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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 3
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di Emilio Pistilli
Il codice cassinese 512 della Divina Commedia (Paradiso, XXII, v. 37) esposto in anteprima mondiale nel museo di Montecassino nella mostra Montecassino e Dante non è aperto al passo di Dante in cui si accenna a «quel monte a cui Casino è nella costa», come si sarebbero aspettati i Cassinati in visita, ma alla pagina del canto XX del Purgatorio nel quale si racconta della venuta in Italia di Carlo d’Angiò, che «per ammenda» fece uccidere prima Corradino di Svevia e poi San Tommaso d’Aquino (vv. 67-69)1.
Su questo accenno di Dante alla morte di Tommaso d’Aquino voluta da re Carlo, si è molto discusso: secondo la storia ufficiale della Chiesa il teologo morì infermo a Fossanova. Ma per i primi commentatori della Commedia la sua morte deve attribuirsi alla volontà del D’Angiò di volersi disfare di Tommaso perché probabile futuro cardinale o addirittura papa per via della sua inimicizia col casato dei D’Aquino, legato ai suoi nemici Hohenstaufen; l’omicidio sarebbe avvenuto durante il viaggio di Tommaso verso Lione, dove aveva sede papa Gregorio X, per partecipare al concilio: un medico di corte lo avrebbe avvelenato2. Secondo un’altra versione Tommaso avrebbe accidentalmente battuto la testa cadendo da cavallo mentre era diretto a Lione.
Secondo altri invece Dante nel suo passo si riferiva ad un altro Tommaso d’Aquino, omonimo e cugino del nostro – cresciuto alla corte imperiale avendo sposato una figlia di Federico di Svevia –, che sei anni prima era stato decapitato nel corso della persecuzione contro i ghibellini subito dopo Corradino di Svevia, ultimo erede di Federico II, decapitato nel 1268. Forse quest’ultima ipotesi potrebbe essere la più attendibile.
Il codice cassinese 512 fu portato a stampa nel 1865 dalla nuova tipografia di Montecassino, corredato di autorevoli prolegomena a firma di Luigi Tosti, Andrea Caravita e Cesare Quandel3.
È importante la pagina esposta al museo dell’abbazia per la datazione del codice: infatti la nota a margine (chiosa sincrona) ricorda che il santo di Aquino era ancora sepolto a Fossanova: rex Sicilie creatus ab Urbano Papa IIII.° qui venit in Italiam et decapitari fecit Corradinum ut plene scripsi in XXVIII. Capitulo Inferni4, item fecit venerari Sanctum Tomasium de Aquino in Habatia Fosse nove in Campanea ubi hodie ejus corpus jacet et hoc fecit timendo ne ad Papatum veniret; il che fa pensare che l’annotatore ignorasse la traslazione del corpo del santo in Tolosa, avvenuta nel 1369 da parte dei Domenicani. Dunque questo è un terminus post quem che pone l’esistenza del codice anteriormente a quell’anno. Va rilevato che la stesura del codice, a sua volta, è senz’altro anteriore all’annotazione stessa essendo stilata da mano diversa. Dunque i curatori della mostra cassinese hanno preferito far rilevare l’antichità del volume, a beneficio soprattutto dei cultori dantisti.
Non manca chi consideri il codice 512 vergato dalla stessa penna di Dante: Marc’Antonio Parenti scriveva nel 1857 al P. D. Gregorio Palmieri, bibliotecario e archivista di S. Paolo fuori le mura in Roma: nel codice di Montecassino «… al 3. ° verso del p . c . Inf. che la diritta via avia smarrita. Il che serve a comprovare l’età remota dei codici, ed a confermarmi nella congettura che questa fosse la lezione di o primo getto escita della penna dell’Allighieri, e poscia da lui stesso ragionevolmente riformata per altri esemplari; chè non è a credere avesse il poeta rinunziato in sua vita alla general facoltà di migliorare le proprie cose»5.
Quello che lega il Codice ai Cassinesi (e dunque anche ai Cassinati) è l’incontro di Dante con San Benedetto durante il quale il Patriarca cita il monte sul quale sorge la sua abbazia: «quel monte a cui Casino è nella costa»6, dove «Casino» con una sola «s» differisce da altri codici che riportano «Cassino» con doppia «ss». Nelle chiose sincrone a conforto della singola «s» si cita l’edizione di Carlo Witte, Berlino 18627, mentre per la duplice si citano l’edizione a stampa di Jacob del Burgofranco Pavese, Venezia 1529 e quella di Guglielmo Rovillio, Lione 1589.
