«Studi Cassinati», anno 2022, n. 2
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di Emilio Pistilli
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Viaggio in Italia (edito da Vallecchi e da Edipem) di Johann Wolfgang Goethe non è tra le opere più celebrate dello scrittore, tuttavia è una lettura che suggerirei a tutti, sia perché ci consente di conoscere appieno la profondità del pensiero e la finezza dell’arte dell’autore, sia perché ci disvela minutamente alcuni squarci di costume dell’Italia di fine Settecento.
C’è una pagina che mi preme segnalare: la cena in casa dei principi Satriano in Napoli, nel marzo 1787, dove facciamo la conoscenza di un personaggio che, pur non identificato, ha attinenza con la nostra terra. Venerdì 9 marzo il Nostro, nel far visita in casa Filangieri, riceve un invito a cena dalla principessa Satriano. Il lunedì successivo si presenta puntuale al palazzo Satriano; viene ricevuto in pompa magna: «Ai lati, dal basso all’alto della scala, una fila di domestici, in ricca livrea, s’inchinava profondamente al mio passaggio. Mi sembrava di essere il sultano nei racconti di fate di Wieland e, seguendo il suo esempio, mi rincuorai. Fui poi ricevuto da altri domestici, di più alto ordine, finché, in ultimo, il più degno mi aprì la porta di un gran salone». Dopo lo scambio di qualche convenevole con il padrone di casa ed alcuni ospiti, vede apparire il personaggio che ci interessa: «Entrò un maestoso benedettino, accompagnato da un frate più giovane. Egli salutò a sua volta il padron di casa e si ritrasse presso di noi verso la finestra. Gli ecclesiastici regolari, soprattutto quelli degli Ordini dall’abito elegante, godono, nell’alta società, di grandi vantaggi. Il loro vestimento indica umiltà e rinunzia e, al tempo stesso, conferisce loro una notevole dignità. Essi possono, senza avvilirsi, dimostrarsi umili nella loro condotta, ma quando si ergono, piace vedere in essi una certa soddisfazione, un compiacimento di se stessi che in quelli di altri stati non si ammetterebbe. Così era di questo benedettino. Io lo interrogai su Montecassino ed egli m’invitò ad andarvi promettendomi la migliore accoglienza».
La presenza come invitato in casa del principe, l’essere accompagnato da un monaco più giovane che non partecipa alla conversazione, l’invito e la promessa della «migliore accoglienza» a Montecassino, ci fanno pensare non ad un qualunque monaco del monastero cassinese, ma ad una personalità di spicco della comunità monastica; e chi potrebbe essere se non l’abate? Andiamo a scorrere l’elenco degli abati di Montecassino e troviamo, tra il 1781 e 1788, l’abate Prospero De Rosa, da Napoli, appunto. Dopo sommarie ricerche presso l’archivio di Montecassino non sono riuscito a trovare notizie di questo abate, ma sembra non vi debbano essere dubbi che si trattasse del nostro misterioso personaggio.
Dalla narrazione di Goethe non possiamo trarre altro che la sensazione di una figura dignitosa e compita, paziente ed arguta: la conversazione a tavola è tutta incentrata sulle punzecchiate velenose della principessa Satriano al malcapitato benedettino.
La vispa padrona di casa fa sedere accanto a sé il Goethe avendo cura di sistemarsi di fronte ai monaci con l’intento dichiarato di provocarli: «Il pranzo sarà eccellente, dice, tutto di magro, ma molto buono; io v’indicherò quanto c’è di meglio, di più scelto. Ma devo prima tormentare un po’ i monaci. Non posso soffrire questa specie di gente: pigliano ogni giorno qualche cosa della nostra casa. Tutto quel che abbiamo, dovremmo mangiarlo con i nostri amici». E siamo solo all’inizio. La principessa ne dirà tante che finirà per scioccare il nostro autore. Servita la zuppa il monaco si pone a mangiare con “aria modesta”, ma ecco l’irriverente sarcasmo della principessa: «Prego, non fate cerimonie, reverendo, se il cucchiaio è troppo piccolo ve ne farò portare un altro più grande. I nostri reverendi sono abituati a mangiare a grossi bocconi».
Il benedettino parve non cogliere la provocazione e si limitò ad osservare che «in casa della principessa regnava un ordine così perfetto da rimanerne soddisfatto non soltanto lui, ma qualunque altro ospite, anche il più ragguardevole».
Ma seguiamo il racconto di Goethe: «Furono portati in tavola i pasticcini; il frate ne prese uno solo. La principessa, gridando, lo invitò a prenderne una mezza dozzina, aggiungendo che egli ben sapeva come si digerisse facilmente la pasta sfoglia. Il saggio e accorto padre prese ancora un pasticcino ringraziando la dama della sua benevolenza premurosa, come se non avesse compreso lo scherzo atroce. La grande pasticceria dolce fu una buona occasione per maggiormente eccitare la cattiveria della principessa. Avendone il frate presa una porzione, ne cascò anche un’altra nel suo piatto. Ella non si tenne dall’esortarlo a prenderne ancora una terza aggiungendo, “sembra che vogliate porre buone fondamenta!”». Il monaco risponde con molto garbo: «Quando si forniscono dei così eccellenti materiali l’architetto ha da compiere un facile lavoro».
Il discreto Goethe, conversando con il vicino Filangieri, mostra di non prendere parte a quello scomodo dialogo. Ma il racconto prosegue: «Durante il nostro conversare i buoni padri non furono lasciati un momento in pace dalla petulante insolenza della mia vicina. Soprattutto i pesci i quali, per rispettare la quaresima, erano stati preparati in forma e con aspetto di carne, divennero fonte inesauribile di osservazioni e commenti irreligiosi ed immorali, né si mancò di trovare giusto e di celebrare il gusto della carne confortandosi di potere almeno godere della forma, poiché era proibita la sostanza».
Il nostro viaggiatore si dissocia nettamente da quello scherzo di cattivo gusto affermando: «La sfrontatezza e l’audacia hanno questo di particolare: sul momento rallegrano, perché sorprendono, ma raccontate ci offendono e ripugnano».
Al termine del pranzo la principessa, completamente calmata, dice: «Lasciamoli, questi monaci, trangugiare in pace il Siracusa; non riesco a tormentarne alcuno, non dico fino alla morte, ma nemmeno fino a fargli perdere l’appetito».
Non so se l’abate sia mai più tornato in quella casa: ne dubito. Per la cronaca Goethe non approfittò dell’invito dell’abate a recarsi a Montecassino: non vi è mai andato.
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* «L’Inchiesta», a. IV (1996), n. 1, p. 12.
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