La ricostruzione della Chiesa di Sant’Antonio a Cassino nel dopoguerra: la testimonianza dell’arch. Giuseppe Poggi.

«Studi Cassinati», anno 2022, n. 2
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di Andreina Poggi

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La ricostruzione della Chiesa di Sant’Antonio, a Cassino, è frutto dell’impegno e dell’estro artistico di mio padre, arch. Giuseppe Poggi, funzionario del Genio Civile, addetto alla ricostruzione di Montecassino e della zona di Cassino dal 1944 al 1954. Prima di partire per Bologna, dove aveva deciso di trasferirsi, scrisse un libro, L’avventura di Cassino, che presentò a un concorso letterario per il decennale della ricostruzione, nel 1954. Il manoscritto, tuttora inedito, è un’interessante cronaca dei suoi 10 anni di vita a Cassino, dalla decisione di arruolarsi nel Genio Civile, dopo un’importante attività professionale a Roma, Sanremo e altre città d’Italia, al suo arrivo a Cassino, che lo colpì per l’aspetto desolato ma affascinante della città distrutta, alla descrizione dell’eterogenea comunità del Genio Civile di Cassino, paragonabile all’odierna protezione civile dopo i terremoti e i disastri naturali, alla commossa frequentazione della comunità monastica di Montecassino e all’amicizia con alcuni monaci. Mio padre fu incaricato per prima cosa della progettazione del Conventino, destinato ad abitazione dei monaci, e poi di interventi di ricostruzione dell’Abbazia e di alcune chiese, le più importanti delle quali furono la Chiesa di Sant’Antonio a Cassino e quella di San Sebastiano a Sant’Elia Fiumerapido, per sempre nel suo cuore. Si occupò anche del Piano di ricostruzione di Cassino e della Mostra del 15 marzo 1944 che doveva illustrare alle autorità governative ed ecclesiastiche le attività di ricostruzione, già in atto. In tutto questo, le circostanze lo portarono ad abitare a Sant’Elia Fiumerapido, nella casa dei miei nonni, requisita dal Genio Civile, ad innamorarsi di mia madre e a sposarla, nel 1948. La sua vita familiare, tra Cassino e Sant’Elia, fu sempre intrecciata con le complesse vicende della ricostruzione. Lui le visse con grande passione e impegno, innamorato della gente e dei luoghi e convinto di poter dare una forte impronta artistica. Un po’ deluso dalla realtà, nel 1954 decise di trasferirsi a Bologna, portando con sé la famiglia, e così iniziò un’altra fase della sua vita. Ma il legame con l’Abbazia di Montecassino, Cassino, Sant’Elia e il Frusinate non si è mai spezzato.

Nel libro il tema della ricostruzione della Chiesa di Sant’Antonio gioca un ruolo importante, è citato numerose volte, sin dall’inizio, ed è oggetto del capitolo finale, n. XVI La Chiesa di Sant’Antonio1, una dichiarazione d’amore per la città e un testamento spirituale per i cassinesi. Ecco come ne parla:

«La chiesa di Sant’Antonio merita un capitolo a parte perché è l’unica opera di un certo impegno da me iniziata e portata praticamente a termine a Cassino. I lavori, per scarsità delle somme di volta in volta disponibili, vennero eseguiti con grande lentezza, frazionati in molti lotti, e durarono, non per colpa mia, quasi sei anni, tanto che la storia di questa chiesa è un po’ la storia della ricostruzione di Cassino. Durante tutto questo tempo la fabbrica fu tallonata, passo per passo, data anche la sua posizione centrale molto in vista, da una critica non di rado mal basata e malevola nella quale si distinse anche qualche corrispondente locale che ne aveva fatta la palestra per i suoi “pezzi di colore”. Del resto questa cosa, dimostrando l’attaccamento dei cassinesi per la loro bella chiesa, mi fece anche piacere.

