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«Studi Cassinati», anno 2023, n. 1
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di Antonio Tari1
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Si propone l’articolo di uno dei sopravvissuti al rastrellamento effettuato dai tedeschi a Terelle nel febbraio 1944 che, con la sua preziosa nota scritta, ha testimoniato la difficile vita quotidiana, le speranze, le illusioni e poi le violenze e la morte inferta a un pugno di cittadini («uomini validi che si nascondevano, vecchi, donne e fanciulli») i quali avevano sperato di trovare rifugio nel paesino montano. Per facilitare la comprensione dei drammatici fatti accaduti si è provveduto a corredare la testimonianza di note esplicative mancanti nell’articolo originario (gdac, a cura di).
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La giornata del 23 Febbraio 1944 era trascorsa nei sotterranei di casa Tari a Terelle2 con la solita trepidazione e affannosa attesa: le ore interminabili, accidiose, monotone morivano lentamente3.
L’Avv. Umberto Grosso4, silenzioso, ipnotizzato davanti alla piccola finestra5 che permetteva di ispezionare la vallata sottostante coperta di neve, guardava nello sfondo la catena di Colle Abate, che sembrava un vulcano in eruzione tanto erano fitti, ininterrotti i colpi delle artiglierie6. Si sentivano partire come sempre dalle catene dei monti dell’Aquilone e dalle falde delle montagne più a Sud, verso S. Vittore e Rocca d’Evandro, già conquistate dai «Liberatori» da tutti aspettati.
«Sarà questione di qualche giorno forse di poche ore: non potranno i pochi tedeschi che reggono ancora la linea, resistere a lungo a quest’inferno».
Era l’eterno discorso, la costante illusione, che aveva tenuti inchiodati ai luoghi del pericolo, uomini validi che si nascondevano, vecchi, donne e fanciulli, che avevano rifiutato prima le esortazioni dei tedeschi di sfollare più a Nord, e avevano poi sfidato le loro minacce e non ubbidito ai loro ordini.
L’Avv. Guido Spirito che aveva raccolto le cose più care della sua famiglia, si affannava a disporle bene ordinate in pacchi facilmente trasportabili. «Tra poche ore saremo finalmente liberi», affermavano quasi tutti7. Nessuno, nemmeno le più [pie]8 vecchiette che come sempre intonarono il Rosario all’Ave Maria, implorando dalla Vergine Santa il miracolo, avrebbero mai sospettato che la «Diva severa» si preparava a discendere sulla casa dove avevano sperato e sofferto per tanti giorni «e l’ombra di lei avanzava gelida, gelida diffondendo intorno lugubre silenzio».
Tutti dormivano nella notte del 23, né i sibilanti proiettili a cui ormai si era abituati, avevano più il potere di scuotere i nervi e impressionare i derelitti.
D’improvviso verso le 3 della mattina del 24, passi affrettati, presso le porte dei due locali adibiti a dormitori e un richiamo affannoso dest[ò] tutti. Era il soldato siciliano che dormiva solo in anticamera presso la porta che dava all’esterno: un soldato qualunque, disperso di passaggio, che voleva tentare di attraversare le linee per raggiungere la sua Sicilia, la sua famiglia, che aveva chiesta (e gli era stata accordata) ospitalità.
«La polizia tedesca, viene la polizia tedesca!», ci mormorò sottovoce affannosamente, e corse a nascondersi nel sottoscala.
Si avvertirono subito i passi pesanti dei soldati: con loro erano un sottufficiale tedesco da tutti conosciuto, perché stato a lungo a Terelle come interprete, e degli operai requisiti a Casalvieri.
Ordine perentorio: sloggiare subito tutti; i vecchi, gli invalidi dovevano essere portati a braccia dagli operai, si dava a tutti mezz’ora di tempo per la partenza9.
E tutti partirono: anche la mia vecchia madre10, anche la novantenne mia zia, madre dell’Avv. Grosso, mia sorella, l’Avv. Grosso, il Dottor Damiano Valente con i numerosi profughi che erano con lui, e che egli scherzosamente chiamava «i reclusi dell’Alcatraz».
