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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 3
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di Lucio Meglio
Si coglie l’occasione per delineare un inedito ritratto di un religioso tanto insigne quanto ingiustamente ignorato dalla sua patria natale. Superiore della provincia napoletana (1631) e preposito generale della Congregazione dei Carmelitani Scalzi d’Italia1 (1638) padre Filippo Sarra esercitò con saggezza e determinazione le numerose cariche ricoperte nei primi anni di vita in Italia della riforma teresiana del Carmelo.
Padre Filippo, al secolo Giovanni Felice Sarra2 nacque a Pescosolido nel 1582 da Giovanni e Lorenza de’ Conti di Savona. Appena fanciullo si trasferì con la famiglia a Roma dove nel 1602 entrò nel Carmelo di Santa Maria della Scala3. Qui fece la professione solenne il 2 maggio 16034 proseguendo gli studi filosofici e teologici a Genova nel convento di Sant’Anna5. Le eccellenti prove di predicatore e amministratore indussero il Definitorio generale ad affidargli fin da subito incarichi di responsabilità nominandolo il 7 maggio 1611 sottopriore e maestro dei novizi del convento di Cracovia (Polonia)6. Acquistata la fama di religioso assai colto, conoscitore di varie lingue e molto pratico nell’amministrazione conventuale il Capitolo generale del 25 aprile 1614 lo nominò priore di Lublino (Polonia). Tre anni dopo, sempre il capitolo generale, lo propose come priore di Avignone (Francia) incarico però rifiutato. Il 19 febbraio 1619 venne eletto primo priore dell’eremo di Varazze in provincia di Savona7. Nel 1623 si trasferì a Genova, nel convento di S. Maria della Sanità, ricoprendo l’incarico di priore e maestro dei novizi. Nel 1626 il Capitolo generale istituì la provincia napoletana dei Carmelitani scalzi e il p. Filippo risultò eletto terzo consigliere provinciale, ma la nomina fu dichiarata nulla poiché ricopriva già la carica di secondo consigliere della provincia ligure. In seguito però, presumibilmente nel 1628, dovette trasferirsi a Napoli visto che nel Capitolo generale del 1632 vi partecipò in qualità di provinciale della suddetta provincia, incarico ricevuto nel 1631. Nel 1635 venne eletto terzo definitore generale ed il 23 aprile 1638 dodicesimo preposito generale dell’Ordine dei Carmelitani scalzi d’Italia8. Resse abilmente la sua Congregazione religiosa per quattro anni. Durante il suo mandato pubblicò una Epistola pastoralem de dignis praelatorum electionibus faciendis (14 luglio 1639). Nel 1646, terminata l’esperienza di guida dell’Ordine, ritornato stabilmente a Napoli fu rieletto provinciale di questa provincia e nel 1650 priore del convento Chiaia. L’anno seguente, il 12 luglio, morirà in fama di santità a Palermo dove era stato inviato in qualità di visitatore generale.
Se le notizie fin qui esposte, con le relative date, sono state desunte dai cataloghi presenti nell’Archivio generale dei Carmelitani Scalzi di Roma, una biografia in latino del p. Filippo di San Giacomo è presente all’interno dell’Enchyridion chronologicum Carmelitarum Discalceatorum Congregationis Italiae, sub titulo S.P. Eliae Prophetae digestum a P. Eusebio ab omnibus sanctis definitore provinciali provinciae romanae, ac ejusdem congregationis historico generali ad Eminentissimum, ac Reverendissimum Principem D. Nicolaum Judice (pp. 247-252), stampato a Roma nel 1737. Il testo è un elogio preparato a poco più di cinquant’anni dalla morte del religioso che ne ripercorre la vita e le virtù collocandolo tra le figure di rilievo dei primi anni di vita della Congregazione carmelitana d’Italia.
Di seguito ne riporto, per la prima volta, la traduzione in italiano9 portando alla luce la vita di uno dei figli più illustri di Pescosolido e dell’intera diocesi10.
