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«Studi Cassinati», anno 2022, n. 3
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di Ezio Antonio Grossi*
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Al Convegno dei Sindaci del Cassinate svoltosi a Cassino il 12 novembre – e di cui diamo il resoconto in questo stesso numero – chiese la parola il Sindaco d’uno dei comuni minori, quello di Esperia: un paesino di poco più di duemilacinquecento anime. Il folto uditorio, pur disponendosi a prestar deferente attenzione all’intervento, non supponeva alle prime battute, il grido elevato di commozione dolorosa cui le parole e le rivelazioni di quel sindaco avrebbero trascinato. Per coloro, anzi, che non lo conoscevano personalmente, appariva, quello, un povero sindaco di un povero villaggio, modesto nell’aspetto e nell’abito, sobrio se non timido nell’eloquio, forse mosso da un tantino di ultrapaesana vanità consistente nel voler leggere il proprio nome stampato nei giornali contenenti il resoconto della seduta.
Si trattava invece di un valoroso ufficiale superiore dell’esercito italiano, reduce di due guerre, di un intellettuale, d’un avvocato! Le sue parole non avevano timbro enfatico, non tradivano neppure il dolore dalle cui origini scaturivano, erano parole di sangue pronunziate da labbra stanche perfino di atteggiarsi allo sdegno.
Il Sindaco di Espira si chiama, se ciò può importare, Giovanni Moretti. Bisognerebbe, più che il nome conoscere il volto: un volto, che tra rughe e malaria, è un libro che esprime e riassume, senza necessità di pagine da sfogliare, il martirio della gente della più martoriata terra d’Italia. Ed ecco le cose che disse il Sindaco di Esperia.
Sono venuto qui per aderire alla vostra iniziativa. Approvo ciò che si è detto, ciò che si è proposto, ciò che si è deliberato. E poiché, dai vostri interventi, dalle numerose relazioni, dalle molte proposte di lor signori, rilevo che voi ignorate un particolare problema comune a molti paesi e, più particolarmente al mio, sento il dovere di esporvelo, anzi di denunziarvelo, affinché se ne tenga conto se e quando verranno i benefici provvedimenti per la rivendicazione dei quali siamo qui convocati e riuniti. Si tratta o signori del problema delle cosiddette “donne marocchinate”! Nella popolazione del mio paese, di complessivi duemilacinquecento abitanti si contano settecento donne violentate, cioè la quasi totalità delle donne, tutte ammalate (e non vi dico di quale male) molte morte, altre moribonde. Né vi parlo dei figli – frutto delle violenze – per i quali non si sa se debbano prevalere l’odio o la pietà, la ripugnanza o l’affetto, l’abbandono o le cure.
Ai problemi della casa, della malaria, della bonifica, dello sminamento, della assistenza, comuni a tutti i paesi da noi rappresentati, si aggiunge, per Esperia quelli ora denunziatovi: non una cura, non un medicinale, non un medico specialista si è pensato, e son già due anni, da parte delle cosiddette autorità, di mandare ad Esperia! Si pensi poi che molte delle nostre donne sono giovani, molte giovanissime se non fanciulle; ed il male che portano nel loro sangue si diffonde fra noi in misura paurosa. Si dicano, queste cose a chi fino ad oggi ha finto di ignorare. Così ebbe termine l’intervento del Sindaco di Esperia, Giovanni Moretti. Nell’uditorio vi fu una pausa di silenzio: in quel silenzio corsero, elettrizzandone l’aula, correnti di sgomento e di orgoglio ferito, di sdegno implacabile, di età immensa, di disgusto, infine, e di rivolta, per l’insensibilità di autorevoli personaggi che da Roma a Frosinone pretendono governare una gente martoriata ed offesa con la stessa legge con la quale si sgoverna l’altra gente.
Io scrissi nel numero precedente stigmatizzando una diffida del prefetto al sindaco di Cassino, che noi, ormai, non abbiamo altro che gli occhi per piangere. Esagerai. Aride, ormai sono le nostre ciglia, per tutte le lacrime già versate: aride e asciutte come quelle di Giovanni Moretti che disse, senza dar segni di commozione, le cose più altamente commoventi che io abbia potuto udire fino ad oggi.
Signor prefetto di Frosinone, che vi adirate se il Sindaco di Cassino protesta, con un telegramma, per una mancata assegnazione di vacche! Signor Capo di Gabinetto del Prefetto di oggi e di quello del 9 settembre 1943, che appartenete per nascita, se non per sofferenze alla nostra gente! Signor Medico Provinciale che andate in visita nei nostri paesi soltanto allorché dovete far notare la presenza della vostra alta e magra persona da ministri o sottosegretari distratti e frettolosi! Signor Intendente di Finanza che, per giustificate la mancata assegnazione degli irrisori acconti dei danni di guerra ai nostri conterranei, eccepite la mole di lavoro dei vostri uffici e il pericolo che correte di ammalarvi di nevrastenia! Avete udito? Donne marocchinate! Donne italiane morte e moribonde. Pericolo di diffusione del male. Mancanza assoluta di assistenza, di cure, di medici specializzati.
Sì signori: moriremo senza più telegrafare ad alcuno, senza invocar cure, medicine e medici, senza riscuotere i quattro offensivi centesimi di acconto sui nostri incommensurabili danni; ma non senza dirvi che per sopportar ancora, e fino al giorno della morte, la nostra dipendenza da codesto patrigno capoluogo di provincia, noi desidereremmo, almeno avere il viatico da sacerdoti che non foste Voi».
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* «Il Rapido», 28 novembre 1946, a. II, n. 33, p. 2.
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