LA VIOLENZA*

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«Studi Cassinati», anno 2023, nn. 2-3

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Fred Vittiglio – Fernando Fiorillo

Rileggiamo … pagine di storia edite ma poco note

Si propongono due brani di un testimone delle vicende post belliche rievocate in un volume dal titolo emblematico: Le bombe sono quelle cadute su Cassino ma anche quelle che non esplosero e che provocarono altri morti e lutti nella ricostruzione.La malaria è la malattia con più alta diffusione che infierì e mieté altre vittime.Coraggio fu quello dei padri e delle madri ricostruttori del territorio che operarono in una situazione difficilissima e precaria, tra sofferenze, difficoltà, con pochissime risorse economico-finanziarie e scarse prospettive occupazionali.Coraggio fu quello degli uomini, delle donne, dei figli che furono costretti a lasciare per necessità di sopravvivenza e con la riapertura della valvola dell’emigrazione iniziarono una nuova, difficile, vita in altri luoghi, in altri contesti.

Cap. XVII

Nel corso delle mie peregrinazioni seppi da un venditore ambulante che nella vicina S. Giorgio a Liri il giovedì c’era mercato. Un’idea allettante, quella di visitarlo, per me che ero sempre alla ricerca di qualche cosa di nuovo. Con impazienza attesi il giorno infrasettimanale. Mi avviai all’alba, a piedi, su una strada polverosa. Non avevo nemmeno una lira in tasca. Andavo per rivedere vecchi amici, non per fare acquisti. Provai una grossa delusione vedendo che la vendita riguarda­va solo pochissimi prodotti, in gran parte verdura, esposti da uno sparuto numero di commercianti. La gente, più che interessarsi alla merce, si fermava a parlare della guerra, delle distruzioni, delle morti. Sul viso di tutti si leggevano chiari i segni lasciati da qualcosa di troppo crudele che nessuno di loro aveva voluto e di cui erano stati vittime innocenti. Tra i vari incontri, ricordo quello con un mio coetaneo. Avevamo frequen­tato la prima avviamento a Cassino nella stessa classe. Con lui c’era la madre, molto giovane, con un viso perfetto, che sembrava non avesse mai conosciuto sorriso. Una tragica maschera su un corpo asciutto e sinuoso. Dopo un abbraccio reciproco l’ex compagno di scuola mi presentò. La donna allungò la mano destra senza dire una parola. Un gesto meccanico che aveva poco d’umano. Strinsi delle dita fredde, stranamente fredde. Chiesi dei danni arrecati alla sua abitazione dai bombardamenti. Alla risposta che non erano stati così gravi da non permettere di abitarla ancora, mi uscì spontaneo: «Come siete stati fortunati!». La mia interlocutrice s’incupì. I suoi splendidi occhi per un attimo fiammeggiarono. Le sue mani si chiusero ferreamente a pugno. Un fremito le sconvolse il corpo. Girò rapidamente su se stessa e si mise ad osservare un canestro di verdura. Con quella mia considerazione avevo aggiunto la beffa al danno! Lo seppi dal figlio, poco dopo. Egli mi prese sottobraccio e mi costrinse a seguirlo. Ci fermammo quasi alla periferia di S. Giorgio. Ci sedem­mo su un monticello erboso e raccontò.