Ho già detto in altra parte come, se fin dagli inizi della ricostruzione, io avessi voluto defraudare Cassino di una delle sue poche architetture superstiti e distruggere cioè tutta la bella decorazione settecentesca del tratto di chiesa rimasto in piedi, adottando una linea decisamente moderna, tanto all’interno che all’esterno, avrei ottenuto, con un decimo di lavoro, certo un risultato architettonico più brillante anche se, magari, più banale. Invece io mi impegnai per voi, miei cari cassinesi, per anni e anni nella temeraria sfida agli architetti moderni dicendo: “Voi ottenete un certo tipo di chiese moderne praticamente modernizzando il Romanico? Io allora voglio dimostrarvi che si può con eguale lusinghiero risultato, scostandosi anche da quella certa monotonia del vostro nuovo stile, tradurre in linguaggio moderno lo spirito settecentesco se non addirittura quello barocco!”.

La storia di questa vostra chiesa è anche la storia di un qualsiasi artista alle prese con i tanti fatti estranei che rendono ardua la realizzazione di un’idea architettonica costringendolo a successivi compromessi e a sempre nuove creazioni. Nel caso particolare il legame era dato dalle ferree norme del nostro ufficio che non lasciavano troppa libertà in un lavoro che aveva assunta una veste di eccezione. Chi si è trovato a dover dirigere lavori di natura artistica inquadrandoli nella prassi burocratica che non varia nel caso di un’opera d’arte architettonica come nello scavo di un canale di bonifica, sa in quali difficoltà io fossi impegolato. E se io mi dilungo su queste “difficoltà” è per mettere in evidenza appunto che, con l’inserimento nel Genio Civile degli architetti (che sono qualche cosa di diverso dai geometri e dagli ingegneri puri e semplici per la natura prettamente artistica delle loro funzioni), il Regolamento piuttosto decrepito del Genio Civile dovrebbe essere modificato di conseguenza.

Cara e bella chiesa di Sant’Antonio. Io mi ricordo quando ti vidi rudere, arrivando a Cassino! A fianco di te un carro armato carico ancora di insidiose mine tra i ruderi di un portone e, dietro l’abside, ancora sporco dalle ruote di un cannone tedesco che vi si rintanava, un superstite locale a cui tu chiesa avevi fatto scudo. Ricordo il sorriso lievemente sarcastico di certi alti prelati a me troppo superiori quando il primo progetto tuo, disegnato in baracca un po’ alla meglio al lume della lampada a petrolio maleodorante fu esposto alla Mostra che si tenne il 15 marzo 1944 a Cassino!

Carro armato davanti a S. Antonio spogliato di parti metalliche e utilizzato per affiggere manifesti.

Ricordo l’episodio del mio ritorno da Roma dove ero stato a recuperare questo tuo primo progetto che si era perduto e il tratto che feci a piedi sotto la pioggia. Ricordo infine l’inizio dei lavori e poi le prime tribolazioni per il lanternino della cupola che l’impresa si era intestardita a fare diverso di come poi gli feci fare o per certe tinte sbagliate, eccetera, le varie soluzioni che ideai per il tuo battistero che è uno dei motivi nuovi da me introdotti nella chiesa e la disillusione provata quando il fonte battesimale che doveva essere ottagono su pianta ellittica tornò da Carrara tornito secondo il diametro minore, che lo svisò completamente.

Ricordo la visita che facemmo a Napoli insieme a S.E. l’Abate, che aveva scoperto da un antiquario un autentico altare settecentesco che acquistammo superando notevoli difficoltà amministrative, per la tua abside, e le inutili, interminabili discussioni per convincere chi nella chiesa comandava, a rialzare l’abside di tre gradini, come in antico quasi a guisa di palcoscenico sacro e a collocare l’altare al centro dell’abside stessa, come in antico, invece che in fondo. Fu un triste risveglio quando ci accorgemmo che quell’altare bellissimo, concepito per qualche piccola chiesa napoletana o per qualche cappella, con la sua massa e con la sua decorazione pregevole ma minuta, nel tuo grande vano, figurava molto poco!

Cominciò da quel momento la “battaglia per i tuoi interni”, da me persa clamorosamente quando il buon parroco, Dio lo abbia in gloria e scusi l’irriverenza, cominciò a raccogliere fondi e a far decorare la chiesa, di sua iniziativa, da un bravissimo decoratore locale che, con arabeschi, grottesche, finti marmi, cassettonati e vistose scritte, opere tutte ottime ed egregiamente riuscite, ma impiegate come e dove non dovevano essere impiegate, snaturò penosamente le bellissime linee dei tuoi interni.

