«Studi Cassinati», anno 2022, n. 2
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di Piero Ianniello
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Cristoforo Sparagna, uno degli artisti più poliedrici a cui il nostro territorio ha dato i natali, è oggi praticamente dimenticato, e anche in vita non aveva ottenuto miglior successo: spesso non considerato dai suoi contemporanei, né dai suoi stessi compaesani nonostante le sue opere visive fossero state esposte in varie parti d’Italia, incluso Milano e Roma, ed erano arrivate negli Stati Uniti, a Philadelphia, Pennsylvania, e New Jersey. Anche la sua opera letteraria aveva ottenuto critiche positive da persone come Benedetto Croce, Elio Vittorini e Italo Calvino.
Sparagna era nato a Minturno nel 1905, e nello stesso luogo è morto nel 1983. È stato sempre soprannominato Il Minturnese ed è più conosciuto come pittore e scultore che come romanziere e poeta.
In questo articolo ci concentreremo sull’opera letteraria.
L’opera letteraria
Alla morte di Cristoforo Sparagna, il figlio, come racconta lui stesso, si è ritrovato sommerso dagli scritti del padre: «Mi sentivo schiacciato dalla valanga di opere, carte, scritti, pensieri da lui lasciati»1. È l’imponente eredità letteraria di uno scrittore prolifico, e forse poco organizzato. Si tratta di raccolte di poesie, poemi e romanzi ma di opere portate a compimento ce n’erano poche. Ancor meno quelle pubblicate (e quest’ultime quasi tutte a spese dell’autore stesso).
In prosa: Romanzi
L’opera narrativa di Sparagna si compone di una trilogia di romanzi che raccontano la saga della sua stessa famiglia, nella Minturno a cavallo tra ‘800 e ‘900. A far da alter ego all’autore è Francesco Montagna, la cui nascita conclude il primo romanzo (Era calmo il mio paese, Edizioni del Rifugio 1968), e di cui si segue la crescita nel romanzo successivo (L’amena contrada, Edizioni del Rifugio 1979) e che infine si definisce nel terzo (Il trionfo della divinità, inedito).
Si tratta di romanzi dalla trama esile, quasi fosse solo il pretesto per offrirci un affresco in cui l’artista ha voluto immortalare un tempo ormai in via di scomparsa.
«Non vi era vista più graziosa di questa, della ‘pacchiana’, cioè, con la culla in testa, a cui si levavano, come anse di una ‘cannata’ le braccia late, alate per le camicie a sgonfi che portavan le donne, e ch’erano tutte finemente pieghettate, soprattutto quando si trattava del vestimento festivo e die quelle giovani che ci tenevano a figurare.
La Carmina aveva da tempo ismesso di portarla» … (L’amena contrada: 2)
«Giuseppe si era recato in quella parte di mercato riservata agli animali. V’erano lungo il muro di S. Lucia branchi di maiali che strillavano perché i compratori li tiravano per le zampe per vederli e i padroni per lasciarli vedere.
V’erano asini coi loro basti a terra, col muso nel fieno. Essi voltavano la groppa e mostravano le natiche solide e i garretti ben fatti. Scodinzolavano, scalpitavano, ogni tanto sollevavano il capo, facendo una smorfia coi loro musi bianchicci, battevano le orecchie, si voltavano, mostrando un occhio dolce e paziente» (Era calmo il mio paese, p. 135).
I tanti personaggi di paese sono tratteggiati attraverso i loro comportamenti abitudinari, senza nulla di eclatante, talvolta senza che davvero accada nulla per tutto l’arco della trilogia.
«Zia Giovanna, dalla figura magra e lunga, stava seduta su un gradino del vicolo, a lato della porta di casa, e conversava con la Lucia, moglie di Pòllo, la quale si tratteneva spesso a parlottare con la vecchia. Ora le stava raccontando la lunga storia della sua conversione alla fede, quando Zia Giovanna scorse la nuora che saliva, col canestro sul capo e l’orcio sotto il braccio, la quale, pur così carica, aveva l’andatura lesta della giovane, i cui movimenti rivelano quella forza nativamente vigorosa e sana delle contadine. Fermatasi un momento davanti all’uscio dell’orto (che si apriva dirimpetto alla casa, dietro un muro, sul quale passeggiavano le galline) Zia Giovanna potette osservarla con compiacenza. Aveva le braccia scoperte, e ben tornite e il viso tondo e sorridente» (Era calmo il mio paese, p. 9).