«Abitiamo in una casa sita in una frazione del paese, alle pendici dei monti Aurunci. Dall’inizio della guerra abbiamo visto solo pochi Tedeschi che non ci hanno dato mai fastidio. Nonostante ciò, mio padre aveva scavato, sotto il letto, un rifugio ove si calava quando veniva a sapere che le SS rastrellavano uomini. Io, mia madre e mia sorella tredicenne ne abbiamo fatto uso in una sola occasione. Il 2 aprile 1944, due carrarmati, al comando di un tenentino austriaco, si fermarono presso la nostra casa. Il militare, che parlava bene l’italiano, spiegò che quella zona costituiva un ottimo nascondiglio e perciò vi si sarebbero fermati per qualche tempo. Col passar dei giorni facemmo amicizia. Addirittura mia madre e mia sorella lavavano gli indumenti agli equipaggi che, da parte loro, provvedevano a rifornirci di viveri. Per tutto l’arco della giornata i carrarmati rimanevano fermi, ma, allorché cominciavano a calare le prime ombre del­la notte, partivano per ritornare a mattino inoltrato. Alcune sere non uscivano. Allora i soldati bevevano con noi vino e cantavano canzoni. Ci tennero ininterrottamente compagnia fino all’11maggio. A sera si avviarono, ma il mattino successivo non tornarono. Durante la notte si era scatenato l’inferno. L’artiglieria alleata aveva cannoneggiato senza posa le postazioni tedesche ed alcune granate, addirittura, avevano distrutto il primo piano della nostra abitazione. Fortuna­tamente dormivamo a pianterreno. Verso mezzanotte uno sferragliare di cingoli ci avvertì che i nostri amici stavano rientrando. Vedemmo solo un carrarmato. Il tenente ci spiegò che l’altro era stato distrutto durante la battaglia e che quello era stato danneggiato. Dopo averlo riparato, immediatamente sarebbero ripartiti. Avendo gli Alleati sfondato il fronte sul Garigliano c’era bisogno anche di loro. Prima di salutarci prese mio padre per mano e se lo tirò appresso fino alla camera da letto. Gli consigliò di prendere con sé la famiglia e di abbandonare la casa. Aveva saputo che sarebbero arrivate le truppe marocchine, peggiori degli Unni di Attila. Dovunque passavano distruggevano e violentavano donne. Mio padre non gli credette e commentò quella parole accorate e drammatiche con un sorriso di sufficienza. Tuttavia da allora prendemmo a calarci nel rifugio dove sostavamo finché durava la luce del giorno. La mattina del 14 maggio ripetemmo il solito “rito”, più per abitudine che per convinzione che qualcuno ci avrebbe potuto fare del male. Da sotto il letto udimmo colpi di fucile, crepitio di mitragliatri­ci, scoppi di bombe a mano. Capimmo che la fanteria alleata si stava avvicinando a casa nostra. Rannicchiati nel fondo del nascondiglio, pregavamo. Nel pomeriggio il frastuono scomparve quasi del tutto. Mio padre, pensando che la battaglia fosse terminata, più volte tentò di abbandonare il ricovero. Ogni volta lo trattenne mia madre, ricordandogli gli ammonimenti del tenente. Mentre per l’ennesima volta si ripeteva il tira e molla tra i miei genitori, sentimmo dei passi sull’aia. Trattenemmo perfino il respiro per timore di essere individuati. Con orecchie attente seguimmo l’avvicinarsi degli sconosciuti. Io e mia sorella ci stringemmo forte a nostra madre. Dei passi pesanti sul pavimento sopra di noi ci informarono che erano entrati. Mentre stavamo chiedendoci muti chi fossero, sentimmo: “Paesano, paesano. Noi, Americani’’. Mio padre, sommessamente, esclamò felice: “Avete visto? Sono-Americani”, e si apprestò ad uscire. Glielo impedimmo. Dopo qualche attimo che a noi sembrò un’eternità, la stessa voce di prima, più dolce e suadente, ripeté: ‘’Paesano, paesano. Noi, Americani’’. Questa volta il nostro capofamiglia in un momento sollevò la branda ed uscì allo scoperto. Si trovò di fronte visi scuri poco rassicuranti. Armati di pugnali, vestivano in modo strano. Nonostante non avessero niente degli Americani, si fece loro incontro e chiese: “Siete davvero Americani?”. Avuta risposta positiva, gridò a noi che eravamo rimasti rintanati nella buca: “Uscite perché sono loro”. Non facemmo in tempo a mettere piede sul pavimento che due di quegli sgherri, dato uno spintone a mio padre, lo buttarono a terra, e presolo per i piedi, lo trascinarono fuori ove erano in attesa altre canaglie. Anche io, a calci, dovetti lasciare la stanza. Ci legarono. Per oltre un’ora i pianti delle nostre donne, le loro invocazioni e grida di aiuto ci torturarono. Risate sguaiate e respiri affannosi facevano eco ai gemiti delle disgraziate. Io e mio padre, guardandoci negli occhi piangendo, capim­mo in quale triste sorte erano incappate. La furia sel­vaggia di quegli individui aveva avuto ragione della loro ostinata resistenza. Anche mia sorella, a soli 13 anni, era dovuta diventare donna. Per forza. La guerra aveva consumato un altro dei suoi sacrilegi. La mia famiglia aveva pagato il triste prezzo dell’odio dei popoli ed alla sete di potere dei governanti, lì, a casa sua. Quegli animali, soddisfatti i loro turpi desideri, se ne andarono. Liberatici dai legami, rientrammo nel tempio profanato. Mia madre, coperta solo da qualche brandello di stoffa, era prona a terra. Il viso premuto sul pavimento, i lunghi capelli arruffati. Mia sorella era totalmente nuda. Il giovane corpo segnato da strisce rossastre, il volto rigato da lacrime. Lo sguardo era fisso, assente. Sembrava un burattino al quale avevano tagliato i fili. Dalle nostre bocche nessuna parola di conforto o di rabbia, ma solo l’invito concitato a rientrare nel rifugio. Nessuna si mosse o ebbe la forza per farlo. Le trascinammo a forza. La vergogna ed il torto subìto le avevano annientate. Restammo nell’angusto ricovero per tutta la notte. Mia madre si chiuse in un mutismo totale. Mia sorella, invece, con gli occhi innaturalmente sbarrati, gridava ogni tanto istericamente: “Lasciatemi, lasciatemi!”. Solo due giorni dopo ci decidemmo ad uscire all’aria aperta. Non avevamo più udito spari o bombardamenti: era segno che non si combatteva più. Come all’improvviso, d’estate, mentre il cielo è terso, si addensano grosse nuvole che scaricano giù acqua a catinelle e poi, subito dopo, il sole riappare, ma spento e meno caldo, così fu la vita che riprendemmo. Anche i nostri vicini avevano dovuto subire le violenze di quella masnada di bravacci. Tutta la zona era stata lordata dal passaggio dei Marocchini. Mia sorella rimase in stato di [s]chock per circa due mesi. Ancora non è guarita totalmente, anche se si è ripresa. Mia madre parla solo quando ritiene che sia necessario. Mio padre traduce continuamente il suo senso di colpa in frasi come: “È tutta colpa mia. Mi ammazzerò. Ho rovinato una famiglia».

