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Aggiungiamo queste cosucce all’articolo di Gino Alonzi, comparso su “Studi Cassinati” n. 3 (luglio-settembre 2011), p 225: La Tragedia della Torre.
Dalla intervista del 9 ottobre 2011, fatta da me insieme con l’amico precedentemente citato, ad Angelina Vizzacchero, che nel 1944, quando accadde il triste episodio, aveva diciotto anni.
Le chiediamo se è vero che Maria si buttò per prima nel tubo.
Angelina racconta.
Lei anche se era grande come me, in verità aveva un anno di meno, era terrorizzata dai racconti che si ripetevano sui Marocchini, perciò viveva una vita di continuo spavento.
Eravamo scese nella vasca di carico della Torre, quando sentimmo il rumore dei passi ferrati sopra le nostre teste: la paura crebbe a dismisura, specialmente quando, strette l’una all’altra, notammo che si muovevano le tavole della botola e che potevano scendere immediatamente.
Maria non esitò un attimo: si mise la mano sulla fronte, come per farsi il segno della croce, e si lasciò andare da sola a testa in giù nel tubo di ferro, che aveva un diametro non più di 80 cm. ed era scuro come la pece. Noi altre seguimmo il suo esempio. Non è vero quanto si dice in paese, che si lanciò per farsi coraggio abbracciata alla sorella. Questa si chiamava Antonia ed era più avanti negli anni, infatti ne aveva 34, e morì durante il bombardamento dell’8 dicembre del 1943. Lei era sola con noi e la mamma Paolina.
Eravamo in cinque: io con mia sorella Antonietta, Franceschina con sua sorella ‘Ntunetta e Maria.
Sentendo gridare e piangere l’amica per le ferite che si stava producendo nella caduta, ‘Ntunetta mi propose di infilarmi con la testa rivolta verso l’alto e con le gambe in avanti, supina, in quanto il tubo scendeva quasi a perpendicolo.
E così feci: entrai prima con i piedi e, tenendo gli occhi chiusi, caddi verso l’interno. Le amiche seguirono me e facemmo un mucchio lungo lungo, pestandoci la testa l’una sull’altra. Furono attimi che durarono una eternità. All’interno del tubo ci arrivava il rintronare cupo del baccano, del vociare adirato di quelli che si aggiravano sopra di noi, nel serbatoio, come forsennati. Certamente pensavano che eravamo tutte morte, perché non fiatavamo e non ci si vedeva. Mi ricordo che dissi con un fil di voce:
– Andiamo più lontano possibile, oltre la curva, perché quelli sono adirati, ci tengono sotto tiro e possono sparare e ucciderci facilmente. Per questo motivo carponi ci spingemmo oltre il foro per il quale era caduta Maria. Credo che arrivammo fino alle case longhe, dietro alla Fraola.
Ma ormai eravamo al sicuro!
Quando passò il pericolo e quelli andarono via, i nostri cominciarono a gridare, rincuorandoci e rassicurandoci che sarebbero subito venuti a liberarci.
In verità al momento di buttarci, volevamo solo salvarci e non pensammo proprio alla possibilità di uscire; d’altra parte non sapevamo se c’era un foro. Non conoscevamo nemmeno il tratto della campagna che il tubo percorreva; non eravamo mai passate in quella zona.
Mio padre sapeva che nella parte bassa, dove la condotta forzata si distende in piano, vi era un grande tappo di ispezione; allora si mise alla ricerca di una chiave inglese per potere svitare i bulloni ed aprire il coperchio. Non la trovò.
D’altra parte era più forte il desiderio di sentire la nostra voce e di saperci vive anche se prigioniere, perciò scese di corsa dall’alto della Torre
Tutti gli uomini accorsi, camminando lungo il tubo e guardando attentamente, trovarono l’apertura prodotta da una cannonata: era tutta sfrangiata, ma poteva permettere l’uscita delle prigioniere.