Eppure sono tutti personaggi essenziali, al pari dell’ambientazione fisica: i vicoli, la terra, la chiesa. È la società rurale che ruota intorno a pochi centri di coesione (la famiglia, il lavoro, la religione, i mercati), ma offrono tutti rapporti estremamente saldi e indissolubili
«Ardeva una piccola lampada davanti al quadro della Madonna e a quel tenue lume e a quello della lucerna che le arrossava il volto tuttavia giovanile, così vicino com’era al suo viso, guardò la vecchia, che non accennava a parlare. Quindi disse lei: – Ti serve qualcosa ma’?
No, fra poco mi alzo anche io e verrò a darti una mano.
– No, ma’, statti coricata. È troppo presto!
Si ritirò e continuò a scendere la gradinata. Le pareti sembravano chiuderla, tanto erano strette. Quindi si diede subito ad accendere il fuoco per scaldare l’acqua. Teneva tutto preparato dalla sera precedente: la madia piena di farina cernita e quanto occorreva.
Per ultimo preparò quei taralli che aveva promesso a zia Giovanna. Dopo qualche ora fu tutto pronto: i pani tagliati e arrotondati l’uno accanto all’altro, su ciascuno aveva inciso una croce, perché crescessero.
E, coperti, furono lasciti crescere, fin che la pasta non cominciò a incresparsi lievemente alla superficie.
Intanto il vicolo si animava gradatamente. Si sentiva lo scalpiccio dei passi, qualche voce che chiamava, il raglio di un asino, a cui rispondeva un altro da una stalla più lontana. Cadeva una pioggia persistente, tramando di fili chiari i vani scuri delle finestre» (L’amena contrada: 347-348).
De Il trionfo della divinità, l’ultimo pezzo della trilogia, rimasto inedito, si possiedono solo le informazioni che il figlio ci offre nella monografia dedicata alla figura paterna. Si tratta del romanzo che segue le gesta di Francesco, ormai adulto nel dopoguerra, e divenuto un professore. Una mattina viene arrestato, senza spiegazioni, e quando finalmente finisce davanti ad un giudice, protesta la sua innocenza accusando la moderna società di aver perso la solidarietà e di esaltare l’egoismo. È il romanzo che più di tutti rappresenta l’illusione e poi la delusione dell’autore. L’illusione di essere finalmente riconosciuto come un artista (un lungo sogno in cui il protagonista Francesco può finalmente dire la sua e la sua grandezza viene riconosciuta da una popolazione che lo osanna e rispetta) e la conseguente delusione (il risveglio dal sogno e il ritorno alla mesta quotidianità).
Altri scritti in prosa
Al di fuori della narrativa, e della poesia di cui ci occuperemo più avanti, Sparagna ha scritto varie altre cose, e alcune sono state anche pubblicate e conservate ora in qualche biblioteca in Italia.
Per il teatro c’è Paganus (Accademia Archeologica Italiana, Torino 1967), una tragedia in versi alla maniera greca, come ci informa il figlio, che vinse un premio per il teatro nel 1965. Per le opere di critica letteraria, pur mancando una sistematizzazione degli interventi di critica, si ricorda un libro che ha avuto una certa diffusione su tutto il territorio nazionale, si tratta de I lirici greci da Callino a Simonide di Ceo (Milano, Ceschina 1966), in cui l’autore ha fatto sia le traduzioni che le note esplicative e l’introduzione.
Esiste infine anche una pubblicazione che raccoglie il discorso tenuto da Sparagna per un evento svoltosi nel suo paese d’origine: La Sagra delle regne a Minturno: Il discorso di C. S. all’inaugurazione della sua Mostra (Tip. Tipografica-Editoriale, Napoli 1955).