Qui terminò il drammatico e sofferto racconto del mio ex compagno di scuola.

Attraversando S. Giorgio, sulla via del ritorno, incontrai altra gente. Una profonda tristezza accomuna­va tutti. La tristezza di chi ha subito e non ha potuto ribellarsi, la tristezza di chi nasconde in cuore un doloro­so segreto. Digiuno, mi avviai verso casa. La strada mi sembrava che non finisse mai. I crampi allo stomaco mi toglievano tutte le forze. Il tremore alle mani aumentò. Fumai tanto: tutte le cicche che trovai.

Circa due anni dopo seppi che quella famiglia era emigrata in Sudamerica. Invano cercai di procurarmi l’indirizzo della sua nuova residenza. Era partita senza lasciar tracce. Stando tanto lontana dalla terra che l’aveva generata, forse aveva voluto rompere i legami con essa, anche i più sottili, quasi a cancellare totalmente ciò che era stato.

L’iniquo processo*

Cap. XIX

Venne anche il giorno di ***, figlio di un nostro confinante. Aveva qualche anno più di me, mi considerava come un fratello. Proveniva dalla Sicilia, ove, con la famiglia, s’era rifugiato per sfuggire alla guerra. Nonostante la lontananza, se l’era passata bene. Lo si vedeva dalla floridezza del suo corpo. Gli toccò ripulire il suo terreno. Nemmeno lui sfuggì alla malaria. In breve divenne magro e smunto. Poi gli capitò di peggio.

Ritornando una mattina io e Amedoro da Cappella Morrone, ove c’eravamo recati a fornirci di viveri. Poco prima del Colosseo incontrammo l’amico. Piangendo per il dolore, si copriva l’occhio destro con una mano insanguinata. Gli chiesi cosa fosse successo. «Mentre stavo bruciando le erbacce che avevo sradicato è scoppiato qualcosa. Una scheggia mi ha colpito. Mamma, quanto soffro!», e scappò via veloce in cerca d’aiuto. Quando lo rividi, l’occhio non lo aveva più. Ed era stato anche «fortunato», perché aveva corso il rischio di perdere anche l’altro, colpito da una grave infezione. Nonostante la menomazione, ritornò a dissodare il suo terreno. Come se niente fosse successo.

Continuando lo stillicidio della guerra attraverso Io scoppio di bombe e proiettili, le autorità intesero porre un freno a tale tragedia, imponendo, attraverso manifesti, di consegnare armi e munizioni di cui si fosse venuti in possesso.

