«Studi Cassinati», anno 2023, nn. 2-3
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di
Alberto Piccirilli*
Il paese natio – S. Giovanni Incarico – è costituito da un pugno di case abbarbicate ai piedi di una collina facente parte della catena montuosa dei Monti Lepini sulla quale svetta il piccolo santuario della Madonna della Guardia: immagine che veglia su tutti gli abitanti dei paesi e borghi della valle del Liri ed è adorata e meta di pellegrinaggio nella prima domenica di giugno durante una lunga e suggestiva processione che dal monte procede lungo i tornanti della strada, fino alla chiesa parrocchiale. Il paese è situato sul lato destro della valle del Liri ed è attraversato dalla strada statale che congiunge la Casilina-Ceprano all’Appia-Itri. Il panorama che si intravede comprende e racchiude quasi l’intera valle: dalla Rocca d’Arce ad Arce, quindi man mano Castrocielo, Roccasecca, Aquino, Piedimonte, Colfelice, Cervaro ed in fondo, Pontecorvo tutti situati alle falde della catena degli Appennini su cui troneggia più alto di tutti il monte Cairo, alto ca. 1700 metri. Sul versante sud di questo monte, a metà costa, si staglia maestoso lo storico Monastero di Montecassino. è in questi luoghi ed in questo scenario che si svolgeranno gli accadimenti che andrò a raccontare sul filo della memoria.
La nostra guerra
è a tutti noto che questi luoghi, soprattutto Cassino e Montecassino, furono teatro di una lunga e sanguinosa pagina della Seconda Guerra Mondiale: al di là di Cassino era attestata la V° Armata USA, al di qua verso la Valle del Liri, c’era la famosa Linea Gustav presidiata dai tedeschi. Il fronte era da tempo in una situazione di stallo quando agli Alleati venne in mente che soltanto col bombardamento e con la distruzione del Monastero di Montecassino, nel quale erroneamente si credette fossero asserragliate truppe tedesche, si potesse fiaccare la resistenza del nemico, resistenza che ormai durava da mesi. Il tragico e spettacolare bombardamento effettuato dalle cosiddette Fortezze Volanti il cui numero era tale che tutto il cielo della valle si oscurò ed il rombo dei motori scuoteva alberi e case e terrorizzava uomini e animali, avvenne nei giorni 15-17-18 febbraio 1944. La prima battaglia successiva al bombardamento tendente a sfondare il fronte avvenne il 1° marzo, ma senza esito. In seguito, alla V° armata USA si aggiunse l’VIII° Armata Britannica, oltre a truppe Francesi composte in gran numero da Marocchini. Con questi rinforzi, l’11 maggio gli Alleati sferrarono la Quarta Battaglia ed il 20 maggio 1944 avvenne lo sfondamento del fronte di Cassino ed il conseguente annientamento della Linea Gustav. Mentre gli Alleati si riversarono nella Valle del Liri, i tedeschi si ritirarono lentamente verso Roma opponendo quanto più resistenza possibile.
Il ricovero
Con l’arrivo del fronte a Cassino, tutta la Valle del Liri fu sotto il tiro del fuoco alleato e sottoposta a continui cannoneggiamenti e bombardamenti sia di giorno che di notte. Per prevenire il pericolo di essere colpiti o di rimanere sepolti sotto le macerie della propria casa, ogni gruppo familiare, allargato anche ad amici e conoscenti, all’inizio delle ostilità pensò bene di costruirsi un ricovero in cui rifugiarsi durante le incursioni, soprattutto di notte. Anche noi costruimmo il nostro bravo “ricovero antibombe”. Scavammo tutti insieme e con gran fatica una grossa e larga buca sotto la superficie dell’aia, buca profonda dai tre ai quattro metri con una entrata a scivolo rivolta stranamente verso il lato del fronte e la ricoprimmo ben bene con tronchi di alberi con sopra terra ed erba per mimetizzarla. Ci stavamo in circa venti persone, sedute in circolo su un gradino di terra appositamente lasciato tutt’intorno e ricoperto di paglia per proteggerci dall’umidità. C’erano tutti i membri della famiglia di volta in volta presenti, i suoceri e le nuore di Filomena venuti dal paese; spesso ci si aggregava anche nonno Pietro con la nonna Maria Civita e la zia Mariuccia, lo zio Giovannino con i figli Severino, Pietro e Stella. Si stava lì seduti a chiacchierare ed a turno e con circospezione si usciva per procurare e preparare il cibo per tutti. Bisognava stare molto attenti ad uscire di giorno in quanto si rischiava di essere avvistato da un piccolo aereo da ricognizione che sorvolava continuamente la valle e che avevamo soprannominato “La Cicogna”. Tutte le volte che notava un qualche movimento, la notte successiva il posto individuato era fatto bersaglio di bordate di cannonate. Era da giorni che regnava una certa calma, perciò decidemmo di tornare a dormire in casa. Il