In poesia
Numerose sono le opere di poesia pubblicate da Sparagna. Si parte da Ninna nanna del sole (Clet, Napoli 1939), una raccolta introvabile, ormai. Quel che si conosce lo si conosce attraverso gli scritti di Vincenzo, il figlio, che scrive: «era evidente l’ardimento fiducioso del giovane poeta alla ricerca di una strada verso la ‘gloria’». Nel dopoguerra Sparagna pubblicò Terra e Cielo (Raimondi, 1952). È un’opera più matura rispetto alla prima raccolta. Qui i temi si fanno più meditati: il timore per un mondo che sta cambiando porta il poeta a rifugiarsi nelle atmosfere dell’infanzia. La raccolta vinse un premio nazionale di poesia «La Ginestra» che gli consentì di essere annoverato nella Storia della Letteratura Italiana (La Prora, Milando 1952) di Giulio Dolci tra i giovani poeti emergenti.
Sull’altra riva (C.A.M. editrice, 1957) è una raccolta di poesie in italiano, latino, inglese e francese, i cui temi sono ancora quelli dei membri della famiglia e della contemplazione della natura. The spirit of the earth. A poem in the Bardic Manner (Laurenziana 1961) è invece una raccolta in lingua inglese, nata per omaggiare la giovane poetessa Frances Fleetwood, che trascorse un periodo di tempo in Italia a contatto con Sparagna (si tratta peraltro della segretaria del generale Nobile, noto per le sue traversate in dirigibile, e che ha vissuto in una villa sul litorale di Scauri fino alla morte). Le composizioni sono sempre sui temi soliti con un ulteriore malessere dovuto alla sempre più imperversante società dominata dal materialismo e con l’aggiunta di alcune nate sulla scia dell’amicizia con la giovane poetessa.
Tra le opere di poesia di Sparagna, ci piace concentrarci sulle due più tarde. Sia perché sono quelle più mature, ma anche, e soprattutto, per l’uso della lingua dialettale. Un’innovazione stilistica che non ha precedenti, che per la prima volta fa assurgere il dialetto minturnese a lingua poetica.
Canti di Minturno (C.A.M. editrice 1959) è un’opera in cui Sparagna, attraverso il recupero della lingua dialettale, sembra dare libero sfogo ai suoi sentimenti più forti, quelli legati ai suoni e le immagini della terra nativa. È una raccolta di ‘canti’, appunto. Storie, racconti, filastrocche, fiabe, sembra quasi che la parola canti debba essere intesa come ‘conti’. Ecco l’incipit di uno dei canti, Marta e la fede:
Ce vo la fede a te pote’ sarva’
Nun basta che alla messa uno ce va.
Chi te’ la fede, tutto po’ ave’
Chisto racconto te lo fa sape’.
A nu paese lontano ‘na vota
Ce steva ‘na femmena divota…
È un incipit che anticipa già la morale con cui si chiuderà il racconto, e poi l’inizio in tema fiabesco: «’na vota», che potrebbe essere tradotto nel classico «C’era una volta». Sono i racconti della terra minturnese in un tempo a cavallo tra due epoche: quella della civiltà contadinesca, ormai in via di estinzione, e quella materialistica, incipiente, che correva ad una velocità forsennata.
Un’intera sezione della raccolta si chiama appunto Le favole, ma tutta la raccolta propone storie e racconti da cui il poeta trae insegnamento per rifugiarsi poi nel passato, in quella società rurale che ancora gli offre la serenità altrove perduta. Non a caso la seconda sezione si intitola Solitudine e quella successiva Rifugio nativo, quest’ultima aperta da un’epigrafe in latino: «Refugium sit mihi, ubi paterni Dii»2. La struttura dell’opera sembra dunque ripercorrere il percorso di malessere del poeta, afflitto da una società in cui non si riconosce più, cerca rifugio nella saggezza e nella serenità della sua cultura di origine, ma lì sente comunque il dolore per non essere pienamente compreso e riconosciuto dalla sua stessa gente. Infine, non gli resta che rifugiarsi in un passato che è l’unica fonte di benessere, insieme alla contemplazione della natura e degli scenari che il territorio offre. E anche in queste sezioni conclusive della raccolta il mondo di Sparagna si popola di personaggi, che con i loro comportamenti a volte buoni (la generosità dei due amici in Frati de ‘na vota) e a volte discutibili (l’invadenza della donna di Pe’ da cà), offrono comunque l’approdo al poeta per fuggire dalla sua malinconia. Infine, e forse è questa la chiave della raccolta, è sempre presente la figura dei genitori. Emblema della serenità dell’infanzia, di un mondo fatto di fatiche, sì, ma immacolato e spensierato che il poeta sente di dover onorare:
Patutu era come a tutti quanti
gli cuntadini che alla prima stella
metteva la sua sporta agl’aseneglio,
E scegneva che l’aria era chiù bella
e fresca e tremava sulle chiante
gli’ acquale… oh, come tutto era chiù begliu!
