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Studi Cassinati, anno 2012, n. 4
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di Franco Di Giorgio
Agli inizi del secolo scorso anche Pignataro Interamna – all’epoca parte integrante della provincia di Terra di Lavoro – ebbe la sua «Cassa di prestanza agraria». Lo si rileva da una lettera del 27 febbraio 1911 inviata da parte del primo presidente di tale sodalizio al prefetto di Caserta. Questo il testo della missiva: «Sono lieto partecipare alla S. V. Illustrissima che in questo Comune, in adempimento alla legge sul Mezzogiorno è stata istituita dalla maggioranza del Paese la Cassa di prestanze agrarie sotto il titolo «Principe di Piemonte», con Statuto a norma della legge 7 luglio 1901, n° 334. Questa società venne inaugurata con intervento di circa 100 soci, unitamente ai quali mi pregio inviarle devoti e rispettosi ossequi e saluti. Con osservanza. Firmato il Presidente». Il prefetto con sua del 6 marzo 1911, risponde alla lettera ringraziando e augurando «alla novella Istituzione da Lei presieduta vita attiva e feconda di utilità e di progresso»1.
Ma in che cosa consistevano le «Casse di prestanze agrarie»?
Questi strumenti, a forte impronta caritativa, si diffusero nella seconda metà dell’Ottocento a seguito delle trasformazioni che subirono i cosiddetti «monti frumentari» e i «monti pecuniari». I primi attenevano al prestito delle sementi necessarie per la semina ai contadini bisognosi che poi, al momento del raccolto, provvedevano a restituirle maggiorate degli interessi. L’usanza era di misurare le sementi al momento del prestito «a raso», rasando cioè con apposito strumento, la misura, mentre invece, al momento della restituzione, la misurazione avveniva «a colmo», riempiendo cioè il recipiente/misura oltre i bordi. L’eccedenza doveva rappresentare in linea di massima il tasso medio del 6% dovuto per il prestito ricevuto. I secondi – «monti pecuniari» – operavano con il ricavato della vendita dei prodotti residui dei «monti frumentari», concedendo ai contadini piccoli prestiti per far fronte alle spese di raccolto ad un tasso di interesse che solitamente si aggirava anch’esso intorno al 6%. A volte a questi due strumenti se ne aggiungeva un terzo, i «monti di maritaggio», istituiti in seguito a disposizioni testamentarie di benefattori per fornire doti di «maritaggio» a ragazze povere ma oneste e rispettabili.
Con questi strumenti le «Casse di prestanze agrarie» condividevano una impronta ideologica: la lotta all’usura. Ma se l’ambito agrario le assimilava ai «monti frumentari», la concessione di prestiti consistenti in strumenti agricoli o in moneta le accumulava ai «monti pecuniari». La concessione dei prestiti, generalmente commisurati all’8% o al 6%, veniva fatta in tutto l’arco dell’anno con scadenza semestrale e assicurando il diritto di rinnovare le obbligazioni purché fosse pagato almeno il decimo dell’importo prestato.
Nello Stato preunitario del Regno di Napoli erano presenti numerosi istituti di beneficenza che, attraverso le «Opere Pie», sopperivano alla assoluta mancanza dell’assistenza pubblica per i ceti più poveri e disagiati. Le «Opere Pie» si dispiegarono attraverso la proliferazione delle Confraternite per le quali ognuna di esse aveva un proprio Statuto e una propria organizzazione. L’eccessiva proliferazione delle Confraternite e la forte ingerenza del Clero sulle istituzioni laicali che si occupavano di beneficenza, portarono ad una accelerazione legislativa di regolamentazione della materia fino ad arrivare al R.D. del 13 settembre 1808 e subito dopo al R.D. del 16 ottobre 1809 di Gioacchino Napoleone. Con questi provvedimenti fu deciso che tutte le competenze in materia di vigilanza sugli istituti di beneficenza passavano al ministero dell’Interno, e che si provvedeva alla istituzione di un Consiglio generale di amministrazione in ogni capoluogo di provincia con il compito di sovraintendere a tutti gli stabilimenti di beneficenza locali. Tale Consiglio era coadiuvato da Commissioni locali formate dal sindaco e da comuni cittadini. Tali Commissioni avevano competenza anche sui «monti frumentari» e sui «monti pecuniari» sui quali esercitavano una notevole influenza la Congregazione di carità.