via vai fu a nostra insaputa notato dalla “Cicogna”: la notte fu un inferno di fuoco tutto intorno all’edificio. Fu un vero miracolo che i numerosi colpi di cannone – per la precisione ben dodici, sei su un lato e sei sull’altro – non colpirono la casa: fu per tutti un momento di vero terrore. Alle prime luci dell’alba notammo enormi crateri a circa tre metri dai muri: ma la vista dei crateri non… ci aprì gli occhi!!! La notte successiva ritornammo tutti nel famoso e sicuro ricovero: verso le due, tre scoppi assordanti ci risvegliarono di soprassalto, uno scoppiato proprio davanti all’entrata riempì tutto il locale di un fumo acre che ci fece versare lagrime “amare”, ma anche di gioia per il pericolo scampato. Mentre uscivamo tutti di corsa inciampammo in un grosso proiettile inesploso che aveva traforato il tetto di legno del ricovero, come fosse stato un panino di burro, e si era in parte conficcato nel piccolo spazio in mezzo a noi, seduti in circolo addormentati. Solo allora capimmo che il “ricovero” era una vera e propria trappola: incapace di difenderci, così come era stato concepito, nemmeno da un colpo di moschetto della Prima Guerra Mondiale, figurarsi dalle potenti e micidiali armi della Seconda Guerra Mondiale!!! Dopo questo episodio che per un vero miracolo posso oggi raccontare, ognuno tornò a casa propria certamente più sicura del “rifugio antibombe e anticannonate” così accuratamente ideato e costruito!!! Solo Costantino non rinunciò al rifugio e se ne costruì uno tutto per se nel mezzo della parete del fosso profondo e largo che passava poco distante da casa. Così concepito e costruito era veramente sicuro: situato con l’entrata non verso il fronte e con circa cinque metri di terrapieno sopra; ogni tanto ospitava anche me, soprattutto di notte.
Le schegge
A quell’epoca avevo appena compiuto undici anni. Insieme ai cugini Severino e Pietro, pressappoco della stessa età, avevamo preso l’abitudine di andare a raccogliere le schegge ancora calde dopo i notturni bombardamenti o cannoneggiamento nei dintorni. Avevamo costruito una piccola carriola, somigliante più ad un carrettino con le ruote recuperate da un triciclo-giocattolo: con questo attrezzo uscivamo di buon’ora ed andavamo alla ricerca di schegge sparse sui prati pieni di crateri di bombe o cannonate esplose, con l’incoscienza propria dei bambini. Questo durò parecchi giorni, forse settimane, mentre la “Cicogna” volava sopra di noi e poi si allontanava. Fa tenerezza immaginare oggi quei tre bambini, Pietro il più piccolo che trainava il carrettino e gli altri due a girare tutt’intorno alla ricerca di schegge di bombe e proiettili, inconsapevoli dei pericoli che incombevano sopra di loro. Sono più che certo che il pilota della “Cicogna” osservava anch’egli con tenerezza quei bambini che della guerra così crudele riuscivano a farne un gioco innocente. A maggior conforto di quanto affermato, la casa – casa mia – da cui uscivano quei tre bambini col loro carrettino non fu più fatta oggetto di cannoneggiamenti.
Il cibo quotidiano
Il cibo scarseggiava; ogni giorno che passava diventava sempre più difficile procurarsene il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Soprattutto c’era scarsità di pane per l’impossibilità di procurarsi la farina con i mulini chiusi per mancanza di energia e per mancanza di uomini requisiti dai tedeschi e portati al fronte. Perciò bisognava arrangiarsi e trovare soluzioni alternative: una era quella di cibarsi tre volte al giorno di erbe varie raccolte nei campi e, quando andava bene, unirle a farina rossa di granturco; ne veniva fuori una specie di polenta verde-gialla striata non bella a vedersi, ma di sapore accettabile. L’altra soluzione fu escogitata dal sottoscritto e dal cugino Severino: ogni mattina di buon’ora, albeggiava appena, uscivano di casa e ci recavano in contrada Arduini a circa tre chilometri, ad aiutare i cuochi in una cucina di soldati tedeschi. In compenso potevamo portarci via i resti dei cibi cucinati e dello scatolame aperto ma non finito. Impresso nella memoria mi è rimasto il riso dolce che i tedeschi usavano mangiare due volte a settimana: erano giorni di festa per noi! La sera raccattavamo tutto il possibile, lo sistemavamo in tegami e pentole varie che legavamo con pezzi di corda ad una pertica e, uno davanti l’altro dietro, la pertica poggiata sulle spalle, tornavamo trotterellando verso casa. Così oltre a sfamare noi stessi, riuscivamo a dare un minimo di sussistenza anche ai nostri familiari ed agli uomini nascosti in soffitta per sfuggire alla cattura dei soldati tedeschi: tutto questo all’età di undici anni!!