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«In quest’anno (1651) morì a Palermo, in età avanzata e venerabile per il merito di molte virtù, il Reverendo Padre Nostro Filippo di S. Giacomo mentre, per incarico del Preposito Generale, visitava quella Provincia di Sicilia. Era nato a Pescosolido nel Lazio, presso la città di Sora e sotto il Vescovo di detta città, da genitori del luogo distinti ed onesti. Dal loro insegnamento imparò fin da fanciullo a coltivare la pietà ed a custodire la sua anima nel timore del Signore. Successivamente, ascoltando i primi insegnamenti, pose le basi della sua futura virtù. Infatti, incline per una certa bramosia alle cose divine, soleva intervenire spesso in Chiesa alle sacre funzioni ed amante della solitudine si applicava con diletto alle preghiere rivolte a Dio. Prima che sentisse ribellarsi la sua carne, sottoponendola al freno della ragione, con la moderazione del cibo e delle bevande, con il cilicio e i flagelli, la teneva lontana dai desideri nocivi. Poiché con un culto particolare venerava la Madre di Dio, salutandola con la preghiera del suo Angelo, soleva entrare da solo ogni giorno in chiesa e con somme preghiere Le chiedeva la scienza dei santi. Un giorno, nell’ora del Vespro, accadde che guardando la lampada, che si era spenta, subito essa si riaccese. Incoraggiato da questo prodigio, con maggiore intensità si raccomandò ai suoi di implorare la divina Grazia per condurlo sulla via della salvezza eterna. All’età dell’adolescenza, mentre a Roma attendeva a studi più impegnativi, ottenne dalla Vergine, che lui venerava con grandissima devozione, la risposta alle sue preghiere in quanto, animato da un fortissimo desiderio di entrare nella nostra Congregazione, il suo Ordine, si affrettò per essere iscritto nel novero dei Novizi di S. Maria della Scala. Era il secondo anno del nuovo secolo ed aveva 19 anni di età. Il venerato Maestro, il Padre nostro Giovanni, avendo osservato che l’ardore del nuovo discepolo poteva tendere a cose sublimi, lo formò con più rigida disciplina alla scuola della Croce di Cristo, con grandissimo frutto di tale opera. Difatti egli, passando i suoi giorni tra tali asperità, riuscì a domare i desideri della carne e con un’abnegazione d’ogni genere in breve, sia internamente che esteriormente, si trasformò in un novello uomo. Mediante l’esercizio dell’orazione, nutrendo la sua anima col giusto delle cose divine, provava le delizie del suo cuore anche fuori il luogo e il tempo da lui dedicato alla preghiera; attraverso la presenza di Dio e al di sopra delle cose sensibili si elevava a contemplare le perfezioni di Dio. Di qui, progredendo di virtù in virtù, secondo la grande aspettativa della famiglia religiosa, fu ammesso ai voti. Era il 2 maggio. Dimesso dal tirocinio ed inviato a Genova per compiere tutto il corso degli studi, essendo quasi uguale ai migliori, apprese le Scienze. Verso la fine degli studi, preso da entusiasmo giovanile per la cura degli Infedeli, si rivolse alle missioni estere dando la disponibilità del proprio nome. Ma, agitato da forti rimorsi di coscienza, perché con tale scelta egli aveva voluto schivare la perfezione dell’ubbidienza, recedette prontamente da tale proposito e, sebbene fosse incline alle missioni, egli mai più le richiese. Perciò i superiori lo impegnarono nelle mansioni di casa. In primo il Rev.do Padre nostro Giovanni, una volta suo maestro, appena eletto Preposito lo inviò a Cracovia per la formazione dei novizi poiché in tale compito eccelleva, in seguito tale incarico lo ricoprì spesso, anche da vecchio. Dopo tre anni diresse il cenobio di Lublino. Messa a posto una nuova fondazione tornò a Roma per partecipare al quinto Capitolo dal quale, stabilite le nuove Province, fu incaricato di curare il convento di Avignone. Ma, poiché a causa dell’avverso clima del luogo versava in pericolo di vita, libero da tale incarico, fu inviato a Napoli, affinché guarisse dalla sua malattia. Egli languiva a causa di una lenta e persistente febbre, allorché quivi dal Preposito, che non sapeva nulla del suo male, ricevette l’incarico di trasferirsi in Liguria per presiedere e dare inizio a un Cenobio Eremitico. Si opposero i medici, minacciandolo di andare incontro a morte sicura. Ma quell’uomo ubbidiente, guidato da uno spirito Angelico e non umano ad apprezzare i comandi del Superiore, si mise in mare ed alle prime ore di viaggio, per merito della sua obbedienza, guarì perfettamente. In quel Convento, avendo trovato dei compagni che avevano come lui la forza per sopportare