Rimasero pochi invalidi, che non potettero spostarsi perché gli operai erano pochi. Io mi nascosi e non volli partire. Malauguratamente volle seguire il mio esempio l’Avv. Spirito, fissato nell’idea della prossima liberazione. Nobile e generoso amico! se avessi saputo che i «Liberatori» di Terelle che aspettavi con tanta ansietà erano i Marocchini appostati sulle coste orientali di Colle Abate, strapiombanti al piano, che dopo altri mesi di inferno, sarebbero venuti avanti per saccheggiare e rubare più dei tedeschi e per oltraggiare le rare donne rimaste ancora abbarbicate alla loro terra, non avresti persistito nel fatale errore e ti saresti salvato. E si sarebbe salvato anche l’Avv. Grosso, se i due manigoldi di Casalvieri, incaricati di portare a spalla la madre, non se ne fossero subito sbarazzati, abbandonandola sulla neve, dileguandosi. Egli si era un po’ attardato per prendere un po’ di indumenti e valori: trovò la madre abbandonate e gemente. Ritornò subito a chiamarci: e assiderata e morente la riportammo sulla misera branda del misero dormitorio ormai rimasto quasi vuoto.
Il fato crudele aveva inesorabilmente predestinato quelle altre due vittime per l’immane tragedia.
Poche ore trascorsero: verso le sette del mattino furono nei piani superiori avvertiti passi e voci concitate: erano altri soldati delle SS tedeschi che venivano per un ultimo, più rigoroso rastrellamento.
Sorpresero me e l’Avv. Spirito nascosti in un piccolo vano esterno. Avendo io acconsentito all’ordine di andar via subito, percosso brutalmente, non mi si dette tempo di portar via nulla. Mi si consegnò ad un soldato che doveva accompagnarmi al luogo di concentramento. Sentii, nel passare, mio cugino Umberto Grosso che rispondeva concitato di non potere abbandonare in quell’antro la madre morente. Mentre varcavo la soglia del portoncino esterno, sentii tre colpi di rivoltella e quasi contemporanei colpi di moschetto sparati dai soldati di guardia alle porte dei dormitori11. Nessuno di quelli che erano rimasti nei due dormitori si è salvato: da nessuno si è potuto sapere come, perché, in qual modo si sia svolta la tragica scena, l’inutile carneficina12.
Raccolti come tarme di pecore in una stalla sita al Nord del paese in un angolo morto tutti quelli che furono trovati nel paese, in tutte le case e in tutti i ricoveri, profittando di una intensa nevicata, che lasciava coperte le mulattiere agli osservatori dell’artiglieria nemica, si iniziò nel pomeriggio, la marcia di tutta la povera gente affamata e dolente che lasciava Terelle.
Ma chi si fermava era perduto, chi non poteva camminare era soppresso!
E furono abbattuti il Professor Tommaso Piano13 e sua madre Giovanna Cantasale, Cossuto Clelia e suo marito Giallonardi Luigi, e la vecchia Giovanna Mella, guidata da una ragazzina sua nipote, a cui fu ingiunto di lasciarla per sopprimerla. E la ragazza corse innanzi ad avvertire la mamma che con un’altra bambina procedeva più spedita ad informarla dell’atroce tragedia. E la donna, come una forsennata, andava a tutti ripetendo:
«Ma perché, perché ha meritata la morte la povera mamma mia? è dunque una colpa non potere per la grave età camminare spedita nella neve alta? non resistere all’immane disagio? non avere più la forza della gioventù».
E fu questa la colpa per cui trovarono la morte:
L’Avv. Umberto Grosso, l’avv. Guido Spirito, la nobildonna Emilia Carpentieri, Ettore Valente, la signora Giuseppina Pittiglio, la signora Amalia Villa vedova Capogrosso.
E mentre i cadaveri dell’Avv. Grosso e di sua madre e dell’Avv. Spirito furono per cura dei parenti rimossi e furono resi ad essi solenni onoranze funebri, gli altri con molti altri fatti rastrellare nel paese, giacciono ancora sotto le macerie nei sotterranei della diroccata casa Tari14. I parenti di alcuni di essi si sono invano rivolti al Municipio di Terelle e anche all’Autorità Prefettizia, perché i loro cari siano dissotterrati e sia data a tutti sepoltura più degna del loro martirio15.
Essi incaricarono me, in questo triste anniversario, di intercedere ancora sul «Rapido» presso le autorità perché questa loro legittima e santa pretesa sia finalmente esaurita.
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NOTE
* «Il Rapido», 8 marzo 1948, a. IV, n. 4.