Il cavallino rosso
I tedeschi, per approvvigionare le loro truppe, razziavano e requisivano tutto quanto capitava: olio, farina, patate (che loro chiamavano kartoff), ma soprattutto bestiame. Di notte, lungo la strada provinciale distante da casa circa un chilometro, transitavano intere mandrie di bestiame: vacche, capre, pecore, maiali, cavalli tutti razziati nelle campagne e sui monti di Pico, Pastena, Pontecorvo, S. Giovanni ed altri paesi vicini: si dirigevano verso Ceprano e la strada nazionale Casilina. Era notte, quindi gli uomini potevano uscire dalla soffitta in cui erano nascosti tutto il giorno per paura del rastrellamento dei tedeschi: ci appostavamo tutti – anche noi bambini – dietro le siepi lungo la strada ed aspettavamo che qualche animale uscisse dal branco e si perdesse nei campi sottostanti. Immediatamente veniva da noi silenziosamente catturato portato a casa e subito macellato. La notte stessa la carne veniva in parte distribuita tra le famiglie degli uomini che avevano contribuito alla cattura ed in parte veniva barattata con i vicini.
Fu in uno di questi appostamenti notturni che dal bestiame incolonnato lungo la strada da cui veniva un frastuono di belati, muggiti, grugniti e suoni di campanacci appesi al collo come richiami, scantonò un cavallino piccolo piccolo, rotondetto dal pelo rossiccio: era veramente un bell’animale, dal portamento nobile e dal pelo ben tenuto, la criniera lunga e fluente. Si capiva subito che non aveva mai lavorato e che era vissuto presso una famiglia benestante, forse come compagno di giochi dei bambini. Quando lo immobilizzarono per ucciderlo rivolse verso di noi bambini uno sguardo supplichevole con i suoi occhi grandi e dolci. Facemmo un tentativo per salvarlo, ma gli uomini non ci esaudirono. La dura legge della guerra valeva anche per i cavallini innocenti. Piangemmo in silenzio ed al buio. La sua carne non la mangiammo.
L’uomo sulla collina
Una mattina, mentre il cugino Severino ed io ci recavamo al “lavoro”, cioè andavamo in contrada Arduini ad aiutare nella cucina tedesca, notammo due soldati che armeggiavano intorno ad un cavalletto su cui stavano montando una mitragliatrice. La canna era rivolta verso la cima della collina davanti a noi: con lo sguardo seguimmo la sua direzione e scorgemmo la sagoma di un uomo che camminava lentamente sulla sommità con una camicia bianca e sulle spalle un bastone con appeso un fagottino avvolto con un panno rosso. Il sole nascente faceva risaltare la sua figura tra il verde dell’erba ed il colore rossiccio delle rocce sporgenti. I soldati si accosciarono dietro il cavalletto della mitragliatrice e presero accuratamente la mira: un crepitio improvviso ruppe il silenzio tutt’intorno. L’Uomo sulla collina colpito in pieno si accasciò al suolo e non si mosse più. I soldati smontarono la mitragliatrice, la caricano su un automezzo e se ne andarono, così semplicemente come se nulla fosse successo. Rimanemmo scioccati dall’accaduto. Non conoscemmo mai il nome dell’uomo vittima ignara di una guerra assurda e spietata.
Il paracadute
Un giorno mentre stavamo con i cuochi tedeschi in cucina, sentimmo il rombo assordante di aerei a bassa quota ed il crepitare di mitragliatrici antiaeree: erano “fortezze volanti” dirette verso l’interno e che andavano a bombardare le postazioni nemiche. Uscimmo fuori a guardare: un aereo era stato colpito dalle mitragliatrici e stava precipitando in una scia di fumo nero. Andò a schiantarsi in un fosso a confine tra la contrada Arduini, in cui ci trovavamo noi, il cugino Severino ed io, ed il territorio di Pico, con un boato terrificante ed una colonna enorme di fumo. Mentre guardavamo la colonna alta di fumo, scorgemmo nel cielo uno strano oggetto, una specie di grosso pallone con appeso un uomo che dondolando scendeva lentamente verso terra. Era un paracadute!!! Era la prima volta che vedevamo un oggetto del genere: il pilota dell’aereo abbattuto era riuscito a lanciarsi ed ora scendeva giù lentamente sotto lo sguardo attento dei soldati tedeschi armati di mitra. Dondolando dondolando, andò ad impigliarsi tra i rami di una grossa guercia vicino al fabbricato in cui era la cucina; rimase lì appeso finché i soldati tedeschi non lo aiutarono a scendere e lo portarono via prigioniero.
