battaglia per Cassino. Il panorama era bellissimo. Sostammo un poco a riposare, prima di proseguire per la ripida discesa.

A Settefrati c’era gran festa, con musica in piazza, bancarelle, luminarie, ecc. Anche questo paese era pieno di gente. Sdraiati per terra, moltissimi pellegrini, fuori e dentro la chiesa aspettavano la processione dopo aver dormito sul pavimento della chiesa stessa.

Una grande vasca nel mezzo della piazza serviva alle coppie che non avevano potuto approfittare delle sorgenti del Santuario per il rito che li avrebbe resi compare e comare, che era possibile anche in Settefrati perché l’acqua era la stessa di Canneto.

Comprammo del melone nelle bancarelle e ci cacciammo nell’osteria più vicina alla piazza, che era un punto strategico. Di lì vedemmo arrivare la processione con la Madonna che ritornava dai monti, mentre aveva inizio uno spettacolo pirotecnico meraviglioso.

Dalla finestra di una casa vicina si affacciò un sacerdote per il discorso di saluto alla Madonna. Si fermò un momento a guardare l’enorme folla di popolo straripante da ogni parte, coi pellegrini, quelli veri che facevano tutta la strada a piedi, sdraiati per terra, mentre le donne si ricomponevano le vesti e tutti tentavano di dare contegno ai loro corpi stanchissimi. Non ricordo le parole; la predica fu molto breve e molto semplice, senza frasi eccessivamente retoriche, davvero commovente.

Un urlo della folla ripeté più volte le invocazioni alla Madonna suggerite dal predicatore. L’entusiasmo di quella gente era, a pensarci bene, sullo stesso piano lirico di quella più evoluta. Per me fu il momento più bello di tutta la gita.

Erano le una di notte quando, ritrovata a stento la nostra macchina, ci rimettemmo in viaggio per Sant’Elia, arrivando stanchi morti, ma soddisfatti.

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* Tratto da Il mio lavoro a Cassino, 1954 (inedito).

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