(Pe’ da cà)
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Sparagna ha poi voluto sviluppare i temi di Canti di Minturno in un’opera più complessa, e dal respiro addirittura ultraterreno. Probabilmente per conferire ulteriore autorevolezza agli insegnamenti che andava via via acquisendo. Il regno delle anime (Edizioni del Rifugio 1976), che è una rivisitazione in chiave minturnese della Divina Commedia dantesca, è scritta completamente in dialetto minturnese (un’interessante versione ormai arcaica), in endecasillabi in rima alternata. Impreziosita inoltre dai disegni a lapis dello stesso autore.
Da leggere l’intera sezione 2 del canto 1 del Purgatorio, un po’ il manifesto programmatico dell’opera.
O Tea, tu che guidi gli miei canti
Mò a Traetto3 fermate co’ migo:
lassame usà glio mio linguaggio antico
ch’addora come i fiuri degli campi.
Seguitanno i ricordi mei de tanti,
tant’agni fa, allo parlà m’apprico
ch’era de Tata e Mama e chiù non dico,
né dico sue bellizzi e gli soi ‘ncanti.
Saglie a ‘stu modo a te la mia parola,
o Traetto; e come quanno un figlio
ritornenno te chiama, i’ accussi chiamo.
O Tea, cuncidi a me novo cunsiglio,
damme l’idea che chiù autu vola,
pe’ avè’ a cloria addò i’ chiù la bramo,
damme dell’amor tio l’urdema prova.
Sparagna ha strutturato l’opera relativa al suo viaggio di redenzione ultraterreno in tre cantici: Purgatorio, Inferno e Paradiso, aprendo proprio con il Purgatorio. In ciascuno dei luoghi che ha immaginato c’è stato un accompagnatore specifico: il politico minturnese di epoca fascista Pietro Fedele al Purgatorio, il poeta e scrittore medievale Antonio Sebastiani, detto il Minturno, all’Inferno, e Maria, una sua amata, come la Beatrice di Dante, nel Paradiso.
Nella sua visionaria immaginazione, Sparagna ha dapprima voluto che le anime minturnesi del Purgatorio facessero, ad ogni calar della luna, un percorso che dall’antica Minturnae andava sulla collina di Traetto (così chiamata dal poeta stesso nell’opera) fino a inerpicarsi sulla via Sinicata ed entrare nella città e portare gli omaggi alle cappelle votive. E questa è un’originale invenzione di Sparagna: le anime non sono confinate in un mondo ultraterreno, ma sono in giro per il territorio, invisibili, ma comunque presenti.
La bocca dell’Inferno minturnese è invece collocata sul Monte d’Argento. Esattamente dove sorge la «torre mazzecata», l’antica torre di avvistamento medievale, speculare a quella tuttora esistente a Monte d’Oro, e distrutta dalla Seconda guerra mondiale. L’Inferno è dunque a forma di cono capovolto, da cui si dipanano una serie di caverne in cui soggiornano i dannati. È un inferno esclusivamente traettese popolato da personaggi locali o che qui hanno speso la loro vita. Ma è comunque collegato tramite un cunicolo con l’Inferno universale. È la parte maggiormente avvincente dell’opera visionaria di Sparagna. Proprio come Dante, anche lui ha incontrato decine di anime e su molte di loro ha avuto non poco da ridire. Uno dei temi maggiori dell’opera è quello della denuncia delle malefatte degli esponenti clericali. Accanto ad alcuni venerati (semplici parroci come anche il canonico Sebastiani), ce ne sono un’altra vasta quantità molto mal visti. Oltre al clero, l’attacco del poeta è contro i politici locali:
Ohimmè, dico, “la merda che fa sodo
Alle case de Scauri disfaccia
Voi che avete ‘n cor null’altro voto
Che mio paese veder che si giaccia!