I due vecchietti
Il paese di S. Giovanni Incarico fu sottoposto a numerosi bombardamenti; la maggior parte delle case erano crollate ed un ammasso di macerie era visibile ovunque. Gli abitanti scampati cercarono rifugio in campagna ed in montagna ove era più facile mimetizzarsi e sfuggire agli attacchi dal cielo – bombardamenti e mitragliamenti – e da terra – cannoneggiamenti. La mia famiglia abitava in campagna; così anche da noi venivano a chiedere ospitalità ed alcuni rimasero con noi nel ricovero famoso. Vennero anche due vecchietti, marito e moglie, la cui casa nel paese era andata completamente distrutta. Lui si chiamava Mimmo detto “Lo storto”: aveva la gobba e camminava piegato completamente con la faccia verso la terra ed un bastone grosso e nodoso che sembrava una terza gamba. Qualche volta capitava che i ragazzi lo prendevano in giro e gli gridavano: “Addrizzati tubo..!!!” invitandolo a mettersi dritto in piedi. Allora lui gridava loro sempre la stessa frase: “Io sono dritto e sono a livella, addrizzati tu che sei una caccavella!!!”. La moglie era una donnetta mite tranquilla; parlava sempre a bassa voce come per non arrecare disturbo e seguiva il marito Mimmo ovunque come un’ombra. Si sistemarono da soli in un piccolo pagliaio addossato alla casa di zio Giovannino, il padre di Severino. La sera quando tornavamo dal “lavoro” presso la cucina tedesca agli Arduini, portavamo loro del cibo e ci fermavano un poco a far loro compagnia: li avevamo, il cugino Severino ed io, come adottati. La mattina presto, quando partivamo per andare dai cuochi tedeschi, Severino li vedeva già alzati e seduti su dei ciocchi fuori l’uscio, ad aspettare il sorgere del sole. Alcuni giorni dopo il loro arrivo, la moglie si ammalò gravemente con grande disperazione di Mimmo che si vedeva completamente perso senza il suo sostegno. Quando gli domandavamo come stava, ci rispondeva con voce rotta dal pianto: “Sta a pane bianco!”. Nonostante la mancanza di medicine e gli immancabili stenti, la donnetta si rimise in salute quasi miracolosamente e smise subito di mangiare il “pane bianco” che la carità dei vicini le avevano procurato, in quanto allora era riservato solo ai moribondi ed ai ricchi. Una mattina Severino mi disse di non averli visti seduti al solito posto. La notte era stata burrascosa, con cannonate e sparatorie varie. La sera al nostro ritorno, come di consueto andammo dai nostri vecchietti: li trovammo lì, ancora coricati sul loro misero giaciglio uno accanto all’altro, quasi abbracciati. Sembrava dormissero; lei col viso sereno e le labbra come dischiuse ad un accenno di sorriso; lui con gli occhi appena aperti come a scrutare il viso dolce di lei. Erano morti nel sonno colpiti entrambi dalle schegge di un colpo di cannone esploso a ridosso del pagliaio. Gli uomini avvisati, trasportarono di notte i loro corpi vicino alla strada provinciale e, scavata una fossa, li seppellirono lì, insieme. Il giorno seguente, appena tornati, il cugino Severino ed io, andammo a trovarli. Con due pezzi di legno facemmo una piccola croce e la sistemammo sulla terra ancora fresca. Era ormai scesa la sera; lentamente ci avviammo verso casa, gli occhi umidi e la tristezza nei cuori.