un così grande carico di impegni, istituì un genere di vita che uguagliasse il rigore degli antichi eremiti. Difatti, poiché ivi non vigevano ancora regole particolari, i compagni chiedevano le regole di vita al loro Priore, aiutandosi tra loro. Di comune accordo avevano suddiviso i tempi della notte in modo che tre o quattro volte si riunivano insieme per pregare, concedendosi appena quattro ore di sonno ininterrotto. L’astinenza dal cibo era rigida, oltre le norme, e preparare qualcosa di cotto era ritenuto a guisa di sacrificio. Le altre asprezze erano uguali. Ciò spinse i superiori a completare gli Statuti affinché tali Cenobi, che accoglievano soltanto i volenterosi, non scoraggiassero per timore quelli che erano di carattere meno forte. A norma della Regola egli diresse una comunità di uomini, per non dire di Angeli, per sette anni, con una prudenza che nessuno non approvò. Dedito alla contemplazione delle cose divine, limitò con discrezione le austerità dei compagni, mentre solo per lui volle che nel suo officio fosse giusto provare l’impeto dello Spirito. Protraeva le sue veglie per molta parte della notte, affinché il sonno non interrompesse la soavità che provava dall’unione con Dio. Dopo le ore del mattino, lasciate andare tutte le altre cose destinate al riposo, vegliava dinanzi al SS.mo Sacramento e vinceva il fastidio del sonno coricandosi per breve tempo sulla pedana dell’altare. Vinceva la golosità, anche nella sua povera mensa, con alcuni stratagemmi. Astenendosi quasi del tutto dal vino, quasi mai estingueva la sete. Usava così severamente cilici, catene e lunghe flagellazioni contro il suo corpo, ormai ridotto ad una estrema magrezza, che l’arbitro della sua Anima riteneva che essi erano parti del suo officio che doveva assolvere. Inviato nella Provincia Napoletana, di recente costituita, l’accrebbe di nuovi cenobi e si rese con ciò ottimamente benemerito verso il comune Ordine. Dopo che era stato a capo del Definitorio, eletto Supremo Priore, visitò quasi tutta la Congregazione e sulla scorta del suo esempio confermò ovunque la disciplina propria dell’Ordine unendo con equilibrata armonia la vita contemplativa con quella attiva. Sostenne con grandissimo zelo il valore della disciplina; l’esempio del suo zelo fu imitato da tutti. Lasciando il governo dell’Ordine, nonostante l’età avanzata e docile all’ubbidienza, non rifiutò di accettare a Napoli la cura dei novizi e nel contempo l’incarico di confessore delle monache che si trovavano lontane dal nostro cenobio di Santa Teresa. In questo tempo mostrò un mirabile esempio di pazienza e di mortificazione verificandosi un fatto provvidenziale e straordinario frutto della Divina Misericordia. In breve il fatto è questo: “il Priore, senza troppi riguardi, gli aveva ordinato che d’estate non si recasse dalle monache se non a giorno inoltrato e tornasse al vespro quasi due ore prima del tramonto del sole e prima della mensa. Egli si comportò sempre così, ma una volta per caso fece ritorno quando la mensa era già finita. Il Priore, volendo Dio mettere a prova il suo servo, durante la ricreazione lo raggiunse mentre rientrava e con grande severità alla presenza di tutti lo accusò di disubbidienza. Ma egli, prostrando a terra la sua veneranda testa canuta, aspettò il segno per rialzarsi e tutto contento si portò a consumare la cena. Ma ecco, per un nuovo esercizio di pazienza, il ministro della cucina, su mandato del priore, poste tutte le cibarie nascoste sotto chiave, si era dileguato in modo da non poter essere rintracciato. Ma, quando il confratello collaboratore tornò dall’orto per preparare una vivanda trovò sopra la mensa della cucina che prima era vuota, vivande per una opulenta cena”. Dopo aver terminato il secondo provincialato, dal Capitolo viene nominato maestro dei novizi e dal nuovo Preposito, eletto l’anno precedente, ricevette l’ordine di visitare la provincia di Sicilia, un incarico che egli, data la sua età avanzata e piena di acciacchi, avrebbe potuto rifiutare. Ma egli non ascoltò né i confratelli, che cercavano di dissuaderlo, né il suo corpo infermo. Prima della partenza affermò più volte che non sarebbe più tornato, tanto che coloro che lo ascoltarono iniziarono a pensare che era stato avvisato dal Cielo della fine della sua vita. Terminata la visita, in procinto di salpare per Napoli, ricevette dal Preposito un nuovo mandato quello di fermarsi a Palermo per tutto il tempo necessario a trasferire le monache di Santa Teresa nel nuovo monastero da poco fondato. E a tale comando si rallegrò