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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 3
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di Mariano Dell’Omo
A Montecassino o anche altrove, ma di provenienza cassinese, si conservano esemplari manoscritti unici, senza dei quali non conosceremmo opere che appartengono alla storia della letteratura in generale: per la patristica cito il De mysteriis di Ilario di Poitiers (oggi cod. 405 della Biblioteca della città di Arezzo), per la letteratura classica, quel che a noi resta degli Annales (XI-XVI) e delle Historiae (I-V) di Tacito (Firenze. Biblioteca Laurenziana, 68.2), per la prima storiografia altomedievale l’Historia Francorum di Gregorio di Tours (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, cod. 275), per non parlare del Placito capuano (o cassinese) del marzo 960, primo documento ufficiale del volgare italiano, e perciò pietra miliare nella storia della lingua di Dante.
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IL VALORE DEL CODICE CASSINESE 512
In un tale contesto, anche il codice 512 (Montecassino, Archivio dell’Abbazia)1, che racchiude la Divina Commedia di Dante, e che data alla seconda metà del XIV secolo, ha una sua singolare identità. Intanto è l’unico manoscritto contenente l’intero capolavoro dantesco che si conservi a Montecassino, perché gli altri due codici cassinesi con testi della Commedia, i mss. 190 e 511, presentano entrambi una caratteristica: rispondono ad un progetto che non è primariamente o esclusivamente quello di divulgare il testo dantesco in quanto tale. Infatti nel caso del cod. 190, che contiene tra l’altro il De consolatione philosophiae di Boezio, trascritto verso la fine del ’200 o agli inizi del ’300, una mano della prima metà del XIV secolo ha glossato fittamente nell’interlineo e sui margini il testo – le glosse sono generalmente in latino, qualcuna però è in volgare, e in quattro punti, a commento dell’opera di Boezio, il glossatore ha riportato alcuni versi della Divina Commedia. Invece il cod. 511, scritto in gotica del sec. XIV, e recante i primi otto libri dell’Eneide di Virgilio, alle sole pp. 141-157 presenta glosse al testo virgiliano, che in realtà consistono in passi tratti da Inferno e Purgatorio della Commedia.
Qual è invece il valore tutto speciale del codice 512?
Direi che tre sono gli elementi fondamentali che caratterizzano questo manoscritto cartaceo:
- l’antichità del testo, sebbene non appartenga al gruppo dei codici della Commedia più antichi in assoluto;
- la presenza di glosse che derivano dal fondamentale Commentario di Pietro Alighieri († 1364), il figlio primogenito di Dante, ma offrono anche profili originali e utili a valutare e datare il commento stesso;
- l’aggiunta di notabilia, cioè di segni speciali, talvolta anche bizzarri, vere e proprie avvertenze poste a margine dei passi ritenuti memorabili del testo dantesco, soprattutto quelli di contenuto morale, esortativo, o anche gnoseologico, di cui saranno offerti più avanti almeno tre esempi.
Oltre al testo completo della Commedia con l’apparato di glosse tradizionalmente note ai filologi danteschi come ‘Chiose cassinesi’2, il codice contiene anche altri testi complementari o estranei alla Commedia. Nelle pagine finali del manoscritto troviamo infatti (cc. 201r-202v) il Capitolo in terza rima a esposizione e riassunto dell’argomento della Commedia di Iacopo Alighieri († 1348 ?), l’altro figlio del poeta, con delle chiose interlineari e marginali; e ancora (cc. 203r-205r) il Capitolo in terza rima a compendio della Commedia, di Bosone da Gubbio († prima del 1377); infine (c. 206v) un sonetto del Petrarca, Cesare, poi che ’l traditor d’Egitto, n. 102 del Canzoniere. Che i due capitoli riassuntivi della Commedia siano programmati lo dimostra il fatto che la mano che ha copiato i due testi è la stessa, quella principale, la cd. mano A, che ha vergato le terzine della Commedia e il commento principale sui margini; diversamente il sonetto del Petrarca è di mano del sec. XV.