1 Avvocato, era nato il 28 ottobre 1882 a Cassino, figlio di Achille e di Gaetana Jannelli, nipote dell’omonimo e importante filosofo originario di Terelle. Nel dopoguerra fu redattore del periodico «Il Rapido» in cui pubblicò vari articoli dedicati alla ricostruzione nel Cassinate e, soprattutto, vi curò la rubrica «Le cronache sportive» nelle quali aveva dimostrato, assieme a una «non comune competenza degli sport», una «ancora immutata, giovanile … verve di scrittore» («Il Rapido», 21 giugno 1948, a. IV, n. 10). Nel febbraio 1949 fu eletto alla vicepresidenza dell’Associazione Sportiva Cassino («Il Rapido», 10 febbraio 1949, a. V, n. 2).
2 Il paese di Terelle aveva cominciato a essere progressivamente investito dal fuoco dell’artiglieria e dell’aviazione alleata a partire dalla metà di gennaio con i cannoneggiamenti che indussero molta gente «ad abbandonare le case del centro abitato, per rifugiarsi nelle caselle di campagna». Subì il suo primo intenso bombardamento il 25 gennaio, con Terelle che «tutto traballava, tremava in lungo e in largo, sembrava volersi sbriciolare» (P. Grossi, Terelle, Sambucci ed., Cassino 2013, p. 29).
3 Il palazzo Tari-Grosso, posto al centro del paese, era lo stabile più grande di Terelle. A partire dal settembre 1943 si era andato riempiendo dei componenti delle due famiglie che si trovarono a coabitare forzatamente (condividendo la cucina) con i tedeschi che vi avevano collocato il loro comando fino a quando non fu spostato in un sito più al riparo nel palazzo Biondi. Da Napoli era giunto il proprietario dello stabile, l’avv. Umberto Grosso assieme all’anziana madre, la «signora Emilia Carpentieri di origine pugliese, forse marchesa» che aveva con sé una «cameriera dai capelli rossi e dal viso lentiggioso» incaricata di accudirla, e con due altri amici e cioè l’avv. Guido Spirito e un geologo che nel passato aveva fatto qualche sopralluogo nelle miniere ma che in paese si diceva fosse un «ebreo venuto a nascondersi in montagna, onde sfuggire alle persecuzioni razziste»» (P. Grossi, Terelle … cit., p. 62). Da Cassino, invece, erano saliti a Terelle vari componenti della famiglia Tari e cioè l’avv. Antonio con la madre e le due sorelle di cui Maria con il marito Gaetano Martire e le figlie Letizia e Franca. Nel palazzo furono ospitati pure altri cugini, parenti e amici (Ettore Valente, la signora Giuseppina Pittiglio, la signora Amalia Villa vedova Capogrosso e altri profughi). Per ultimo arrivò a fine ottobre, l’ing. Agostino Tari (già volontario in Grecia con il grado di capitano e congedato nel 1943 in seguito a malaria contratta in servizio), fratello dell’avv. Antonio che inizialmente era sfollato in un casolare di sua proprietà a Sant’Antonino sopra Cassino, ma poi convinto a riunirsi al resto della famiglia a Terelle.
4 Cinquantenne «non molto alto» ma «robusto», avvocato «principe del foro di Napoli, amico di Enrico De Nicola», era originario di Terelle ma residente nella città partenopea che deciso di lasciare per far ritorno nel paese avito convinto che la guerra sarebbe rimasta lontana da quelle zone montane. A Terelle era un facoltoso proprietario di immobili e di terre nonché titolare della miniera di manganese ubicata in località Castagneto-la Corte, al Colle Santopietro (cfr. anche A. Mangiante, Tra Terelle Cassino e Napoli. La famiglia Grosso, in «Studi Cassinati», a. XXI, n. 4 ottobre-dicembre 2021, pp. 306-310).
5 Gli sfollati presenti in casa Tari-Grosso temettero di restare sepolti sotto le macerie in seguito all’intenso bombardamento del 25 gennaio. Si ritrovarono in cucina sani e salvi, seppur «sbiancati in volto», davanti al focolare. Antonio Tari andò a ispezionare i sotterranei del palazzo e scovò «due locali, uno ben ampio e l’altro stretto e angusto» che risultavano ben protetti in quanto ricavati «tra due rupi», mentre «sulla parete d’uno di essi, si apriva una finestrella difesa da una inferriata che dava sul corridoio-cunicolo della chiesatterra». Così verso sera decisero di scendere «in quel nascondiglio: don Umberto [Grosso], la madre, l’avvocato Spirito, l’ingegnere della miniera e l’ebreo», lo stesso avv. Antonio Tari con la madre e una sorella nonché Damiano Valente e i «numerosi profughi che erano con lui». Diversamente l’ing. Agostino Tari, dopo quell’intenso bombardamento del 25 gennaio, decise di abbandonare il palazzo. Individuò un’area sul monte «Rotunno» dove costruì un ricovero venutosi a ritrovare nelle vicinanze delle linee di combattimento ma che mai fu colpito, e lì si riparò con la sorella Maria e le due nipoti Letizia e Franca (P. Grossi, Terelle … cit., pp. 119-122).