fortemente, poiché nell’attuare l’esercizio dell’ubbidienza capì che stava per andare incontro all’ultimo giorno della sua vita. Colpito da una improvvisa malattia, rifiutò ogni cura in vista della speranza di raggiungere una vita migliore, alla quale rivolse la sua anima. Confortato dai sacramenti, ripetendo atti di eroiche virtù, consegnò l’anima al suo Creatore il 12 luglio all’età di 69 anni. Da subito presso tutti prevalse l’opinione della sua santità per il fatto che egli coltivava le virtù oltre la pratica comune e sebbene le nascondesse con delicatezza, per non sottrarre nemmeno il minino di piacere, tuttavia esse si manifestavano a tutta la comunità. Talvolta nei suoi doveri esterni sembrava che l’anima, ispirata da Dio, abbandonasse il corpo e non una sola volta il suo volto apparve mirabilmente illuminato a causa dell’unione in colloquio con il Signore. Alcune volte, non senza intervento del divino lume, penetrava i segreti dei cuori e manifestava i turbamenti di coloro che gli chiedevano aiuto, affinché svincolati dalle insidie del demonio, li potesse più speditamente indirizzare alla méta della perfezione. Per quanto attiene agli incarichi svolti nell’Ordine, dai quali si possono desumere le intime qualità della sua anima, fu grazie a loro che si rivelò come uomo
perfetto in tutte le sue azioni. Nell’austerità della sua vita, quantunque le sue forze vennero meno diventando più debole con l’età, continuò a praticare alla perfezione le regole della comune osservanza. Il tempo in comunità, nell’intimo della sua cella, lo dedicava o in ginocchio all’orazione o seduto sulla nuda terra alla meditazione delle Sacre Scritture. Di qui le sue parole, frutto del suo conversare con Dio, profumavano dovunque e, poiché traevano calore dall’ardore del cuore, stimolavano lo spirito all’amore dei valori soprannaturali. L’ubbidienza, così come la praticò al massimo grado verso i superiori, così la visse come contatto con il soprannaturale nei confronti dei suoi confratelli. Fu esempio per molti compagni sia su come controllare i languori del corpo sia su come nutrire l’anima. Riguardo al governo dell’Ordine, utilizzò sempre il dolce sapore della Carità, conducendo tutti verso il progresso spirituale. Negli affari delle comunità a lui affidate utilizzò enormemente la prudenza, rivolgendosi sempre al Signore con assidue preghiere. La sua umiltà fu conosciuta anche al di fuori del convento allorché rifiutò con fermezza un importante convento posto ad Isola, nel Regno di Napoli, pensando che egli non ne era all’altezza. Poiché qualcuno gli faceva notare che poteva sembrare scortese rifiutare un tale onore che dava lustro al suo Ordine, rispose che per lui era preferibile essere maleducato piuttosto che venire meno agli obblighi giurati dinanzi alla Croce. Conosciuto per queste e per altre virtù, acquisì gloria presso Dio e onore presso gli uomini. Nonostante insegnò brillantemente, diede alle stampe una sola lettera pastorale».
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NOTE
1 L’Ordine dei Carmelitani ha le sue origini sul Monte Carmelo in Palestina. Nel XII secolo alcuni reduci delle crociate, assieme a penitenti, si riunirono presso la Fonte di Elia seguendo l’ispirazione spirituale del profeta e conducendo vita eremitica. Nel XIII secolo la comunità che aveva preso il nome di «Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo» furono costretti ad abbandonare il luogo d’origine tornando in Europa dove nel 1247, con l’approvazione della Regola da parte del pontefice Innocenzo IV, nacque l’Ordine mendicante del Carmelo. Il 28 novembre 1568 in Spagna nasce l’Ordine dei Carmelitani Scalzi, una riforma voluta da Santa Teresa d’Avila con il desiderio di ritornare alla sorgente del primitivo spirito carmelitano. L’Ordine si divise così in due rami: i Carmelitani riformati (denominati scalzi per sottolineare il ritorno alla semplicità) e i Carmelitani dell’antica osservanza che da questo momento vennero chiamati “calzati”. La Congregazione d’Italia dei Carmelitani scalzi, intitolata a Sant’Elia, fu eretta il 13 novembre 1600 dal pontefice Clemente VIII con i primi due conventi di Genova e Roma (cfr. Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. 2, pp. 523-601).
2 I documenti dell’Archivio storico dei Carmelitani scalzi di Roma sbagliano il cognome del religioso: negli Acta è presente “Sarti” mentre un Catalogo dei religiosi del sec. XIX scrive “Sarri”. L’errore è dovuto alla dispersione del certificato di battesimo e dell’originale documento di professione religiosa.