Il codice è scritto in semigotica, e si possono distinguere cinque mani: una, come già dicevo, è la mano principale (A), della seconda metà del sec. XIV, che ha vergato il testo poetico e il corpus preminente delle glosse. Se ne distinguono poi altre due, contemporanee, di poco posteriori (B e C), che hanno scritto le chiose fino a Inf. IX, 11 (c. 17r), ma si rivedono anche qua e là più avanti in altri punti del poema; ci sono poi altre due mani (D e E), con poche glosse al testo dantesco, ma ormai databili al sec. XV; la prima (mano D) appare solo a c. 22r (Inf. XI, 93); l’altra (mano E), che ricorre più volte, si può riscontrare a partire da c. 121r (Purg. XXVII, 3), fino a c. 143r (Par. V, 9).
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A CHE EPOCA RISALE L’APPARATO PRINCIPALE DELLE ‘CHIOSE CASSINESI’?
Si può sottolineare a questo punto un aspetto importante per la cronologia del principale apparato di glosse che formano il commento al testo della Commedia: di particolare rilievo in tal senso è la chiosa a Purg. XX, 67-69 (c. 107v): «Carlo venne in Ytalia e, per amenda, / victima fe di Curradino; e poi / ripinse al ciel Tomasso, per amenda».
Carlo I d’Angiò sceso in Italia nel 1265 e l’anno dopo incoronato re di Sicilia, non solo, com’è noto, fece decapitare nel 1268 il sedicenne Corradino di Svevia nella Piazza del Mercato a Napoli, ma anche – secondo Dante, che raccoglie voci contemporanee, come quella del Villani nella sua Cronica – avrebbe provocato – per motivi di politica ecclesiastica – la morte (ripinse al ciel) di Tommaso d’Aquino il 7 marzo del 1274, mentre si recava al concilio di Lione. Ecco ora la glossa che si legge nel codice cassinese: «Item fecit venenari sanctum Tomasium de Aquino in habatia Fosse Nove in Campanea, ubi hodie eius corpus iacet, et hoc fecit timendo ne ad papatum veniret».
Carlo cioè temendo che Tommaso, una volta giunto a Lione, si mostrasse a lui contrario presso papa Gregorio X, l’avrebbe fatto avvelenare. Una diversa interpretazione, rispetto a quella più diffusa e qui prospettata, appare nella prima redazione del Commentario di Pietro Alighieri, secondo il quale la morte sarebbe stata provocata dal fatto che Carlo avesse avuto sentore che Tommaso potesse un giorno diventare papa: «suspicatus ne papa fieret, ut credebatur»3.
Qui interessa soprattutto notare il fatto che la glossa cassinese, alludendo al fatto che Tommaso è sepolto (ubi hodie eius corpus iacet) nell’abbazia di Fossanova, mostra chiaramente di ignorare che tra il 1368 e il 1369 era avvenuta la traslazione delle spoglie mortali del santo da Fossanova a Tolosa in Francia, un episodio che non era certamente passato sotto silenzio tra i contemporanei. Questa è la ragione per cui si può ritenere con fondatezza che il commento sia stato composto in una data anteriore a quella della traslazione, prima cioè del 1368/13694, e dunque all’incirca 40 anni dopo la morte del poeta.
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SEGNI AUSILIARI PER UNA LETTURA A SCOPO MORALE DELLA COMMEDIA
Il manoscritto cassinese 512 è privo di illustrazioni con figure intere o con immagini autonome. Tuttavia è interessante e molto originale, come già si è notato sopra, la valorizzazione a scopo morale del testo della Commedia grazie a coevi notabilia: simboli, protomi zoomorfe e testine umane, il cui scopo è quello di rimarcare alcuni passi del poema dantesco, soprattutto quelli il cui contenuto tocca la vita dell’uomo, il suo destino, la relazione tra il tempo storico e quello metastorico, oppure tutto il complesso mondo delle virtù morali e dei loro contrari.
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Eccone tre esempi:
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1
«Che tucto loro ch’è socto la luna / e che già fu, de quest’anime stanche / non potrebbe farne possar una».
Siamo nel quarto cerchio dell’Inferno, con le due schiere di avari e di prodighi che provengono da destra e da sinistra rotolando grandi massi, e dove s’incontrano e si scontrano scambiandosi aspre ingiurie. Dante con un’immagine paradossale denigra l’eccesso di ricchezza ed esalta quel che la ricchezza uccide: la tranquillità e la pace del cuore, quell’assenza degli affanni di questo mondo, gli affanni che nella parabola evangelica del seminatore soffocano la parola e quindi tutta la sua forza di conversione e di salvezza. Tutto ciò è senza valore per questi condannati ai quali – dice Dante – se fossero ancora sulla terra, tutto l’oro di questo mondo non potrebbe mai dar pace.