6 Gli sfollati di casa Tari-Grosso per un mese, dal 25 gennaio a quel fatidico 23 febbraio, assistettero alle vicende belliche «davanti alla piccola finestra» del sotterraneo. L’attacco operato dai soldati coloniali francesi del Cef (Corpo di spedizione francese), iniziato alle ore sei del mattino del 25 gennaio per concludersi il 3 febbraio, aveva come obiettivo la conquista di Colle Belvedere (quota 862) e Colle Abate (quota 915), due alture poste prima del paese, e quindi puntare su Terelle che però non fu mai raggiunto mentre le due cime furono occupate, perse e rioccupate, fino alla loro conquista definitiva da parte del Cef, anche se alla fine non portò a risultati concreti. I due schieramenti, quello francese con le truppe coloniali da una parte e quello tedesco dall’altra, combatterono «con grande tenacia sopportando sacrifici incredibili», sotto il «fuoco delle opposte artiglierie, mitragliati da ogni lato, a corto di viveri ed esposti al rigido clima invernale» (L. Cavallaro, Cassino. Le battaglie per la Linea Gustav, Mursia, Milano 2004, p. 109).
7 Scrive Pietro Grossi che in quei frangenti tra la popolazione la questione «dell’arrivo degli americani era ormai una ossessione. Più si faceva viva la battaglia sui due corni del colle Abate, più si ravviavano le speranze e si rinsaldava la determinazione a restare in quell’inferno» (P. Grossi, Terelle … cit., p. 156).
8 In una brevissima nota riportata nel «Il Rapido», 29 marzo 1948, a. IV, n. 5, si specificava che Antonio Tari aveva lamentato il refuso in cui era incorso il periodico perché egli aveva scritto «le pie vecchiette» e non «le più vecchiette» come pubblicato.
9 I tedeschi, con l’avanzare degli Alleati, operarono vari rastrellamenti a Terelle perquisendo casa per casa e obbligando la popolazione ad allontanarsi dal paese con la forza. Nella notte tra il 23 e il 24 febbraio era toccato agli sfollati di casa Tari-Grosso, con i tedeschi che, sfondato il portone e scovate le persone nei sotterranei, «con urli e spintoni immisero nella scalinata quanti furono idonei alla risalita. La postèra, il marito Placido, Anna di Cervo, il geologo che era conosciuto come l’ingegnere e lo stesso don Umberto furono condotti dove erano tutti gli altri, vicino alla sede del comando tedesco», nel cortile di casa Biondi. Poi il giorno successivo i tedeschi si spinsero fino al castagneto rastrellando una cinquantina di persone, alcune trovate nascoste tra le macine del mulino, oppure nei vani del Comune o sotto la scalinata della chiesatterra e persino in sacrestia (P. Grossi, Terelle … cit., pp. 166-167).
10 Si trattava della nobildonna Gaetana Teresa Anna Evangelista Jannelli, nata a San Germano (odierna Cassino) il 28 febbraio 1859 e poi scomparsa novantaduenne nel maggio 1948. «Il Rapido» la ricordava come «una di quelle donne del buon vecchio stampo, virtuose, forti, intelligenti, aliene assolutamente dai rumori e dagli inganni della falsa vita moderna e pensose soltanto del bene della famiglia e della carità per il prossimo» («Il Rapido», 31 maggio 1948, a. IV, n. 9).