Loschi, ‘gunuranti superbi e avari,
barattieri, infedel’, fornicatori,
ladri, niente d’uman è nei vostri cuori.
Sono presenti accenni anche a politici nazionali, uno su tutti Mussolini, di cui il poeta manifesta un’ampia stima per come ha risanato l’Italia. Allo stesso modo Sparagna spende parole importanti per i re Borbonici, dipingendo l’attacco dell’esercito dei Savoia come un assedio ingiustificato:
Oh come io soffro a contemplà el dammaggio
Che fer le truppe savoiarde al forte
De Gaeta, u’ fino alla morte
Pugnando i valorosi, estremo raggio
Folgorando su la Dinastia
Borbonica, carettono pe’ via.
E tu vessil de gloria iri, Sofia!
Molto interessanti sono invece le notazioni di cronaca locale. Una tra tutte quella relativa a Scauri, la spiaggia, vista come luogo di perdizione
Non credete de sta’ sulla marina
de Scauri”, decette, “addò puttane
e le divote so’ de stesse lane.
E il poeta che voleva scongiurare la costruzione del Lungomare, progetto di cui solo in tempi recenti si è avvertita la nefandezza:
Ben te ricorderai quanno el pueta
Da te venette a scongiurà el dommaggio
Della rovina della nostra spiaggia
E tu mostrasti la tua faccia de creta
[…]
I’ me ricordo ancor quanno croccato
Me ne stào a sognà su’ una de chelle
De rena caora bionde cullinelle.
Un artista anche precorritore di tematiche ancora lungi da venire, dunque. I suoi erano gli anni in cui si optava per espressioni artistiche più informali, ripudiando la tradizione.
I temi
L’intera opera di Sparagna, sia pittorica che letteraria, è in primo luogo un incredibile messaggio d’amore per il proprio paese:
A Traetto
Traetto, a te i’ dedico ‘sti canti
Che dagliu core mio songo fiuriti,
so’ nu mazzu servatico riuniti
in chistu libro de gioia e de chianti.
Co’ mano che me trema a te denanti
Gli metto co’ l’amore che me vidi,
e m’addenocchio a te, si mi cuncidi
de m’accetta’ fra gli toie figli grandi.
T’aggio onorato tutta la mia vita,
mo’ so’ vecchio e chiù nautu non pozz’io
che darte chistu dunu, urdemo fiore.
Faì che pe’ chesta lingua che annammora
Aggia pe’ te la grazia de Dio
De merità da chesta gente ardita
No’ po’ de chello bene che ce ‘oglio io.
(……….)
È in quest’ultima quartina che si racchiude il rammarico maggiore di Sparagna: il non ricevere l’adeguato riconoscimento del suo valore di artista, e di non trovarsi dunque corrisposto nell’affetto che lui tanto nutre per il paese e i compaesani. È un tema sparso lungo l’intera opera, in particolare in Il regno delle anime, in cui ne chiede conto niente di meno che a Dante Alighieri, che lo esorta a credere nella sua arte, e addirittura a non sentirsi inferiore ai grandi poeti: Non sembrare come el pupillo ‘nnanze a suo magistro! Rimane però l’amore non corrisposto:
Ohimmè”, pensai, “povero Traetto
Mio che a te tanto de amor piglia
Mia arte, e mia poisia che te mette
‘ncoppa a ‘nu tronu, ohimmè, che brutti figli!
Le aspettative e le intenzioni dei versi iniziali (O Tea, tu che guidi gli miei canti / Mò a Traetto fermate co’ migo) vengono quindi smorzate durante il percorso ultraterreno. Situazione che si protrasse fino alla morte, come evidente nelle ultime lettere scritte all’amico Giuseppe Mazzella4: «I miei mi considerano niente di più che un pover’uomo», fino a portarlo alla disperata ricusazione dei propri compaesani: «I miei qua sono tutti ignoranti, cafoni e … delinquenti».