L’olio “ferrugginoso”
Mio fratello Pasquale era, a mio avviso, il più “ingegnoso’ di tutti, nel senso che riusciva con facilità a fare o costruire cose e congegni che nessuno degli altri si sarebbe mai sognato di realizzare. Tra le altre cose, un complicato alambicco per la distillazione della grappa dalla vinaccia: una grappa, a detta di tutti, di primissima qualità. La cosa che più ricordo è una macina per ricavare la farina dal grano, granturco, orzo ed anche per macinare le olive ed ottenere dell’olio, si direbbe oggi “extravergine”. Durante una licenza militare – era nella Guardia di Finanza – si procurò con gran fatica un miglio stradale, grande pietra rotonda su cui venivano indicati i chilometri, lo sistemò su delle lastre di pietre lavorate in modo da avere tutt’intorno un bordo tale da contenere il miglio e da convogliare l’olio in un’unica uscita. Praticò dei fori ad entrambi i lati del miglio; in essi conficcò dei ferri tali da poter far ruotare con un trascinamento rotatorio il miglio stesso sulle olive che man mano venivano lasciate cadere sotto di esso ed ecco l’olio sgorgare e stillare nel recipiente posto sotto la piccola uscita. L’olio era un cibo prelibato ed i tedeschi cercavano di scovarlo in ogni ripostiglio delle case per requisirlo. Allora fu escogitato il sistema di sotterrare le damigiane nei campi. Noi non avevamo disponibile un recipiente di vetro, perciò riempimmo tra l’altro e come scorta, anche una tanica di ferro sottratta ai tedeschi capace di contenerne venti litri. La sotterrammo ben bene sotto la mangiatoia della stalla ed attendemmo tempi migliori. Si succedettero nel frattempo tanti di quegli avvenimenti che dimenticammo la tanica d’olio sotterrata. Dopo la “liberazione” la tanica riuscì fuori e non ci parve vero avere la disponibilità di venti litri d’olio in un momento di scarsità di cibo davvero preoccupante, nonostante l’arrivo degli alleati. Quando fu svitato il tappo, avemmo la sorpresa di vedere un olio di colore rossastro dovuto alla ruggine del recipiente di ferro, ruggine che si era sciolta nell’olio. Cosa fare? I tempi non erano tali da poter essere schizzinosi, perciò decidemmo di mangiarlo lo stesso, sia crudo sull’insalata e sui pomodori verdi che cotto con gli altri cibi. Lo consumammo fino all’ultima goccia.
Subito dopo il passaggio del fronte, nella nostra zona imperversò la malaria, micidiale malattia che colpiva con una febbre fredda: tutto il corpo era percorso da forti ed incontenibili brividi che nessuna fonte di calore riusciva a lenire e calmare. Tutti ne furono colpiti, tranne il nucleo familiare del sottoscritto, cioè tutti coloro che avevano avuto il “privilegio” di consumare “l’olio ferruginoso”. Quando oggi, talvolta mi capita di raccontare l’episodio, il medico presente si fa la sua brava risata smentendo categoricamente la mia affermazione, cioè che fu tutta opera delle qualità dell’olio “ferruginoso” il fatto che nessun membro della mia famiglia fu colpito dalla terribile febbre malarica. Nessuno vuole crederci, ma io ne sono più che certo, anzi certissimo!!!
Il gas
Quel giorno nel cielo della valle del Liri si combatté una delle battaglie aeree più spettacolari a cui io abbia assistito – bambino di undici anni – in tutto il periodo della guerra sul fronte di Cassino. Una diecina di aerei leggeri delle opposte fazioni si fronteggiò con rara abilità con giravolte, picchiate, risalite rombanti, il tutto condito con sventagliate di mitragliatrici. Tre aerei furono colpiti a morte e precipitarono avvitandosi sui se stessi lasciando nel cielo una scia di fumo denso e nero come nuvole prima di un temporale. Al termine della battaglia, due aerei USA scesero a bassa quota e sorvolarono lo spazio sopra di noi che assistevamo all’evolversi del combattimento. A questo punto accadde una cosa strana: dalla coda degli aerei fuoriuscì una lunga scia bianca, densa. Il terrore si impossessò di tutti i presenti: il gas!! il gas!! gridarono tutti e fuggimmo a nasconderci e a rifugiarci dove capitava. Io di corsa raggiunsi la casa di nonno Pietro e mi rannicchiai nel sottoscala: con uno straccio sulla bocca e sul naso rimasi immobile, quasi non respirando per circa un quarto d’ora. Fuori era silenzio, non si sentiva più nemmeno il rombo degli aerei; per un momento pensai fossero tutti morti sotto l’effetto letale del gas asfissiante di cui di recente si diceva venisse impiegato in guerra. Poi pian piano tolsi lo straccio dalla bocca, annusai intorno: non si sentiva nessuno strano odore!! Pensai che se si fosse trattato veramente del micidiale gas asfissiante, non sarei stato lì ad annusare l’aria, ma in cielo a fare l’angioletto!! Dopo parecchio tempo venimmo a sapere che le strane scie dietro quegli aerei non erano altro che lo speciale vapore che fuoriusciva dai motori degli allora moderni aerei a reazione che noi avevamo avuto la “fortuna” di ammirare per primi!!