Maria, che ci aveva preceduto a testa in giù, trovato questo foro, era caduta a peso morto, ferita e priva di forze come era. Tornata in sé, fu contenta di essere sfuggita a quelli, ma, ancora spaventata, andò a nascondersi lontano in un groviglio di rovi e di pruni per non farsi trovare da nessuno; non fiatava anche quando sentiva le voci dei salvatori che si aggiravano nei paraggi. E rimase per tanto tempo al freddo di gennaio, sotto la neve, rischiando di morire assiderata oltre che per le ferite.
Noi avvertimmo il tonfo, ma prese dal terrore, non prestammo la dovuta attenzione a ciò che era accaduto.
Ormai si stava facendo tardi e il pomeriggio cedeva all’oscurità della sera, per questo ci riuscì difficile scorgerla. Sentimmo, ci parve di sentire una voce, un lamento, ma non la trovammo.
Il pericolo era passato e allora i nostri genitori scesero a precipizio, si fecero ai lati della prigione e cercavano di prestarci aiuto in ogni modo, rincuorandoci con parole di sollievo. Noi li sentivamo dall’interno delle ricurve lamiere di ferro, perché erano tutte sforacchiate dalle schegge delle cannonate, che ci avevano cagionato tante ferite per il corpo:
– Siamo vive ! veniteci a prendere! veniteci a liberare!
Si avvicinò mio padre, ci gridò da una fessura che dovevamo tornare indietro e ci fece uscire una alla volta attraverso il foro per il quale era caduta Maria; eravamo magroline e piccole, perciò non ci riuscì difficile venir fuori piano piano. Ma ‘Ntunetta, la sorella di Franceschina, era cicciottella e non poteva agevolmente passare. Ci volle tutta l’abilità di papà per riuscire nell’impresa: premeva delicatamente sulle parti rigonfie, per evitare che potesse graffiarsi con il ferro arrugginito.
La mamma di Franceschina notò subito che delle cinque ragazze mancava una, Maria; e cominciò a gridare:
– Dove sta Maria? Non vi siete accorte che manca la vostra amica? È morta?
La mamma sicuramente si sentiva male: stava accucciata su un materasso e non si muoveva. D’altra parte era impietrita dal dolore ed era rimasta nel posto assegnato, senza muoversi; non faceva che ripetere con un filo di voce appena percettibile:
– Maria dove sta? Maria perché non è con voi? Manca Maria!
Ad un tratto la sentimmo arrivare come uno sperdinghio, uno spiritello, sola sola, ferita in varie parti del corpo, mentre perdeva sangue dalle braccia, dalle gambe, dal volto e tanto ne aveva già perso. Aveva ormai compreso di essere sicura dagli assalti di quelli, e, raccolte tutte le sue forze, si era avventurata per la traccia che allora esisteva da Fiumecappella alla Torre. E così potemmo riabbracciare la nostra amica, che non eravamo riusciti a trovare.
Andò a morire all’Ospedale Militare di Pozzilli, dove venne portata da un ufficiale francese con una jeep”.
Maria Panaccione nacque a Sant’Elia Fiumerapido da Nicola e da Paolina Soave il 21 marzo 1926 e morì il 22 febbraio 1944 non a Pozzilli né a Casalcassinese, dove erano Ospedali da campo francesi, ma nell’Ospedale Civile di Venafro e venne sepolta nel cimitero di questa città: Liber defunctorum, p. 139 della Parrocchia di Santa Maria La Nova, trascrizione sottoscritta dall’arciprete D. Gennaro Iucci.
Siamo andati io e Ginuccio alla ricerca del foro richiuso nel dopoguerra dai saldatori al fine di riattivare la centrale idroelettrica della Cartiera, per localizzarlo e conoscere il punto da dove la nostra Eroina si lasciò cadere nel vuoto procurandosi le ferite mortali e fotografarlo. Ma invano! Ormai un groviglio di rovi è cresciuto con gli anni intorno al tubo, favorendo la ruggine a divorarlo:
tutte cose l’oblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo1.
Cara Maria, ti dovrai contentare di questa modestissima rievocazione e del bozzetto che appronterà l’amico Gino. Oggi nemmeno una croce possiamo piantare nel luogo della tua triste agonia!
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