E tutto ciò accade nonostante l’ulteriore manifestazione dell’affetto per la propria cultura di origine: l’uso della lingua dialettale nelle sue opere di poesia di età più matura (la raccolta Canti di Minturno e il poema dantesco Il regno delle anime).
È lui stesso in Canti di Minturno a sdoganare la lingua dialettale, fino a riconoscerne il valore anche per i fini poetici:
È mia openione che glio parla’ traettese è beglio e ricco, onesto e degnitoso come lo stesso parla’ toscano degli seculi Due e Trecento.
E i’ che so’ traettese de nascita e de core, in chisto mio libro voglio dimostra’ chesto scrivenno ‘n puisia e in naturale discurso, che glio dialetto nosto, si avesse autu furtuna, sendo onoarato da ‘no pueta come Dante fue, avrebbe non dico superato, ma pariggiato lo parla’ fiorentino e toscano, deventato, pe’ chesta sola ragione, lo italiano de oggigiorno (Canti di Minturno, p. 11)
Emblematica è in tal senso l’epigrafe (in latino) a A Traetto, componimento di apertura della raccolta Canti di Minturno:
Puer tuum habui eloquiu,
Senex linquo verbum omnium:
Tui ad numeros reverto
Ut ad arva, atque serto
Dum te, tellus, onoro,
Pacem peto, pacem ploro5
Erano gli anni ‘50, e tutti a livello istituzionale in Italia pressavano affinché si parlasse l’italiano, la lingua sovranazionale che da lì a poco avrebbe preso il posto delle lingue locali, grazie soprattutto all’avvento della televisione. È dunque un atto di assoluta originalità, e controtendenza, quello di Sparagna. Che va a contrastare il pensiero dominante della scuola italiana del tempo, che invece faceva di tutto per screditare il dialetto a favore della lingua standard. Ma è soprattutto un atto d’amore per il proprio paese, e come tutte le notazioni locali che Sparagna dissemina nei propri scritti, è un elemento che restituisce l’autenticità della cultura locale:
‘Nfatti, se tu sinti parla’ ‘no vecchio traettese, gliu sinti a racconta’, t’addicrii de vede’ i suoi modi de dice che songo chjini de vivacità e de vrità. Si po’ glio sinti parla’ ‘taliano tu pirdi chell’empressione de vita, è come si unu se mette ‘nu vistitu tìsucu, che pare de stagno, no’ de pagnu, ciò che è brutto a vederse (p. 13).
E va addirittura a contestare l’importanza di dialetti con numeri di parlanti ben più alto di quello minturnese:
Nun ve credete, dunque, vui che jate fore de cà, de fare cosa degna de n’ome cumprensivo e degnitoso, a piglia’, come vui facete, ‘n presitto, lo parla’ degli ati paisi, come fosse chiù civile, chiù beglio. No. È sulo la vostra ‘gnuranza che pe’ pare’ civili parlate furastero: specie lo romanesco (ch’è ‘nu dialetto, pe’ la vrità, assai chino de fumo, matiriale e sguaiato) (pp. 11-12).
Conclusione
Sia la produzione pittorica e scultorea che quella letteraria di Sparagna sono sempre state considerate classiciste nella forma, non incontro allo spirito innovatore del suo tempo – ricco di cambiamenti veloci ed esplorazioni di forme diversificate – in rotta con la tradizione. Sparagna invece vi intingeva i pennelli in quella tradizione, seguendo uno stile neoclassicista, di ispirazione seicentesca (Caravaggio e Diego Velazquez su tutti per quanto riguarda la pittura), ben prima che quello stile fosse riscoperto e valorizzato, anni dopo, quando il ricorso alla tradizione ha permesso di stabilizzare l’ondata confusa di forme artistiche.
L’epoca di Sparagna non poteva dunque apprezzare la sua forma artistica, e questo era evidente sia a livello intellettuale (nonostante alcune critiche positive), e sia a livello popolare (persone che guardavano con ansia al futuro, ripudiando un passato di fatiche, miserie e guerre).