11 Secondo la ricostruzione di Pietro Grossi, gli sfollati vennero ammassati nel cortile di casa Biondi. Nel sotterraneo di casa Tari-Grosso erano invece rimasti sia la madre dell’avv. Grosso, «la quale dalla carrozzina aveva assistito frastornata all’invasione di casa sua» nonché l’«avvocato Guido Spirito senza una gamba». A un certo punto i tedeschi si misero a cercare affannosamente Umberto Grosso tra gli sfollati ammassati nel cortile di casa Biondi. I presenti capirono che era tornato di nascosto sui suoi passi alla ricerca della madre nel sotterraneo dove fu infatti sorpreso dai soldati e lì lo «trucidarono barbaramente». Secondo alcune voci i tedeschi avrebbero voluto «portarlo via di prepotenza» ma lui s’impuntò deciso, reagì con tutte le sue forze e quando rivolsero le armi sulla madre, le si parò davanti e cadde insieme a lei in un ultimo sacrificio. La sua «barbara esecuzione» fu ricordata «in tutta la vallata per parecchi giorni» (P. Grossi, Terelle … cit., pp. 167-168). Anche l’ing. Agostino Tari, quando si trovava sfollato alla Cisterna di Casalvieri, raccolse delle testimonianze sui drammatici avvenimenti verificatisi nel sotterraneo di cassa Tari-Grosso che, seppur collocavano erroneamente gli eventi ai primi giorni di marzo, in buona sostanza si mostravano attinenti ai fatti accaduti. L’irruzione dei tedeschi era stata seguita da una «decisa imposizione» a lasciare il sotterraneo accompagnata da scudisciate di cui fece le spese anche il fratello Antonio attardatosi «a rintracciare un suo zainetto». Umberto Grosso aveva tentato di sollevare dal giaciglio la madre «gravemente malata» e «quasi morente» al fine di raggiungere gli altri sfollati «già in marcia» ma in quei momenti si venne a originare la «più raccapricciante tragedia» con la zia che «fu barbaramente uccisa a colpi di pistola. Subito dopo, tutto il gruppo di quella soldataglia mitragliò» Umberto Grosso e «gli altri malcapitati che non erano riusciti a sloggiare sollecitamente dagli scantinati, compreso in essi l’avvocato Spirito, di nobile famiglia napoletana». (A. Tari, Orrori di guerra … cit., pp. 33-34).
12 Secondo le testimonianze raccolte dall’ing. Agostino Tari, dopo il bestiale eccidio sui «corpi delle misere vittime» ne furono ammucchiati altri e «su quelle povere carni si abbatté il sovrastante solaio che fu fatto crollare da quei dannati» (A. Tari, Orrori di guerra … cit., pp. 33-34). Infatti nel mese di febbraio i tedeschi fecero gettare nel sotterraneo di casa Tari-Grosso altri cadaveri di persone morte nelle case circostanti. I militari avevano provveduto ad organizzare cinque squadre composte, ognuna, da due giovani rastrellati in paese, tra cui il diciassettenne Pasqualino Savelli. Ad essi fu affidato il compito di recuperare i corpi dei morti penetrando nelle case da cui «fuoriusciva il fetore dei cadaveri». Quindi tali tristi fardelli furono trascinati «in quegli stessi sotterranei in giacevano l’avvocato don Umberto Grosso e la madre Emilia Carpentieri» trucidati, circa un mese prima, «dalle disumane belve naziste». Quando, infine, i «guardiani aguzzini ritennero di aver completato la pulizia del paese» minarono l’interno della casa piazzando una «grossa carica di tritolo all’ingresso del tunnel che portava nel buio degli scantinati del palazzo» che fecero esplodere causando il crollo dei piani superiori (P. Grossi, Terelle … cit., pp. 314-317).
13 Sulla figura di Tommaso Piano cfr. gli articoli di E. Pistilli, Un martire cassinate dimenticato: Tommaso Piano, in «Studi Cassinati», a. XVIII, ottobre-dicembre 2018, n. 4, pp. 265-271 e Id., Tommaso Piano_2, in «Studi Cassinati», a. XIX, gennaio-marzo 2019, n. 1, pp. 83-86. Nei suoi articoli Emilio Pistilli cita l’ing. Agostino Tari che aveva raccolto la testimonianza di alcuni sfollati i quali gli avevano riferito che «nel “Vallone Oscuro” venti cittadini di Cassino erano stati legati fianco a fianco e poi mitragliati» dai tedeschi. Fra essi trovarono la morte il «mite, modesto e buon maestro» Tommaso Piano, i fratelli muratori Saverio e Antonio Ricci (A. Tari, Orrori di guerra, SEL, Roma 1972, p. 29). Orbene a quanto riportato da Agostino Tari si vanno ad aggiungere i ricordi diretti del fratello Antonio che pare confermare l’uccisione nel corso del trasferimento a Colle San Magno. Leggermente diversa la ricostruzione offerta da Manlio Del Foco il quale riporta nel suo volumetto di ricordi che il padre, il dott. Ottorino, rifugiatosi con la famiglia a Terelle, «assisteva i malati, soprattutto i profughi di Cassino, tra i quali ricordo il professore Tommaso Piano, assiduo frequentatore della nostra casa e sempre più bisognoso di aiuto per sé e per la madre anziana e malata (Saranno tutti e due fucilati la sera del rastrellamento perché il professore, non volendo abbandonare la madre, si era scagliato contro i tedeschi che volevano portarlo via)» (cfr. M. Del Foco, La mia … la nostra guerra, in «Studi Cassinati», a. XIX, gennaio-marzo 2019, n. 1, pp. 31-40). Tali testimonianze e ricordi sembrano dare, in un certo senso, qualche risposta ai quesiti posti da Emilio Pistilli nei suoi articoli.