Il Cane
In un terreno attiguo a quello di nostra proprietà, c’era un pozzo con poca acqua la cui apertura non era più protetta dal muro di recinzione a causa di un colpo di cannone. Un giorno il cugino Severino ed io ci trovammo a passare nei paraggi alla ricerca di schegge e di asparagi, quando udimmo dei flebili lamenti di cui non riuscivamo a capire né l’origine, cioè se di bambino o di qualche animale, né la provenienza. In un primo tempo non demmo troppa importanza alla cosa e continuammo nelle nostre ricerche. Dopo alcune ore, era quasi il tramonto, ripassammo nei pressi del pozzo ed udimmo nuovamente i lamenti, sempre più deboli ma più insistenti. Dopo accurate ma inutili ricerche tra le siepi, in mezzo all’erba alta, nei crateri dei colpi di cannonate, i nostri sguardi all’unisono si concentrarono sul pozzo. Ci affacciammo guardinghi e nell’oscurità scorgemmo la testa di un cane: il corpo affondato, la testa a pelo d’acqua. Non sapevamo cosa e come fare per salvare quella povera bestiola. Ci mettemmo alla ricerca di una lunga corda che alla fine trovammo; con all’estremità un cappio scorrevole la calammo nel pozzo e cercammo di infilarlo nel collo del cane il quale stava immobile quasi a voler facilitare l’operazione. Dopo numerosi tentativi andati a vuoto finalmente nel cappio entrò la testa. Tirammo con cautela la corda ed il cappio si strinse intorno al collo; continuammo a tirare lentamente evitando strattoni. Era leggerissimo, dopo un po’ il cane era con noi in superficie: era ridotto uno straccetto, pelle e ossa, scosso da un tremito continuo. Chissà per quanti giorni era rimasto lì? Ci guardava con i suoi occhietti spiritati e dolci, quasi con riconoscenza. Si fece sfilare senza la minima rimostranza o paura il cappio intorno al collo che non si era nemmeno stretto, tanto il corpo era leggero, quindi zampettando infreddolito si allontanò e scomparve nell’erba alta del campo. Anche quel giorno avevamo compiuto la nostra buona azione!!!
Liberazione e post liberazione
Durante tutto il tempo dell’occupazione, la nostra casa era stata requisita dai tedeschi che ne avevano fatto sede del Comando Territoriale. Alla nostra famiglia ne avevano riservato una piccola parte. La grossa stalla ed i fienili erano stracolmi di cavalli di ogni razza e grandezza, l’aia e tutti gli spiazzi intorno erano pieni di ogni ben di Dio: camion, automezzi, carri cingolati di varia grandezza, armi e munizioni ed un carro armato “Tank” enorme, il tutto mimetizzato sotto tendoni color prato. C’era un via vai di soldati: chi andava al fronte e chi ne ritornava stravolto e con la divisa a brandelli. Una mattina notammo aria di smobilitazione, i soldati erano quasi tutti andati via con i mezzi e le masserizie; i pochi rimasti erano scuri in volto e ci guardavano con ostilità. Circolava la notizia che il fronte di Cassino era stato sfondato e che era avvenuto il ricongiungimento tra le armate che da tempo stazionavano sul fronte e le truppe provenienti dallo sbarco di Anzio-Nettuno avvenuto tra il 21 ed il 22 gennaio del ’44, mentre le truppe tedesche battevano in ritirata verso Roma ed il Nord. Dopo la partenza degli ultimi soldati, si respirava una strana calma: c’era nell’aria come un clima di attesa, si sentivano soltanto due spari di cannone a ritmo cadenzato, ogni quarto d’ora circa, provenienti dal grande fossato che dalla strada provinciale sotto la collina attraversava verticalmente la valle a poca distanza da casa, fino al fiume Liri. Incuriositi, il cugino Severino ed io, con grande circospezione e carponi tra l’erba alta, andammo a vedere cosa succedeva all’altra sponda del fossato da dove provenivano i colpi di cannone. C’era un grosso carro armato con una bocca di cannone enorme: sparava due colpi, si rimetteva in moto, si spostava di cento metri, si fermava, posizionava di nuovo il cannone e sparava altri due colpi. E così di cento metri in cento metri con due colpi alla volta, fino alla strada provinciale sotto la collina e poi ritorno sempre col medesimo sistema, dando al nemico l’impressione che allineati dietro il fossato ci fossero una cinquantina di carri armati che sparavano a turno. Incredibile!! Un solo carro armato con tre soldati a bordo teneva in scacco una intera armata