Visione di Alberico

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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 1-2
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di Luigi Tosti*

Si propone, come contributo alle celebrazioni per i 700 anni dalla scomparsa del sommo poeta fiorentino, un passo del grande storico cassinese don Luigi Tosti sulla vexata quaestio del rapporto tra la Visione di Alberico da Settefrati e la Divina Commedia di Dante Alighieri

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Fu già un tempo, che uomini non volgari, come il dottissimo canonico Mazzocchi, monsignor Bottari, Cancellieri1, e il padre abate Giustino di Costanzo cassinese, portarono opinione, che questa visione2 di Alberico3 fosse state scintilla nella mente dello Alighieri, che gli ebbe acceso tanto fuoco di fantasia, che, levato all’ordine delle umane cose, ad altro soprannaturale trascendesse, e con intelletto strapotente levasse macchina di epopea, che non fosse omerica né virgiliana. Trovano simigliare in molte parti i canti del Ghibellino con la visione del monaco, come nell’andata ne’ tre regni delle anime trapassate; nella guida che ebbero entrambi di Virgilio e di san Pietro; in quel rassegnare le varie specie di dannati; nella natura de’ tormenti, ed anche in molti paragoni. Piacemi rapportare qualche confronto di alcuni passi della visione e della divina Commedia.

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Dopo tutte quete cose venni menato ai
luoghi tartarei, e proprio alla bocca del
baratro infernale, che pareva simile ad un
pozzo: essi luoghi poi orridi per tenebre
risuonavano forte di stridori e di guai:
presso al quale inferno era legato di
grossissima catena un verme stragrande
Visione cap. 7

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Allora, standomi a vedere tali cose, il
beato Pietro apostolo dissemi: fa di
aspettarmi qui intanto che io vada ad
aprire a quel servo di Dio. E, rimasto
solo con gli angeli pien di paura, uno di
quei tartarei ministri orridi e selvatichi,
levato della persona, ratto mi fu sopra
spingendomi, come per farmi alcun
male; quando eccoti più presto accorrere
l’apostolo e di subito prendermi, mi
menò in un certo luogo di gloriosa
visione
Visione cap. 15

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Vidi un gran fiume invece di pece che
metteva capo nell’Inferno sormontato di
un ponte: nel mezzo del quale, all’arrivar
che facevan i peccatori, precipitavano nel
fiume, e or galleggiando, ora affondando,
tanto vi sono martoriati, fino a che, lessi
come carni, loro viene fatta licenza di
passare il ponte
Visione cap. 11

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Come noi fummo giù nel pozzo scuro

Quivi sospiri, pianti, ed alti guai
Risonavan per l’aere senza stelle,
Perch’io al cominciar ne lacrimai.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo
Inferno, c. XXXII, v. 16
Inferno, c. III, vv. 22-25
Inferno, c. VI, v. 24

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Ei chinavan li raffi e vuoi che il tocchi,
Dicevan l’un con l’altro, in sul groppone?
E rispondea: sì, fa che gliel’accocchi.
Già non compio di tal consiglio rendere
Ch’io gli vidi venir coll’ale tese
Non molto lungi per volerne prendere.
Lo Duca mio di subito mi prese,
Come la madre
Inferno, c. XXI, vv. 100-103
Inferno, c. XXIII, vv. 34-38

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Quale nell’Arsenà de’ Veneziani
Bolle l’inverno la tenace pece
Inferno, c. XXI, vv. 7-8

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Tal, non per foco ma per divina arte,
Bollia laggiuso una pegola spessa
Inferno, c. XXI, vv. 16-17

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E vidi dietro a noi un Diavol nero
Inferno, c. XXI, v. 29

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L’omero suo ch’era aguto e superbo,
Carcava un peccator con ambo l’anche,
Ed ei tenea de’ piè ghermito ‘l nerbo.
Del nostro ponte disse, o Malebranche,
Ecco un degli anzian di Santa Zita
Mettetel sotto
Inferno, c. XXI, v. 34-39
Là giù il buttò

Quel s’attuffò, e tornò su convolto
Inferno, c. XXI, vv. 43, 46
Non altrimenti i cuochi a’ lor vassalli
Fanno attuffare in mezzo alla caldaja
La carne congli uncin, perché non galli.
Inferno, c. XXI, vv. 55-57

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Questi ed altri confronti fatti dal Bottari e dal di Costanzo di alcuni passi della visione con altri della Divina Commedia. Al conte Giulio Perticari non talentò punto questa opinione, cioè, Dante avere imitato Alberico, e dice: questo non esser venuto ladro nell’archivio di Montecassino a rubare la scrittura di quel monaco. Questo è dir troppo: né tale fu il pensiero di que’ valentuomini, i quali non hanno mai accagionato di plagio il divino poeta, ma solo si avvisarono che alla mente di questo soccorressero spontanee quelle fantasie del monaco. La qual cosa potette facilmente avvenire, sendo quella visione moltissimo pubblica, ed accolta avidamente dal popolo. Che, se di questa non giunse fama in Toscana4, sebbene l’Alighieri, quando ben due volte andando ambasciadore in corte di Napoli deputato dalla signoria di Firenze5, vide questi luoghi, se anche non vogliamo pensare che Dante traesse a visitare Montecassino, che in que’ tempi levava non poca fama di sé, di cui canta nel Paradiso: Quel Monte a cui Cassino … e gli fosse mostrata la scrittura di Alberico, come cosa che teneva gli animi compresi di alta meraviglia. Noi non abbiamo fatto altro che portare le altrui opinioni; pensi a suo verso chi mi legge.