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2
«O superbi Christian miseri lassi / che per la vista de la mente infermi / fidança avete nei retrosi passi».
Siamo nella prima cornice del Purgatorio. Alla visione dei superbi che espiano la loro colpa stando rannicchiati (‘chi si esalta sarà umiliato’), ecco l’apostrofe di Dante che e contrario esalta l’umiltà, virtù strutturale del monaco secondo san Benedetto, che ad essa dedica l’intero capitolo VII della sua Regola. Perciò non a caso viene segnalato quel che Dante esclama accorato: o infelici i superbi, proprio perché dimentichi della miseria comune a tutti gli uomini, che li porta persino a porre fiducia nei passi indietro, orgogliosi cioè di beni che passano, bruciati dalla loro stessa vanità.
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3
(115-117) «Che quelli è tra li stolti bene abasso / che sança distintion afferma et nega / nell’un così come ne l’altro passo».
Siamo nel quarto cielo del Paradiso, quello degli spiriti sapienti, e a parlare è san Tommaso che ammonisce Dante e l’intera umanità a non essere frettolosi nel giudicare, senza operare le dovute distinzioni, procedendo piuttosto coi piedi di piombo quando si tratti di decidere circa le cose che trascendono i confini della propria capacità intellettuale, in special modo il destino eterno delle anime.
Infatti aggiunge Tommaso rivolgendosi a Dante:
(133-135) «Chi ò veduto tucto’l verno prima / il prun mostrarsi rigido et feroce, / poscia portar le rose in su la cima».
È ancora paradossale il linguaggio dell’Aquinate: dal pruno, secco e irto di spine in inverno, sboccia la rosa nella stagione primaverile. Nell’orizzonte della salvezza nessuno può dirsi sicuro di sé e della propria sorte eterna finché è su questa terra. È un invito a non giudicare prima del tempo.
Dante, Tommaso, Montecassino: si sono aperte grandi finestre dinanzi a noi avvicinandoci idealmente al codice cassinese 512, grazie al quale in questo anno 2021 possiamo ben onorare il settimo centenario della morte del sommo poeta, contribuendo così, in sintonia con il Ministero della Cultura, «alla riscoperta del genio dantesco e della potente fortuna del suo immaginario».
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NOTE
* Il nucleo di questo articolo è dato dall’intervento introduttivo letto in occasione dell’inaugurazione della mostra Montecassino e Dante (Abbazia di Montecassino, 11 settembre-31 dicembre 2021).
1 Per una descrizione aggiornata del manoscritto cassinese cf. M. Roddewig, Dante Alighieri, göttliche Komödie. Vergleichende Bestandsaufnahme der Commedia-Handschriften, Stuttgart 1984, pp. 206-207, n. 491; C. Meluzzi, Montecassino, Archivio dell’Abbazia, 512, in Censimento dei commenti danteschi, 1. I commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, II, Roma 2011, p. 890, n. 487.
2 Cf. S. Bellomo, Chiose cassinesi, in Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della Commedia da Iacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze 2004, pp. 216-217; R. Abardo, Chiose cassinesi, in Censimento dei commenti danteschi, 1. I commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, I, Roma 2011, pp. 155-159.
3 Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium nunc primun in lucem editum, ed. V. Nannucci, Florentiae 1845, p. 436.
4 Cf. P. Giannantonio, I commentatori meridionali della «Divina Commedia», in Dante e l’Italia meridionale. Atti del Congresso Nazionale di Studi Danteschi (…) 10-16 ottobre 1965, Firenze 1966, pp. 389-415: 395-396. In realtà, come nota Abardo, Chiose cassinesi cit., pp. 155-156, «la proposta non è tuttavia risolutiva, poiché il medesimo riferimento si trova ad litteram in Pietro Alighieri: “inde venenari fecit sanctum Thomam de Aquino in abbatia Fosse Nove in Campanea, ubi hodie eius corpus iacet, et hoc fecit timendo ne ad papatum veniret”», cioè nella terza redazione del Comentum del figlio di Dante (cod. Vat. Ottob. lat. 2867, inizi del sec. XV), edita dal Chiamenti nel 2002.
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