Quale è la versione corretta? Stando a quella che è la vulgata, che in genere fa capo a Giorgio Petrocchi, dovrebbe essere «Cassino», ma solo per questo. Infatti se il nostro codice fu trascritto nello scriptorium dell’abbazia di Montecassino non poteva che essere «Casino» la versione giusta per il fatto che quella è la forma ampiamente diffusa nei documenti cassinesi, sia precedenti che successivi, essendo la sua derivazione dalla Casinum romana; con l’avvertenza però, che nel medioevo con il toponimo «Casino» ci si riferiva essenzialmente all’abbazia di Montecassino e non alla sottostante città che a quel tempo si chiamava San Germano8. Riccardo da San Germano, per esempio, nella sua Cronaca9, usa molto spesso la forma «Casino» riferendosi al monastero.
Ma perché questa discordanza (una sola «s» o due «ss»)?
Credo si debba attribuire ad un errore degli amanuensi, cosa molto facile perché il codice originale del sommo poeta non è mai stato ritrovato, mentre le prime trascrizioni venivano inizialmente effettuate “a memoria”10. Complessivamente si contano oltre 800 trascrizioni dell’opera11.
Va ancora detto, e questo è molto importante, che del codice cassinese 512 non si è avuta notizia per molti secoli. Infatti non figura negli antichi inventari degli archivi dell’abbazia: il primo catalogo delle opere conservate nell’archivio cassinese, risale al sec. XV, redatto su ordine di Papa Paolo II, probabilmente per scegliersi i manoscritti da trasferire nella biblioteca vaticana, suppone Luigi Tosti nei Prolegomena; un altro catalogo fu fatto nel sec. XVI su mandato di Clemente VII, entrambi – scrive ancora Luigi Tosti – furono trasmessi al Vaticano, probabilmente non senza che fossero accompagnati da preziosi codici cassinesi; non risulta che nei due cataloghi comparisse anche il codice cassinese della Divina Commedia. Neppure lo si trova citato nel catalogo redatto dal benedettino Bernard de Montfaucon (Aube, 1655 – Parigi 1741); né il grande archivista Erasmo Gattola (1662-1734) ne fa cenno. Lo troviamo solo nel catalogo dei manoscritti in otto volumi del cassinese Placido Federici (1739-1785). Viene citato per la prima volta alla fine del sec. XVIII, dal benedettino Giuseppe Di Costanzo, abate di S. Paolo a Roma; infine lo troviamo nel nostro codice (ora in mostra) stampato dalla tipografia monastica nel 1865 «ma questi suscitò un’aspra disputa tra studiosi per aver supposto che Dante avesse tratto spunto dalla Visione di Alberico, monaco di Montecassino vissuto nel sec. XII, il cui manoscritto era [e lo è tuttora] conservato nell’archivio cassinese»12, anch’esso in mostra.
In altri termini il codice cassinese era pressoché sconosciuto da parte dei dantisti o, forse, poco considerato, ma a torto perché su di esso hanno messo mano i figli di Dante, Pietro e forse anche Jacopo13.
In ogni caso il prezioso codice sopravvisse al disastroso terremoto del 1349 che distrusse (per la terza volta) la casa di S. Benedetto: da allora e per molto tempo i resti della badia rimasero abbandonati alle intemperie, alla vegetazione infestante e alle scorrerie di bande armate di saccheggiatori. Forse appena un paio di anni dopo ci fu la visita di Giovanni Boccaccio che, alla vista di quello scempio, trasse occasione per gettare discredito (anche il codice 512 rimase sommerso nel marasma delle opere d’archivio in rovina in attesa di un recupero ed una catalogazione: è da ritenere che al tempo del catalogo quattrocentesco, cui si è accennato più su, non tutte le opere fossero state riportate in vista).