3 La storiografia locale, nelle poche menzioni riferite al p. Filippo di San Giacomo, ha collocato il p. Filippo all’interno della Congregazione Mantovana dei Carmelitani, una riforma interna all’Ordine divenuta Congregazione autonoma nel 1442 (L. Ciccolini, Pescosolido. Tradizione, storia religione, 2001, p. 121, nota 56; D. Antonelli, Gli Ospedali delle parrocchie e degli Ordini religiosi esistenti nella città e nella Diocesi di Sora dal sec. XI al sec. XIX, 2009, pp. 210-213). Non vi è però nessun indizio o documento che conferma tale ipotesi. Del resto i Carmelitani dell’antica osservanza (calzati) che nel 1752 curarono l’edizione della Bibliotheca carmelitana non fanno cenno alcuno dell’appartenenza del p. Filippo alla riforma mantovana, che era comunque una riforma che coinvolse il ramo carmelitano dei calzati, indicandolo espressamente come appartenente ai Carmelitas Excalc. Tutta la vita di questo religioso si svolse all’interno della nascente Congregazione d’Italia degli Scalzi. La tesi degli storici locali, sicuramente all’oscuro delle complicate vicissitudini storiche dell’Ordine carmelitano, è dovuta al fatto che ad Isola del Liri vi era un convento dei Carmelitani della Congregazione mantovana (fondato nel 1508 e terminato nel 1534: L. Saggi, La Congregazione mantovana dei carmelitani, Roma, 1954, pp. 210-211) a cui ad inizio Settecento fu affidata la cura della chiesa di Santa Degna a Pescosolido. Da qui la conclusione che il p. Filippo fosse un carmelitano appartenente a questa riforma. Se è vero che nella biografia in latino del p. Filippo si racconta del suo rifiuto ad essere priore del convento di Insula nel Regno di Napoli ciò non è indicativo della sua adesione alla riforma mantovana visto che i conventi nei quali dimorò e gli incarichi ricoperti furono tutti interni alla famiglia dei teresiani. Si potrebbe ipotizzare che la sua fama fu a tal punto diffusa che gli stessi mantovani cercarono di portare il religioso a dirigere un loro convento, per giunta vicino alla sua terra natia.
4 Bibliotheca Carmelitana (1752), vol. 2, coll. 630-631, p. 164.
5 La fondazione del convento di Sant’Anna è datata 1 dicembre 1584 per opera di Nicolò Doria sacerdote spagnolo che abbracciò la riforma del Carmelo voluta da Santa Teresa d’Avila, il quale giunto in Italia si adoperò per fondare il primo convento carmelitano teresiano fuori dalla Spagna (E. Battaglia, Piacentini S., Il Convento di Sant’Anna e la sua antica farmacia, Genova 2020).
6 Le date con i relativi incarichi ricoperti sono desunte dai seguenti cataloghi: Acta capituli generalis O.C.D. Congregationis S. Eliae, vol. 1: 1605-1641, Roma 1990; Acta capituli generalis O.C.D. Congregationis S. Eliae, vol. 1: 1644-1698, Roma 1991; Acta definitorii generalis O.C.D. Congregationis S. Eliae, 1605-1658, Roma 1985.
7 Nel 1614 il Capitolo generale dei Carmelitani scalzi decise la fondazione immediata di una casa eremitica in Italia, affidando il compito ai religiosi del convento di Genova che scelsero un’area nell’entroterra di Varazze. Il 6 aprile 1616 fu posta la prima pietra della chiesa dedicata a San Giovanni Battista ed il 16 luglio 1618, solennità della Madonna del Carmelo, fu inaugurato l’Eremo, anche se i lavori durarono ancora un quindicennio.
8 Catalogus superiorum gen. O.C.D., 1600-1985, p. 9. Il Capitolo generale che lo elesse preposito generale si svolse a Roma, nel convento di S. Maria della Scala, dal 23 aprile al 10 maggio 1638.
9 La traduzione dal latino è opera dello scrivente pertanto eventuali errori od omissioni sono da attribuire a quest’ultimo.
10 Il p. Filippo di San Giacomo non è l’unico frate carmelitano nativo di Pescosolido. Nel necrologio manoscritto del Settecento sono presenti altri tre carmelitani pescosolidani, segno che la presenza in paese dei frati presso la chiesa di Santa Degna produsse anche delle vocazioni. Questi i nominativi ordinati per anno di morte: 1713 – 16 aprile f. Filippo Maria di S. Giacomo (Giuseppe Guida da Pescosolido, diocesi sorana); 1715 – 30 maggio f. Antonio della SS.ma Trinità (Francesco Ruggieri da Pescosolido, diocesi sorana); 1715 – 9 novembre f. Nicola Maria di S. Giuseppe (Salvatore de Rida da Pescosolido).
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