Le «Casse di prestanze agrarie», nate per riunificare le competenze dei «monti frumentari» e dei «monti pecuniari» anche per limitare le ingerenze delle «Opere Pie» attraverso norme statutarie che prevedevano, oltre alla presenza della Congregazione della carità anche rappresentanze comunali attraverso il sindaco o suoi delegati, vennero definitivamente sottratte alla disciplina legislativa degli istituti di assistenza e beneficenza con il T.U. del 9 aprile 1922 n° 932. Successivamente con il R.D. del 4 maggio 1924 n° 814 si stabilì la trasformazione degli antichi «Istituti di prestito agrario» (o «monti frumentari» e «pecuniari» che fossero) in «Casse comunali di credito agrario». Con successivo provvedimento le nuove «Casse comunali» furono sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia, pur perdurando in alcuni casi l’amministrazione da parte della locale «Congregazione di carità». Molte «Casse comunali di credito agrario» furono in seguito assorbite dalle sezioni di Credito agrario degli Istituti di credito di diritto pubblico.
Nel dibattito politico che si sviluppò all’indomani dell’Unità d’Italia per il superamento dei «monti» e la nascita delle «Casse di prestanze», intervenne con grande autorevolezza anche Giustino Fortunato in un appassionato intervento alla Camera dei Deputati il 15 giugno del 1880. Il grande meridionalista riprende con convinzione anche le valutazioni esposte sul tema dalla «Rassegna settimanale» del 21 marzo 1880 sui «monti frumentari» nelle province napoletane. Da questo lungo articolo estraiamo la parte relativa alla provincia di Terra di Lavoro: La statistica del Ministero di agricoltura nel 1863, scrive il Theo, consigliere provinciale di Caserta, “segnava per Terra di Lavoro n° 21 Monti con 9974 ettolitri di grano, pari a lire 199.481,60; nella statistica del Consiglio provinciale del 1873 i Monti si riducono a sette con 2477 ettolitri, pari a lire 49.543,40 e troviamo notate in surrogazione sei casse di prestanza con un capitale di lire 22.951,65; sicché in un decennio è sparito, non si sa come, un capitale di credito agrario di lire 126.985,55.
Insomma, nel maggior numero dei casi, nei quali fu chiesto dai Consigli comunali, che in forza delle antiche leggi non abrogate sarebbero tenuti a renderne conto, la trasformazione dei Monti su la base del “capitale esistente”, il Governo è intervenuto, ignaro e non curante dei diritti delle classi senza voto e senza rappresentanza, a sancire l’avvenuta liquidazione. È questo il significato pratico dei decreti di trasformazione dei Monti frumentari nelle province napoletane. Il Prefetto della provincia Terra d’Otranto rilevando anch’egli i tanti abusi commessi rileva “volendo personalmente rintracciare la sorgente delle declamazioni contro i Monti frumentari, visitai i Comuni, convocai i rappresentanti di tutte le classi, e dappertutto riportai le medesime impressioni: i poveri invocavano i Monti e reclamavano contro gli abusi, che li defraudavano specialmente dopo l’emancipazione della tutela governativa; gli schiamazzatori e gli usurai ne chiedevano la soppressione come vecchie anticaglie; quelli, poi, che avrebbero dovuto render conto dei capitali sfumati, ne esecravano fin anche la memoria. E questi appunto erano sostenuti dai Consigli comunali, chiamati responsabili solidalmente dalle leggi. Ecco la vera origine della condanna dei Monti frumentari”.
L’articolo conclude con una esortazione: Comunque sia della utilità di queste istituzioni, quel che importa, per ora, è che il potere esecutivo si metta in guardia, una buona volta, contro la tanto vantata loro trasformazione; che si arresti un po’ su la via seguita finoggi, quella di servir da cieco strumento a un atto illegale e ingiusto; che indaghi lo stato di vent’anni addietro, e faccia dalle autorità prefettizie rivendicare efficacemente, senza paure e senza riguardi, i loro diritti manomessi. Importa che il Governo italiano non si mostri, in questo, da meno del Governo borbonico.
Con queste complesse e problematiche situazioni in cui il superamento dei «monti» non sempre corrispondeva a un avanzamento delle condizioni di vita delle classi contadine più povere, arriviamo ai primi del Novecento in cui, anche Pignataro Interamna si dotò di una «Cassa di prestanza». Ma anche in questo comune non sembra che le cose andarono fino in fondo per il verso giusto. Lo si rileva dalla stampa del tempo, di cui lo studioso Emilio Pistilli ha recuperato alcuni passaggi in un suo articolo su un precedente numero di questa rivista.
«La Provincia», settimanale che agli inizi del secolo scorso veniva stampata e pubblicata a Cassino, in un suo servizio su Pignataro Interamna, bolla l’Amministrazione comunale (1911- 1912) con questa definizione: «la trista fogna nella quale si annidavano, tra pochi galantuomini e molti cretini, i più pericolosi farabutti del Comune». Il deputato atinate del collegio di Cassino, Achille Visocchi, fu costretto più volte a recarsi a Pignataro Interamna per normalizzare gli animi attorno ai problemi agrari e questo probabilmente aveva anche un’altra motivazione: il deputato aveva anch’egli interessi diretti nel settore agrario in quanto possedeva aziende agricole in quel di Atina.