Una mattina, mentre andavo a falciare l’erba, passai attraverso l’orto dell’amico *** per cogliere un cetriolo. Avevo appena cominciato a mangiarlo che vidi tre carabinieri ed un graduato dirigersi gattoni verso il pagliaio ove quegli dormiva. Entrarono. Poco dopo ricomparvero tenendo in mezzo a loro, ammanettato, il povero giovane in lacrime. Seppi che lo avevano arrestato perché un delatore aveva informato la caserma che egli era in possesso di un moschetto tedesco. Mi sentii quasi colpevole al pensiero che glielo avevo regalato io. Dopo che fu rinchiuso per quindici giorni nelle carceri di Atina, fu processato. Il dibattimento giudiziario si tenne a Cervaro in un fabbricato semidiroccato. Io fui chiamato come testimone. Ero giunto da poco, quando si presentò il giudice: elegante ed impomatato, fece il suo ingresso con aria spavalda ed arrogante. Ordinò ad un carabiniere di accendere il fuoco nel caminetto perché c’era umidità, poi si piazzò dietro un tavolinetto. Nella stanza ce n’era un altro e qualche sedia.

Dopo aver apostrofato aspramente l’imputato, definendolo un criminale, mi chiamò al «banco» dei testimoni.

«Dove hai trovato il fucile che affermi aver regalato al ***?».

«Non lo ricordo perché si possono trovare dapper­tutto!».

«Non è vero ciò che dici perché io sono in possesso di una dichiarazione della Corenni Compagnia Italiana di rastrellamento in cui si afferma che il territorio di Cassino è stato ripulito di tutte le armi!».

«Signor giudice, la Corenni ha tolto di mezzo solo materiale di valore, che ha poi venduto di contrabbando, ma ha lasciato quello da cui avrebbe potuto ricava­re ben poco. Se vuole, se ne può accertare personalmente. Venga sul mio terreno e vedrà che ci sono ancora tre mortai ed un cannone. Altre armi sono nei poderi vicini».

«Stia zitto e non dica altre bugie. Per me fa testo la dichiarazione che ho!».

Intanto cercava di avvicinarsi il più possibile al fuoco e batteva spesso i piedi a terra, avendo freddo. Nonostante due avvocati difendessero l’accusato, il giudice si pronunciò per la condanna. Dopo un lungo preambolo, nel corso del quale affermò che, terminata la guerra, era ora di riorganizzarsi sotto le ali della legge, spesso elusa da sfollati e senzatetto, concluse dicendo che l’imputato era colpevole di non aver riconsegnato il fucile entro il 15 luglio, come da disposizioni.

«Siccome non lo ha fatto, lo condanno a 18 mesi di detenzione!».

Un grido di disperazione del mio amico fece eco alla sentenza. Increduli, i due avvocati si guardarono negli occhi. Il più anziano esclamò: «Non c’è più umanità». Il giudice raccolse in fretta le sue carte e, senza dire altro, se ne andò. Con un groppo alla gola ed un senso di sfiducia nelle ricostituende istituzioni, a piedi tornai a casa. Durante il percorso non sapevo darmi pace per la sfortuna che si era accanita contro il mio amico. A nemmeno sedici anni era stato costretto ad abbandonare Cassino e rifugiarsi in Sicilia. Ritornato dopo un paio d’anni, s’era costruito un pagliaio ove dormire. Circondato da proiettili e bombe, aveva perso un occhio per lo scoppio di un ordigno. Un moschetto regalatogli lo aveva portato addirittura in galera. Aveva frequentato solo la seconda elementare e leggeva a stento. Allorché a Cassino furono affissi i manifesti che imponevano la consegna delle armi, non lo seppe da nessuno. Dovendo lavorare non andava mai in città, e, se anche lo avesse fatto non sarebbe riuscito a decifrare cosa era scritto su quei pezzi di carta. Nonostante ciò, nonostante il giudice esercitasse in un’Italia martoriata, nonostante la guerra avesse danneggiato tanto gli Italiani fu punito duramente perché sapeva leggere po­co e lavorare molto. E in quei tempi, a dire il vero c’era bisogno essenzialmente di instancabili lavoratori.

* Fred Vittiglio, Fernando Fiorillo, Cassino. Bombe malaria e … coraggio, Ciarrapico editore, Roma 1979, pp. 145-152 (Capitolo XVII).

* Fred Vittiglio, Fernando Fiorillo, Cassino. Bombe malaria e … coraggio, Ciarrapico editore, Roma 1979, pp. 145-152 (Capitolo XIX).

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