Lavori di ricostruzione.

Cito questi fatti perché analoghi a quelli che sono capitati e possono capitare altrove tutti i giorni, data la mentalità del Clero, per mio giudizio altrettanto autoritaria quanto distante dall’autentico sentimento artistico. Ed è un altro dei miei insuccessi il non avere potuto curare abbastanza nel campo artistico la bella terra del Cassinate».

A questo punto mio padre si dilunga sulla necessità di integrare il potere in mano alle Commissioni pontificie, che operavano con un «Sistema di tutela artistica delle chiese centralizzato» con un «Sistema di tutela periferico» da riorganizzarsi intonandolo e potenziando l’organismo già esistente. Questa, secondo lui, sarebbe stata la maniera ottimale di agire.

«Nella fattispecie, io ero per la Chiesa di Sant’Antonio uno di questi “elementi periferici” sotto il quale lo stesso bravo decoratore locale che aveva fatto i finti marmi e le grottesche sarebbe stato ben contento di poter lavorare, come ha lavorato con sua e mia soddisfazione lo stuccatore di San Donato che mi fece gli stucchi interni ed esterni, e avrei potuto fare senz’altro un bel lavoro anche per la decorazione interna se come fiduciario periferico fossi stato dalla Commissione centrale potenziato.

Per quanto riguarda gli esterni, una cosa che non era facile a decidere, fu la scelta delle tinte. Ricordo che dovendo partire per una breve licenza lasciai detto al pittore che il colore del campanile di quella prima chiesa ricostruita a Cassino avrebbe dovuto riprendere quello della terra dei campi. Avevo infatti notato che nel cassinate i campi hanno un certo colore bruno che par quasi una tinta fredda ma che, colpito dal sole, sfavilla come fosse tanto oro. Il pittore non ha perfettamente imbroccata questa tinta, ma neanche se n’è scostato troppo. A qualcuno potrà essere spiaciuta ma a me piace moltissimo.

Molti furono scontenti anche della mia idea di inserire in un’apposita parete della Canonica sulla Casilina interessantissimi frammenti di capitelli e di altri elementi decorativi e architettonici trovati tra le macerie della chiesa e del campanile. Non vi so dire quanto mi dispiacque la campagna che mi si sollevò contro e nella quale trovai dalla parte mia solo S.E. l’Abate. È curiosissimo che mentre in quel tempo si costruiva ad esempio un grande convento di architettura, secondo me, banale, spendendo per i soli paramenti in pietra da taglio qualche decina di milioni, tra l’indifferenza assoluta dei cittadini se non con la tacita loro approvazione, questa specie di ”artigiano dell’architettura” che sarei io (non mi voglio neppure chiamare architetto perché sotto il Genio Civile non ci possono essere artisti) aveva i soliti sapientoni alle calcagna passo per passo. Per conto mio sono molto soddisfatto di questo omaggio all’architettura della vecchia chiesa, che ho voluto far fare dalla chiesa da me ricostruita su stile modernizzato, chiesa che ricorda le antiche linee, ma che è intonata, di questo almeno mi si deve dare atto, alle architetture dei palazzi moderni dell’INA e dell’INAIL.

Frammenti di capitelli inseriti nel muro (elaborazione di Valentino Mattei).

Altra preoccupazione grave, per i riflessi più amministrativi che estetici, fu quando mi decisi a cambiare nel campanile la forma dei quadranti dell’orologio. Quelli attuali, riproduzione stilizzata di un concetto barocco, pur non essendo troppo leggibili, per lo sbaglio dei numeri romani anzi che arabici, soddisfano molto il loro autore.

Il campanile avrebbe dovuto essere sormontato da una grande statua simboleggiante Cristo Risorto con un’allegoria della rinascita di Cassino, già, con limitatissima spesa, ordinata a Carrara su bozzetti da me forniti, che non poté però essere eseguita per ragioni amministrative.