La «Cassa di prestanze agrarie “Principe di Piemonte”» di Pignataro Interamna malgrado l’adesione numerosa dei soci, non ebbe vita facile e tra liti e contrasti si avviò ben presto verso la fine anche grazie alle ulteriori leggi che ne decretavano l’ulteriore trasformazione nella direzione delle Sezioni di credito agrario dei grandi istituti di credito. Nelle province della Campania l’approdo finale fu il Credito agrario del Banco di Napoli.
Ma in che cosa consistevano le «Casse di prestanze agrarie»?
Questi strumenti, a forte impronta caritativa, si diffusero nella seconda metà dell’Ottocento a seguito delle trasformazioni che subirono i cosiddetti «monti frumentari» e i «monti pecuniari». I primi attenevano al prestito delle sementi necessarie per la semina ai contadini bisognosi che poi, al momento del raccolto, provvedevano a restituirle maggiorate degli interessi. L’usanza era di misurare le sementi al momento del prestito «a raso», rasando cioè con apposito strumento, la misura, mentre invece, al momento della restituzione, la misurazione avveniva «a colmo», riempiendo cioè il recipiente/misura oltre i bordi. L’eccedenza doveva rappresentare in linea di massima il tasso medio del 6% dovuto per il prestito ricevuto. I secondi – «monti pecuniari» – operavano con il ricavato della vendita dei prodotti residui dei «monti frumentari», concedendo ai contadini piccoli prestiti per far fronte alle spese di raccolto ad un tasso di interesse che solitamente si aggirava anch’esso intorno al 6%. A volte a questi due strumenti se ne aggiungeva un terzo, i «monti di maritaggio», istituiti in seguito a disposizioni testamentarie di benefattori per fornire doti di «maritaggio» a ragazze povere ma oneste e rispettabili.
Con questi strumenti le «Casse di prestanze agrarie» condividevano una impronta ideologica: la lotta all’usura. Ma se l’ambito agrario le assimilava ai «monti frumentari», la concessione di prestiti consistenti in strumenti agricoli o in moneta le accumulava ai «monti pecuniari». La concessione dei prestiti, generalmente commisurati all’8% o al 6%, veniva fatta in tutto l’arco dell’anno con scadenza semestrale e assicurando il diritto di rinnovare le obbligazioni purché fosse pagato almeno il decimo dell’importo prestato.
Nello Stato preunitario del Regno di Napoli erano presenti numerosi istituti di beneficenza che, attraverso le «Opere Pie», sopperivano alla assoluta mancanza dell’assistenza pubblica per i ceti più poveri e disagiati. Le «Opere Pie» si dispiegarono attraverso la proliferazione delle Confraternite per le quali ognuna di esse aveva un proprio Statuto e una propria organizzazione. L’eccessiva proliferazione delle Confraternite e la forte ingerenza del Clero sulle istituzioni laicali che si occupavano di beneficenza, portarono ad una accelerazione legislativa di regolamentazione della materia fino ad arrivare al R.D. del 13 settembre 1808 e subito dopo al R.D. del 16 ottobre 1809 di Gioacchino Napoleone. Con questi provvedimenti fu deciso che tutte le competenze in materia di vigilanza sugli istituti di beneficenza passavano al ministero dell’Interno, e che si provvedeva alla istituzione di un Consiglio generale di amministrazione in ogni capoluogo di provincia con il compito di sovraintendere a tutti gli stabilimenti di beneficenza locali. Tale Consiglio era coadiuvato da Commissioni locali formate dal sindaco e da comuni cittadini. Tali Commissioni avevano competenza anche sui «monti frumentari» e sui «monti pecuniari» sui quali esercitavano una notevole influenza la Congregazione di carità.
Le «Casse di prestanze agrarie», nate per riunificare le competenze dei «monti frumentari» e dei «monti pecuniari» anche per limitare le ingerenze delle «Opere Pie» attraverso norme statutarie che prevedevano, oltre alla presenza della Congregazione della carità anche rappresentanze comunali attraverso il sindaco o suoi delegati, vennero definitivamente sottratte alla disciplina legislativa degli istituti di assistenza e beneficenza con il T.U. del 9 aprile 1922 n° 932. Successivamente con il R.D. del 4 maggio 1924 n° 814 si stabilì la trasformazione degli antichi «Istituti di prestito agrario» (o «monti frumentari» e «pecuniari» che fossero) in «Casse comunali di credito agrario». Con successivo provvedimento le nuove «Casse comunali» furono sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia, pur perdurando in alcuni casi l’amministrazione da parte della locale «Congregazione di carità». Molte «Casse comunali di credito agrario» furono in seguito assorbite dalle sezioni di Credito agrario degli Istituti di credito di diritto pubblico.