A partire da Erasmo Gattola, che abbiamo visto non mostra di conoscere il codice 512, iniziamo a trovare il termine Cassino con doppia «ss» –, salvo una inspiegabile scrittura con doppia «ss» di fine Impero, quando cioè il vocabolo Casinum era il solo utilizzato sia nei testi che nelle epigrafi di epoca romana: probabile errore dell’amanuense14 –.
Ma a questo punto ci viene da chiederci, al di là di quanto abbiamo ragionato fin qui, quale delle due versioni possa aver utilizzato Dante nel suo manoscritto, «Casino» o «Cassino». Andando per congetture – ma è solo un trastullo mentale – dobbiamo appurare se il Poeta sia mai stato in abbazia a Montecassino. Se supponiamo che vi sia stato allora viene da sé che dovesse adottare la forma con una «s» per i motivi accennati più su (l’uso costante di «Casino» nei documenti cassinesi), ma non abbiamo notizia di un suo soggiorno sul nostro monte. È vero, come dice Annamaria Arciero, che «nel 1294 Dante era ambasciatore di Firenze presso il Regno di Napoli e potrebbe aver visitato il monastero rinomato, in quanto si trovava sul suo cammino»15, infatti Montecassino era una tappa quasi obbligata per i viaggiatori tra Roma e Napoli da parte di personaggi illustri. Allora, in tal caso, conviene rileggere quanto il Vate scrive del luogo e dei monaci cassinesi: «la mia Regola è servita solo ad imbrattare la carta su cui è scritta (cioè ormai nessuno la segue più). Le mura che erano destinate ad essere ospizio di santi, ora sono diventate covi di ladroni16 e le tonache dei monaci sacchi pieni di farina guasta. Ma la grave usura non offende il piacere di Dio quanto quel frutto (le decime) che rende avido il cuore dei monaci; perché, tutto ciò che la Chiesa custodisce appartiene alla gente che chiede l’elemosina in nome di Dio, non ai parenti dei monaci o a qualcosa di più brutto (le concubine)».
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«… la regola mia
rimasa è per danno de le carte.
Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.
Ma grave usura tanto non si tolle
contra ‘l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de’ monaci sì folle;
ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d’altro più brutto»
(Paradiso, XXII, vv. 74-84)
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Questi versi, comprensibilmente poco graditi ai monaci cassinesi, richiamano alla mente l’invettiva contro la corruzione ecclesiastica e la simonia della Chiesa nell’incontro con il papa simoniaco Niccolò III, della nobile famiglia romana degli Orsini, nel canto XIX dell’Inferno, quello delle malebolge, dove il Poeta chiede:
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«Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?»
(vv. 112-114)
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Le recriminazioni contro il tralignamento della chiesa dalla sua missione originaria sono una costante nella Divina Commedia e nelle altre opere dell’Alighieri.
Se Dante avesse fatto visita al monastero di S. Benedetto dai suoi versi potremmo dedurre che non fu accolto in maniera molto ospitale. È più verosimile, invece, che egli, pur non essendo mai salito alla badia, non guardasse con occhio benevolo all’ordine benedettino, forse per motivi politici o per rapporti poco amichevoli con esso, o forse semplicemente nell’onda dei suoi malumori contro le deviazioni dei religiosi, come appena ricordato. Dunque anche qui si toglie il classico sassolino dalle scarpe mettendo in bocca al santo di Montecassino quelle espressioni che in realtà erano soltanto sue.
Posto che l’Alighieri non sia mai stato a Montecassino (ma è sempre da dimostrare) da dove avrebbe tratto la versione «Cassino» con duplice «ss»? Non risulta che ai suoi tempi circolasse su qualche testo tale versione da cui egli la avrebbe ripresa.
Allora la spiegazione più verosimile è che quella versione sia nata dalla trascrizione errata di qualche amanuense nel compilare il proprio codice; poi plagiarla sarebbe stato un tutt’uno.
A contrastarla invece ci sarebbe la presenza dei figli di Dante nella compilazione del Codice cassinese 512.
Va annotato che Pietro, in particolare, commentò per intero la Divina Commedia del Codice Palatino 313 (anche il fratello Jacopo ne commentò una parte), considerato il più antico codice miniato del secondo quarto del XIV sec. (dopo il 1325 dunque) conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; in quel codice, che proprio per l’intervento di Piero può essere considerato coevo del cassinese 512, al verso 37 del canto XXII del Paradiso, che a noi interessa, si legge: «Quel monte a chui Chas / scino e ne La chosta»: Cassino diventa “Cascino”, a dimostrazione dell’incertezza della originaria scrittura da parte di Dante.