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* L. Tosti, Storia della Badia di Montecassino, Vol. II, Documenti e note VIII, L. Pasqualucci Editore, Roma 1889, pp. 229-237. Si riporta solo la seconda parte del brano tralasciando la prima che consiste in una «epistola» dello stesso Alberico in cui elenca i titoli dei 49 capitoli di cui si compone la sua Visione perché essa era stata «corrotta da molti», con un «cotale» che addirittura «tolse, aggiunse, trasformò come meglio gli andava a sangue» il racconto. Per una migliore fruizione si è ritenuto di porre l’uno accanto all’altro i passi della Visione e della Divina Commedia confrontati da Tosti.

1 Il sac. Francesco Cancellieri fu colui che pubblicò per la prima volta, a Roma nel 1814 (con il titolo di Osservazioni … sopra l’originalità della Divina Commedia), la Visione di Alberico dopo averla reperita in un manoscritto depositato nella Biblioteca Alessandrina che emendò, per confronto, con il Codice del duecento dell’Archivio Cassinese (Codice Cassinese 257). Nonostante la Visione sia stata pubblicata a distanza di settecento anni dalla sua redazione, era molto nota fin dal sec. XII e «non vi era alcun che la ignorasse». Infatti fin dall’inizio la mistica Visione aveva prodotto «tale rumore» che l’abate Senioretto (1127-1137) la fece trascrivere da frate Guidone il quale, però, finì per alterare lo scritto aggiungendo «del proprio al racconto genuino di Alberico». Quest’ultimo allora, nel 1127, nel breve spazio di tre giorni, riscrisse la Visione in cinquanta capitoli «di buona prosa latina» in gotico-campano, preceduti dall’«epistola» nella quale lamentava che in Italia girassero «libercoli contenenti il racconto della sua visione, non conforme all’originale» (A. Lauri, Due benedettini di Montecassino. Alberico il Visionario e Alberico il Cardinale, in «Rivista Storica Benedettina», a. VI, fasc. XXII, aprile-giugno 1911, pp. 3-14).

2 All’età di dieci anni il giovane Alberico si ammalò gravemente e restò privo di conoscenza, «sopito in un profondo sonno per nove giorni ed altrettante notti». In quell’arco di tempo, come narrò Alberico stesso sulla sua Visione, fu preso per i capelli da una colomba, e portato in cielo, dove san Pietro gli promise di fargli vedere i regni eterni. Scortato da due angeli, fu condotto nell’Inferno, dove vide i peccatori puniti con una sorta di contrappasso (gli «incestuosi stupratori», ad esempio, erano «erranti sopra una ghiacciaia, quasi a raffreddare i loro soverchi ardori»). Visitò il Purgatorio, e ne descrive le pene; poi passò ad ammirare i sette cieli, dove trovò nella gloria molti monaci, in luce splendissima san Benedetto, fondatore del suo Ordine, e qui fa l’apologia del monachesimo. San Pietro in ultimo gli raccomandò di ricordarsi di ciò che aveva visto, per riferirlo quando fosse tornato nel mondo terreno».

3 Alberico era nato nel 1101 a Settefrati, paese che fu benedettino nei secoli X, XI, XII. L’area entrò poi nel Ducato di Alvito, così come il santuario di Canneto (inizialmente una edicola dedicata alla dea Mefiti) fu benedettino fino al 1600 quando le sue rendite passarono al Seminario di Sora. Nel 1111 la regione venne funestata da una grave carestia e poi nel 1119 da un forte terremoto. Il giovane Alberico vestì l’abito monastico sotto l’abate Gerardo (1111-1123) e fu ordinato sacerdote nel 1124. Secondo alcune ricostruzioni, anche se mancano prove certe, Alberico sarebbe divenuto preposito del monastero di Santa Maria dell’Albaneta e avrebbe scritto scrisse una Cronologia (1000-1154). Nella lapide apposta sul Municipio di Settefrati e dedicata ad Alberico il cardinale e ad Alberico il visionario, il prof. Petronio dell’Università di Napoli scriveva che i due avevano fatta «superba ed invidiata» la borgata della valle cominese e si ricorda Alberico il visionario come colui che aveva offerto «all’esule poeta l’idea del divino poema». Un’altra epigrafe, dettata da V. Imbriani, che avrebbe dovuto essere apposta sul Comune di Settefrati nel 1885 non è mai stata incisa, così recitava: «Alberico da Settefrati / Nato nel MCI / Ebbe fanciullo mirabile visione / Che poscia descritta da lui / Monaco cassinese / Per obbedienza all’abate Senioretto / Assistendolo Pietro Diacono / Ha potuti ritenersi da molti / Modelli della Commedia di Dante» (A. Lauri, Due benedettini di Montecassino … cit.).

4 A Firenze all’epoca di Dante vi era un convento di benedettini e verosimilmente un «libretto che aveva sollevato tanto credito a Montecassino» poté essere inviato anche ad altri chiostri dell’ordine oltre a essere citato nei «sermoni dei predicatori benedettini».

5 Dante fu ambasciatore della Signoria di Firenze alla Corte di Napoli in due occasioni, nel 1290 e nel 1297, e una terza al Giubileo del 1300 a Roma.

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