Per l’autore invece le forme classiche sono state dei ganci con il passato. Magari non inteso come il passato poetico, bensì quello della formazione. In tutta la sua opera emerge il malessere per essere uno spirito fuori dal suo tempo, non riconosciuto nel suo valore artistico, e alla continua ricerca di un rifugio nel passato. Le opere di narrativa seguono forme stilistiche ormai superate anche nel tempo in cui Sparagna scriveva, pure qui, le forme con cui si era formato, con cui era cresciuto, e che gli richiamavano l’infanzia. A tratti i romanzi appaiono non sorretti da una trama integra e capace di tenere agganciato il lettore per le 400 pagine in cui si svolge la storia.
Non è questo, tuttavia, né l’obiettivo, né il valore dell’opera di Sparagna. Quest’ultimo risiede nel potente ritratto «traettese» che ci restituiscono i suoi scritti, sia quelli in poesia che in quelli di narrativa. Nelle pagine sembra di vedere i vicoli del centro storico di Minturno pullulanti di vita, di nuovo popolati di gente che con fatica conduceva la sua quotidianità. Se ne sentono i suoni, i rumori, le parlate.
Nelle tue strade argute un tempo di serali colloqui
dopo l’agreste lavoro: sui gradini delle case
passavano i padri, irsuti i petti trasparenti
dalle aperte camicie.
E parlavano un’ora, pima che ad accoglieli stanchi
fosse il letto sonante di foglie di granturco
(A Minturno, dalla raccolta Terra e Cielo)
Nel raccontare le loro vite dure, i loro chiacchiericci, i loro movimenti tra i vicoli, nei campi, Sparagna ci restituisce il sapore di quei tempi, le atmosfere, i sentimenti, gli interessi, le attività, i passatempi. È la Minturno della prima metà del ‘900, quando Scauri era ancora solo un borgo di pescatori, e sulla via Appia passava qualche rara carrozza senza cavaglio. Quando Sparagna faceva probabilmente le sue esperienze in Marina, studiava e cominciava a poetare. E sentiva forte il richiamo del suo paese.
È solo con le composizioni in lingua minturnese che ha trovato la via originale per esprimere tale amore per Minturno. Oltre alle scene, la lingua. Il sapore di un mondo che cambiava in pochi anni dopo essere rimasto pressoché immutato per secoli. Un mondo che scompariva. E Sparagna lo ha voluto fissare, su tela e su pagina, prima che scomparisse per sempre.
Sono quegli stessi vicoli che oggi sono dimenticati, abbandonati e diventati un peso per i proprietari e per il Comune.
È un artista ancora da studiare, e il presente scritto vuole solo innescare l’interesse e la curiosità verso un autore rimasto all’ombra in vita e completamente al buio dopo la morte. Nonostante abbia lasciato una quantità di opere, pittoriche, scultoree e letterarie infinita. E tra queste opere si deve annoverare anche il Rifugio, la casa costruita da lui stesso pietra su pietra (talvolta individualmente scolpite), anch’essa riecheggiante stili architettonici del passato. Un edificio che è ancora sulla collina di fronte a Minturno, sempre in vendita, senza che il Comune di Minturno pensi ad acquisirlo e dare impulso allo studio sull’artista. Un artista minturnese che, quanto meno, ha espresso profondo amore per il suo paese nativo.
NOTE
1 V. Sparagna, Cristoforo Sparagna. Il Minturnese, Frigidaire n. 259, marzo 2020, p. 11.
2 «Sia a me di rifugio – il luogo dove sono i miei dei patrii».
3 Traetto è il nome con cui si appellava la cittadina laziale di Minturno fino al XIX secolo.
4 G. Mazzella, Il triste declino di Cristoforo Sparagna nell’ultimo anno di vita, in «Annali del Lazio meridionale», a. XXI, n. 41, 2021, p. 84.
5 Fanciullo, ebbi la tua parlata – vecchio lascio quella di tutti: – torno ai tuoi accenti – come torno ai tuoi campi di una ghirlanda – mentre te, o terra, io onoro – pace chiedo, pace imploro.
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