Sappiamo che l’odierna città di Cassino si è chiamata per molti secoli San Germano, ma nel 1863 gli amministratori locali decisero di mutarle nome riprendendo quello delle sue origini romane. Il nuovo nome derivò dalla necessità di evitare la possibilità «di frequenti disguidi e di altri inconvenienti con altri centri del Regno che portavano lo stesso nome» come imponeva un decreto del Ministero degli Interni del novello Regno d’Italia; in ottemperanza a tale decreto il Consiglio comunale di San Germano, il 23 maggio 1863 deliberò che «… dovendo la Città di Sangermano mutare il nome, essa non possa prenderne altro che quello di Cassino, sì perché questi è il nome che avea la Città da cui ha origine Sangermano». L’approvazione avvenne con Regio decreto 26 luglio 1863 n. 142517.
In una successiva delibera consiliare si ribadisce tra l’altro: «… conchiudiamo che dovendo la Città di Sangermano mutare il nome, essa non possa prenderne altro che quello di Cassino, sì perché questi è il nome che avea la Città da cui ha origine Sangermano». È di tutta evidenza la forzatura nel voler sostenere che l’antico nome della città fosse «Cassino» e non «Casino» come invece recitano le innumerevoli epigrafi che erano sotto gli occhi di tutti.
Non escludo che nell’animo degli amministratori del tempo ci fosse anche la volontà di affrancarsi, almeno nel nome, dalla sudditanza cassinese; cosa che aveva origini lontane, visti i ripetuti tentativi di gruppi cittadini di sottrarsi dal “giogo” abbaziale, né mancarono addirittura disordini sedati con la forza.
Ma cosa c’entra questo con l’adozione della formula con due «ss» anziché quella originale dell’antichità? Si può arguire che due furono le ragioni: la prima perché la parola “casino” evoca – ora come allora – immagini poco consone al decoro della città (non v’è bisogno di precisarle), la seconda perché hanno preferito rifarsi alla formulazione della cosiddetta vulgata della Divina Commedia, che riporta spesso le due sibilanti.
Se così andarono realmente le cose quegli amministratori non mostrarono molta autonomia di pensiero, né fecero onore alla loro prestigiosa storia.
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NOTE
1 «Carlo venne in Italia e, per ammenda, / vittima fé di Curradino; e poi / ripinse al ciel Tommaso, per ammenda».
2 Giovanni Villani, Nuova Cronica, libro IX, cap. 218 (ant. al 1363): «… andando lui a corte di papa al concilio a Leone, si dice che per uno fisiziano del detto re, per veleno gli mise in confetti, il fece morire, credendone piacere al re Carlo, però ch’era del legnaggio de’ signori d’Aquino suoi ribelli, dubitando che per lo suo senno e virtù non fosse fatto cardinale»; ma lo stesso Villani riferisce che Tommaso morì a Fossanova.
3 Per un rapido esame del codice si può leggere la mia breve monografia Il codice cassinese della Divina Commedia, in «Studi Cassinati», a. XII, n. 2, aprile-giugno 2012, pp. 106-116.
4 Inferno, c. XXVIII, v. 16: «A ceperano laove fu busgiardo ciascun pugliese …». Nelle Note Sincrone di p. 159 si fa riferimento al tradimento del giuramento di fedeltà dei “Pugliesi” a Manfredi; «A ceperano. Karolus rex apulie posuit in conflictu regem manfredum apud terram ceperani ubi omnes apulienses fuerunt mendaces. eo quia dicti apulienses promiserant dicto regi Manfredo et juraverunt esse secum contra dictum Karolum et posmodum prodiderunt eum in quo conflictu multi mortui et vulnerati fuerunt». I fatti: dopo essere stato incoronato a Roma re di Sicilia dal papa Clemente IV nel giorno dell’Epifania del 1266, Carlo D’Angiò iniziò la sua crociata contro Manfredi, figlio di Federico II, per la supremazia nel regno di Sicilia. Il 20 gennaio 1266 Carlo percorse la Via Latina per sfondare il sistema difensivo di Manfredi, apprestato nel triangolo Ceprano-Rocca d’Arce-San Germano (oggi Cassino). Ma ci fu il tradimento dei baroni alleati di Manfredi (a «Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese») per cui gli Angioini ebbero via libera per andare incontro a Manfredi attestato a Capua; solo a San Germano ci fu uno scontro, con la resa della città il 10 febbraio 1266, cui seguì anche la resa di 32 castelli della zona del Liri. Manfredi preferì asserragliarsi a Benevento, dove avvenne lo scontro finale, il 26 febbraio. Con la sconfitta dello svevo, morto in battaglia, l’Italia meridionale e la Sicilia passarono sotto il dominio angioino.