14 Tra i profughi di Cassino rifugiatisi nella casa Tari-Grosso dovrebbe esser stato presente, perdendo la vita pure lui nello scantinato, anche «Gigi Valente, il pittore, professore, l’artista, falciato dal vomitare di un mitra e dalla spietata ferocia teutonica assieme a tanti altri solo perché non in grado d’abbandonare il rifugio che tra stenti s’era cercato e che la pietà dei proprietari aveva messo a disposizione dei profughi cassinati». Nel luglio 1944 Torquato Vizzaccaro si portò a Terelle alla ricerca dei resti di Gigi Valente, suo parente. Individuato l’immobile si portò nell’«ampio vano al quale si accedeva scendendo una lunga scala in muratura addossata alla parete a destra della porta di ingresso» e che «a prima vista non presentava nulla di anormale: finestre divelte, qualche foro nella pareti prodotte dallo scoppio dei proiettili di artiglieria, parte del solaio caduto sopra un’ampia distesa di materassi e coperte» sotto cui però si trovavano vari «corpi in avanzato stato di decomposizione … chi riverso, chi prono, chi raggomitolato su se stesso». Non poté fare nulla se non lasciare quelle salme «su quel funereo pavimento, in attesa di tempi migliori» (T. Vizzaccaro, Presentazione, ad A. Tari, Orrori di guerra … cit., p. 7).
15 Nell’ameno paesino incastonato su monte Cairo, divenuto una delle mete dello sfollamento cassinate dopo il primo bombardamento subito da Cassino il 10 settembre 1943 nonché rifugio anche per monaci, sacerdoti, suore e alunni monastici provenienti da Montecassino, trovarono la morte, oltre a persone del luogo, molti profughi cassinati. Ad esempio il 24 gennaio morì il dott. Ottorino Del Foco nel corso di un bombardamento. I componenti della famiglia Del Foco si rifugiarono dentro casa ma a un certo momento una donna di Cassino bussò freneticamente all’uscio implorando aiuto. Il dott. Del Foco andò ad aprire e la donna, «in preda a una crisi isterica», aggrappandosi «alla mantella» del medico, «come una furia» lo trascinò fuori di casa proprio «nel momento in cui una granata scoppiava» nei pressi dell’uscio. L’ordigno colpì Ottorino Del Foco che riuscì a raggiungere la casa a fianco ma spirò subito dopo e inoltre ferì gravemente l’undicenne figlio Oreste, che aveva seguito il padre in quei momenti. Il giorno dopo i superstiti della famiglia, la signora Bianca Maria Baccari Del Foco e i figli, si spostarono in un’altra casa in campagna nei pressi del castagneto. Quindi il 21 marzo subirono lo sfollamento a Colle S. Magno, non senza momenti drammatici e morti lungo il sentiero innevato. La signora Bianca Maria, che nell’arco di quattro mesi aveva perso il padre e il marito, con la forza di volontà di madre, chiedendo, supplicando, implorando, riuscì a impietosire un militare tedesco che si caricò sulle spalle il figlio Oreste ancora impossibilitato a camminare per le ferite riportate. Riuscirono così a raggiungere Colle S. Magno e proseguire poi verso Roma. Dopo lo sfondamento della Linea Gustav, la signora Bianca Maria e i figli fecero ritorno a Cassino e, appena le fu possibile, tornò a Terelle a recuperare i resti del marito estraendoli, per quel che fu possibile, da una fossa comune per poterli così seppellirli più degnamente nel cimitero di Cassino (M. Del Foco, La mia … la nostra guerra, in «Studi Cassinati», a. XIX, gennaio-marzo 2019, n. 1, pp. 31-40).
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