Nel dibattito politico che si sviluppò all’indomani dell’Unità d’Italia per il superamento dei «monti» e la nascita delle «Casse di prestanze», intervenne con grande autorevolezza anche Giustino Fortunato in un appassionato intervento alla Camera dei Deputati il 15 giugno del 1880. Il grande meridionalista riprende con convinzione anche le valutazioni esposte sul tema dalla «Rassegna settimanale» del 21 marzo 1880 sui «monti frumentari» nelle province napoletane. Da questo lungo articolo estraiamo la parte relativa alla provincia di Terra di Lavoro: La statistica del Ministero di agricoltura nel 1863, scrive il Theo, consigliere provinciale di Caserta, “segnava per Terra di Lavoro n° 21 Monti con 9974 ettolitri di grano, pari a lire 199.481,60; nella statistica del Consiglio provinciale del 1873 i Monti si riducono a sette con 2477 ettolitri, pari a lire 49.543,40 e troviamo notate in surrogazione sei casse di prestanza con un capitale di lire 22.951,65; sicché in un decennio è sparito, non si sa come, un capitale di credito agrario di lire 126.985,55.
Insomma, nel maggior numero dei casi, nei quali fu chiesto dai Consigli comunali, che in forza delle antiche leggi non abrogate sarebbero tenuti a renderne conto, la trasformazione dei Monti su la base del “capitale esistente”, il Governo è intervenuto, ignaro e non curante dei diritti delle classi senza voto e senza rappresentanza, a sancire l’avvenuta liquidazione. È questo il significato pratico dei decreti di trasformazione dei Monti frumentari nelle province napoletane. Il Prefetto della provincia Terra d’Otranto rilevando anch’egli i tanti abusi commessi rileva “volendo personalmente rintracciare la sorgente delle declamazioni contro i Monti frumentari, visitai i Comuni, convocai i rappresentanti di tutte le classi, e dappertutto riportai le medesime impressioni: i poveri invocavano i Monti e reclamavano contro gli abusi, che li defraudavano specialmente dopo l’emancipazione della tutela governativa; gli schiamazzatori e gli usurai ne chiedevano la soppressione come vecchie anticaglie; quelli, poi, che avrebbero dovuto render conto dei capitali sfumati, ne esecravano fin anche la memoria. E questi appunto erano sostenuti dai Consigli comunali, chiamati responsabili solidalmente dalle leggi. Ecco la vera origine della condanna dei Monti frumentari”.
L’articolo conclude con una esortazione: Comunque sia della utilità di queste istituzioni, quel che importa, per ora, è che il potere esecutivo si metta in guardia, una buona volta, contro la tanto vantata loro trasformazione; che si arresti un po’ su la via seguita finoggi, quella di servir da cieco strumento a un atto illegale e ingiusto; che indaghi lo stato di vent’anni addietro, e faccia dalle autorità prefettizie rivendicare efficacemente, senza paure e senza riguardi, i loro diritti manomessi. Importa che il Governo italiano non si mostri, in questo, da meno del Governo borbonico.
Con queste complesse e problematiche situazioni in cui il superamento dei «monti» non sempre corrispondeva a un avanzamento delle condizioni di vita delle classi contadine più povere, arriviamo ai primi del Novecento in cui, anche Pignataro Interamna si dotò di una «Cassa di prestanza». Ma anche in questo comune non sembra che le cose andarono fino in fondo per il verso giusto. Lo si rileva dalla stampa del tempo, di cui lo studioso Emilio Pistilli ha recuperato alcuni passaggi in un suo articolo su un precedente numero di questa rivista.
«La Provincia», settimanale che agli inizi del secolo scorso veniva stampata e pubblicata a Cassino, in un suo servizio su Pignataro Interamna, bolla l’Amministrazione comunale (1911- 1912) con questa definizione: «la trista fogna nella quale si annidavano, tra pochi galantuomini e molti cretini, i più pericolosi farabutti del Comune». Il deputato atinate del collegio di Cassino, Achille Visocchi, fu costretto più volte a recarsi a Pignataro Interamna per normalizzare gli animi attorno ai problemi agrari e questo probabilmente aveva anche un’altra motivazione: il deputato aveva anch’egli interessi diretti nel settore agrario in quanto possedeva aziende agricole in quel di Atina.
La «Cassa di prestanze agrarie “Principe di Piemonte”» di Pignataro Interamna malgrado l’adesione numerosa dei soci, non ebbe vita facile e tra liti e contrasti si avviò ben presto verso la fine anche grazie alle ulteriori leggi che ne decretavano l’ulteriore trasformazione nella direzione delle Sezioni di credito agrario dei grandi istituti di credito. Nelle province della Campania l’approdo finale fu il Credito agrario del Banco di Napoli.
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