5 Prolegomena, pag. LIII.
6 La postilla nell’interlinea annota: «qui dicitur mons calvus, alius mons» riferendosi, come precisa la chiosa sincrona dello stesso codice, ad un certo altissimo monte Calvo in contrada S. Germano in Puglia; accanto a tale monte sorge il monte Cassino minore, sulla cui cima c’è il monastero di S. Benedetto: «Et est sciendum quod in Appulia in contrata sancti Germani est quidam mons altissimus vocatus mons calvus cum quo unitur quidam alius mons vocatus cassinus minor eo in cujus cassini culmine est monasterium ipsius sancti benedicti».
7 La lezione di Carlo Witte si attiene alla singola «s». C. Witte, La divina Commedia di Dante Allighieri ricorretta sopra quattro dei più autorevoli testi a penna, Ridolfo Decker Stampatore del Re, Berlino MDCCCLXII (vd. il cod. p. 56).
8 Della questione ho trattato a più riprese in articoli sulla rivista «Studi Cassinati», in particolare nel nn. 1-2, a. XX, gennaio-giugno 2020, Non è Cassino ma Montecassino, pp. 112-116.
9 Ryccardi de Sancto Germano notarii, Chronica, ed. G. H. Pertz, in Monumenta Germaniae historica. Scriptores. Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separatim editi, 53; Hannover 1864.
10 Claudio Ciociola in Storia della Letteratura Italiana diretta da Enrico Malato, Vol. X La tradizione dei testi, p. 175: «I più antichi documenti superstiti della tradizione della Commedia sono dunque trascrizioni, verosimilmente a memoria – alcune delle quali realizzate vivente il poeta e anzi in data anteriore al compimento dell’opera».
11 Ibidem.
12 Da i Prolegomena; per la questione si può vedere la mia nota in Il Codice Cassinese della Divina Commedia … cit.
13 In realtà il nome di Jacopo non figura nel testo dantesco 512, ma in uno dei due capitoli aggiunti a firma, uno di Jacopo e l’altro di Bosone da Gubbio: «Tali quali sono nel nostro Codice, abbiamo letteralmente pubblicati i due capitoli, uno attribuito a Jacopo figlio di Dante, e l’altro a Bosone da Gubbio colle loro postille. Mancano veramente quei due nomi nel Codice: ma perché si trovano in altri Mss. ricordati dal de Batines, come in quelli della Laurenziana segnati n.° 11. 29. 41, della Strozziana 149. 151. 152, della Gaddiana 41, ed in altri», Prolegomena, p. L.
14 G. Ossequente, Prodigiorum liber, IV sec. d.C, 2.12 M. Marcello C. Sulpicio coss. – 166 a.C., dove si parla di una gran quantità di fulmini sulla città e del sole che fu visto per alcune ore anche di notte: «Fulmine pleraque discussa Cassini et sol per aliquot horas noctis visus».
15 Dante tra Pistilli e Gigante, in «Studi Cassinati», nn. 1-2, a. XXI, gennaio-giugno 2021, p. 129.
16 Il riferimento è al brano del Vangelo circa la cacciata dei mercanti dal tempio: «domus mea domus orationis vocabitur; vos autem fecistis illam speluncam latronum»: «la mia casa sarà chiamata casa della preghiera, voi invece ne avete fatto una spelonca di ladroni» (Matth., XXI, 13).
17 Si veda G. de Angelis-Curtis, 23 maggio 1863: da San Germano a Cassino, in «Studi Cassinati», a. XIII, nn. 1-2, gennaio-giugno 2013.
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