equipaggiata delle armi più sofisticate, dando così modo all’esercito in ritirata di mettere quanto più spazio tra loro ed il nemico incalzante!! La notte il fossato fu fatto segno ad una teoria ininterrotta di bordate di cannonate da parte delle truppe alleate: ad un certo momento il cannone solitario cessò di sparare. Lo trovammo qualche giorno dopo in bilico sul ciglio del fosso con i cingolati squarciati da colpi di cannone andati a segno; passata la guerra lo smontammo pezzo per pezzo e lo rivendemmo come ferro vecchio ad un tale che ogni settimana passava col suo camioncino a comprare ferro di ogni tipo, anche schegge. Era il segno del ritorno alla normalità!! Il giorno successivo al silenzio del cannone solitario si avvertì nell’aria un rombo sordo che si avvicinava sempre di più e sempre più distintamente: jeep, cingolati di vari tipi e soldati con elmetti non a “tartaruga” come quelli dei tedeschi, ma rotondi e ricoperti di una retina mimetica, sbucarono a frotte dai campi. Uscimmo tutti fuori, anche gli uomini nascosti fino ad allora in soffitta, alzammo le braccia in segno di resa: Finalmente la Liberazione!!! Erano soldati alleati!! Ci riunimmo tutti sull’aia a festeggiare, ad abbracciare i soldati, a gridare e ballare di gioia! Improvvisamente una gragnola di colpi sibilò tutto intorno a noi: i soldati si buttarono stesi per terra invitando noi a fare altrettanto. I tedeschi in ritirata sulla collina ci stavano sparando addosso!! Per puro miracolo nessuno venne colpito: sarebbe stato una vera beffa, morire a guerra ormai finita!! Ma la festa e la gioia durò poco!! Già nel pomeriggio dello stesso giorno, notammo nell’atteggiamento di alcuni soldati qualcosa di strano, soprattutto da come guardavano le donne di qualsiasi età. Parte dei “liberatori” erano i famigerati marocchini facenti parte delle truppe francesi!! Inoltre le stecche di cioccolato ed i biscotti che i soldati elargivano a piene mani, erano purgativi: immaginarsi lo scompiglio e le conseguenze che questo fatto provocò!! In aggiunta ci requisirono nuovamente e questa volta, tutta la casa per adibirla anche loro a Comando. Fummo costretti a trasferirci alla periferia della contrada Colle Moscone, in una casetta messaci a disposizione dagli amici Mazzoluongo.
Il campo di lupini
Nelle adiacenze della casetta in contrada Colle Moscone c’era un campo di lupini, ormai giunti a maturazione. Se si passava nel campo, i lupini secchi nei baccelli emettevano un suono come di mille sonagliere agitate contemporaneamente. La sera dell’arrivo dei “liberatori”, la luna splendeva in un cielo insolitamente azzurro e stellato ed intorno regnava un silenzio strano. Verso le ventidue quel silenzio fu improvvisamente rotto da urla di donne che fuggivano inseguite dai soldati marocchini assatanati, nel campo di lupini. Le urla, gli strilli delle donne ed il suono dei lupini secchi riempivano l’aria ingigantiti dal silenzio della notte. Noi ragazzi non ci rendevamo conto di ciò che stava succedendo, ma ancora svegli, uscimmo all’aperto e rimanemmo colpiti dalla insolita scena che si svolgeva sotto la luce bianca della luna in una notte d’estate.
L’uomo con una mano sola
La stessa notte del campo dei lupini, nella cantina di una abitazione poco distante in cui si erano asserragliate un nucleo di donne terrorizzate, i soldati marocchini cercarono in tutti i modi di sfondare la nodosa porta, senza riuscirci. Provarono allora con un’ascia e praticarono un foro al centro: un soldato vi introdusse la testa. Nella cantina insieme alle donne c’era un solo uomo con una sola mano, con la quale impugnava una grossa accetta. Alla vista della testa introdotta nel foro della porta, alzò l’accetta e con un sol colpo la staccò netta, la testa dentro il corpo fuori!! Le urla e gli strilli delle donne risuonarono per tutta la contrada: si temette una ritorsione, invece nulla!! Si seppe poi che gli stessi alleati consideravano senza alcuna importanza la vita di quei soldati scellerati, anzi li ritenevano simili a bestie e li impiegavano sempre e solo in prima linea!! A guerra finita, alle donne rimaste vittime di questi stupri fu concesso un vitalizio abbastanza sostanzioso. Correva voce che molte donne, si mordessero le mani per non essere fra quelle!!!