Ho piacere si sappia che salvo qualche innegabile effetto difetto dovuto alle limitazioni del volume che potevo costruire e al rialzamento oltre il previsto del campanile per ragioni di visibilità dei quadranti, che rende troppo esile la massa del campanile, guardata di fronte, sono soddisfatto di questa mia opera a cui sono inoltre affezionato perché l’ho veduta venir su a poco a poco dalla terrazzetta di casa mia».

 

Successivamente, mio padre ricorda che:

«Nel 1949 Cassino già aveva cambiato faccia. Il Genio Civile aveva all’attivo oltre 450 alloggi, altri 150 ne avevano costruiti e riparati i privati, la UNRA altri cento, centoventi le Ferrovie dello Stato e dieci il dono svizzero. Erano parzialmente già in funzione nel 1949 i principali edifici pubblici: Carcere, Tribunale, Palazzo degli Uffici comunale e governativi, Liceo ginnasio, scuole elementari, l’ambulatorio del villaggio svizzero con la relativa piccola scuola di legno, alcune cliniche private, l’orfanotrofio delle Stimatine, la Chiesa di Sant’Antonio, la Stazione Ferroviaria, diverse fabbriche di laterizi e di mattonelle di pavimento e simili, la pista del campo sportivo, ecc. Erano inoltre in costruzione un gran mattatoio, un grande cinema teatro chiamato poi Arcobaleno, l’Ospedale, ecc.

La chiesa di Sant’Antonio, mancante ancora di canonica, rifiniture interne ed esterne nonché del campanile, fu in quel tempo completata con gli stucchi interni riusciti molto bene, ad opera di uno stuccatore che avevo pescato a San Donato presso Sora.

Era in corso a quel tempo l’approvazione della Perizia del campanile e del rustico della canonica e annessi. Perizia che era stata tutt’altro che facile perché l’allargamento della Casilina aveva tagliato una fetta di circa tre metri nel fabbricato che dovette così schiacciarsi addosso alla chiesa, tanto che il campanile dovette essere ricavato dentro la canonica e i piani inferiori del campanile stesso divennero scala della canonica.

A quel tempo Cassino veduto dall’alto dava già l’impressione di una discreta cittadina e l’effetto era maggiore per chi aveva negli occhi ancora la zona costellata da crateri di bombe con l’acqua stagnante».

 

In conclusione:

«Quando in seguito, crollata ogni mia speranza di potere in pieno e senza intralci mettere a disposizione della rinascita del cassinate la mia esperienza di architetto, cominciai a diventare scettico, due soli lavori di chiese continuarono ad appassionarmi, quello del Sant’Antonio a Cassino e quello del San Sebastiano a Sant’Elia.

Non crediate di scorgere delle ampollosità e della vanagloria in questo mio lungo racconto che per forza di cose ha dovuto essere, apparentemente, imperniato tutto su me stesso e tutto in prima persona! Io sono un pover’uomo.

Lascio a voi, malvolentieri, miei cari cassinesi, la chiesa di Sant’Antonio che penso non abbiate ben compreso, mentre con profondo dolore lascerò a Sant’Elia incompiuta quella di San Sebastiano».

 

Spero che questo articolo sia utile a chi vuole conservare la memoria del passato, ma guardando al futuro. In particolare non si possono tacere le analogie con quanto avvenuto per la ricostruzione di Cassino e dintorni, con quello che si deve affrontare ai giorni nostri dopo terremoti e calamità naturali, con maggiori mezzi tecnici, ma minori risultati. Forse la storia avrebbe qualcosa da insegnare.

1 Il testo è stato utilizzato in parte da Chiara Mangiante, La Chiesa di S. Antonio a Cassino, Cdsc-Onlus, Cassino 2017.

 

 

Si ringrazia vivamente Andreina Poggi per aver voluto mettere gentilmente a disposizione di «Studi Cassinati» alcune pagine del libro del padre che offrono un ulteriore tassello della storia della ricostruzione di Cassino.

Il Cdsc-Aps intende farsi promotore della sostituzione della lapide apposta lungo il muro esterno della chiesa di S. Antonio per inserire il nominativo dell’arch. Giuseppe Poggi al fine di ricordarlo tra i principali protagonisti della riedificazione del sacro edificio e per specificare che i frammenti opportunamente ricollocati provengono da tutto il sacro edificio.

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