La nostra tragedia
Una sera all’improvviso arrivò un uomo con in mano una carta, come un telegramma tutto sgualcito. Si avvicinò alla mamma, l’unica adulta presente il quel momento, parlò brevemente con lei e, come d’incanto, la mamma stramazzò al suolo. Il figlio Pasquale, mio fratello, di appena ventitré anni era stato ucciso a Roma dai soldati tedeschi in ritirata. Era nella Guardia di Finanza e aveva partecipato a tutta la campagna di Albania dove fu fatto anche prigioniero mentre combatteva su quelle montagne innevate, aspre ed infide. In pochi tornarono. Un pomeriggio, mentre transitava in Via del Pigneto, sopraggiunse una camionetta di soldati tedeschi con i mitra spianati; fece appena in tempo ad imboccare un portone ma una sventagliata lo raggiunse in pieno. Alla notizia rimanemmo tutti impietriti. è veramente triste morire dopo essere scampato a tanti pericoli ed a guerra quasi al termine!! Caro Fratello Pasquale, eri il migliore di tutti noi!!
I tempi nuovi
La grande bufera era ormai passata e le ultime propaggini della guerra si erano spostate al nord, nella Repubblica di Salò. Da noi cominciò a ritornare un minimo di normalità. Am-Lire, la nuova moneta introdotta dagli Alleati, e Borsa Nera soprattutto di derrate alimentari imperversavano. L’arte di arrangiarsi tutta italiana, raggiunse la massima perfezione. Tutti trafficavano in qualcosa, si inventarono mestieri mai esistiti prima, pur di procurarsi quel minimo di sostentamento per sopravvivere in attesa di tempi che si speravano migliori. Intanto si tentava di dimenticare le brutture ed i ricordi tristissimi della guerra appena vissuta. Si ballava dappertutto: nelle aie, nei cortili, sotto i pergolati, nelle sale allestite in fretta ed alla meglio. Tutti i nuovi ritmi frenetici americani venivano suonati da orchestrine improvvisate: si ballava, ballava, ballava!!! Era come un volersi stordire per dimenticare il passato e nello stesso tempo tuffarsi a capo fitto nel futuro, anche se la guerra non voleva farsi dimenticare continuando a fare vittime con i residuati bellici inesplosi. Come capitò ai piccoli fratelli Cesare e Bernardino Zagarolo, vicini di casa, ed ai loro amici seduti in cerchio intenti incoscientemente e per gioco a smontare un proiettile di mortaio inesploso trovato tra i sassi mentre giocavano. Fu una tragedia: un bambino morì all’istante, Cesare riportò ferite irrimediabili in tutto il corpo, Bernardino perse la vista di entrambi gli occhi. Io mi trovavo a passare nei paraggi e fui uno dei primi ad accorrere dopo l’esplosione: mi si presentò alla vista uno spettacolo agghiacciante e mai riuscito a dimenticare! Il territorio di tutta la valle del Liri era cosparso di armi di ogni genere: dai cannoni alle mitragliatrici, dalle bombe a mano ai proiettili di ogni tipo; armi e munizioni anche nuove, ancora imballate venivano usate da noi ragazzi per giocare alla guerra. Si erano formate bande di giovani e ragazzi negli opposti quartieri del paese e la sera giocavano alla guerra con armi vere; spesso si sentivano spari come durante la vera occupazione dei tedeschi e degli alleati. è per puro miracolo che le vittime di questi pericolosi giochi, furono davvero limitate. Un giorno, il cugino Severino ed io, trovammo una mitragliatrice tra un canneto che delimitava un campo seminato a fave; le piante erano nel loro pieno rigoglio; alte e diritte ondeggiavano sotto un venticello leggero. Sistemammo la mitragliatrice sul cavalletto con la canna rivolta verso il campo di fave; sparammo una infinità di colpi fino a che tutte le fave furono trinciate a metà. Stavamo ammirando compiaciuti la nostra opera, quando fummo costretti a darcela a gambe velocemente, inseguiti dai proprietari inferociti.
La vita intanto riprendeva il suo corso seppure lentamente. I tempi bui erano ormai dietro le spalle. Balli e suoni risuonavano ovunque ed erano come un invito a dimenticare ed a guardare con rinnovato entusiasmo al tempo che era davanti e che aspettava noi per essere vissuto!!! Questa è stata in parte la piccola grande guerra, combattuta come un gioco da un ragazzino, ma fatta da uomini per uomini veri e nonostante tutto e tutti vinta, se sono qui oggi a raccontarla!!
Ricordi, ricordi!!! Piccoli, grandi, nascosti, belli, brutti: si affollano e vorrebbero uscire tutti. A questo punto abbasso la saracinesca!!!
* All’epoca giovane adolescente, ancora oggi chiamato familiarmente Alpi.
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