Ahi le trote! “Vi ricordate le trotelle del Liri?”

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di Marcello Ottaviani

014.jpgFino ad alcuni decenni fa, la trota era un pesce molto ambito e ricercato.
Per gli abitanti della Valle del Liri, poi, la trota compariva spesso in tavola ed era un vanto per i pescatori locali pescarla e, quando era abbondante, regalarla ad amici e conoscenti.
Molto apprezzata era (ed è ancora) la trota del Fibreno, sorella di quella del Liri, detta anche carpione del Fibreno (salmo fibreni), dall’occhio molto grande, le dimensioni piccole, il muso arrotondato e il sapore squisito.
Non sappiamo se la famiglia di Cicerone, che aveva una villa con terreni sul Fibreno, amasse le trote: forse Marco Tullio, da buon politico, preferiva cibi più robusti. Ne era ghiotto invece il papa Alessandro VI Borgia, le voleva sulla sua tavola e ne faceva dono ad amici e potenti.
“Dopo il prosciutto delle montagne di Fondi sono venute in tavola le trotelle del Liri. Bel fiume, il Liri. Sulle sue verdi rive molti dei vostri goumier sono caduti col viso nell’erba, sotto il fuoco delle mitragliatrici tedesche. Vi ricordate le trotelle del Liri? Sottili, argentee, con un lieve riflesso verde nelle delicate pinne di un argento più scuro, più antico. Somigliano le trotelle del Liri, alle trotelle della Foresta Nera: alle Blauforellen del Neckar, il fiume dei poeti, il fiume di Holderlin, e a quelle del Titisee, e alle Blauforellen del Danubio a Donaueschingen, dove il Danubio ha le sorgenti.” Sono parole di Curzio Malaparte ne “La Pelle”. Quale elogio più spassionato e sincero questo pesce poteva ricevere? Era Malaparte un raffinato buongustaio.
Non potevano perciò i nostri signori del passato non amare questo squisito pesce e, a volte, ne difendevano il possesso col coltello tra i denti (anche se il pesce non si mangia col coltello).
Il primo episodio che mi piace ricordare riguarda le “trotte” del Fibreno della località che oggi si chiama Ponte Tapino, in passato confine tra il Ducato di Sora e il Ducato di Alvito. Così ne parla Torquato Vizzaccaro: “Il tre giugno 1695 una singolarissima vicenda giudiziaria iniziava il suo iter. La riportiamo nella quasi totale integrità, investendo essa figure e vicende particolari della nostra terra”1.
I protagonisti della vicenda furono il duca di Alvito Francesco II Gallio e il duca di Sora Gregorio Boncompagni, che aveva sposato Giustina Gallio, sorella di Francesco, “formosissima fanciulla, ricolma di grazia e di ingenuità.”2. I due protagonisti erano dunque cognati.
Val la pena di spendere due parole sul duca Francesco Gallio, per capire quanto avverrà in seguito: a differenza degli altri componenti della famiglia, che si dimostrarono persone degnissime, fu avidissimo, cinico e spietato3. Durante una sua assenza da Alvito Tolomeo II, padre di Francesco, fu costretto per le soperchierie del figlio a scrivere una lettera al governatore di Napoli: “La mia disgrazia è grandissima, mio figlio primogenito, di tanta età e con moglie e successione mi ha sforzato a fare nuovo ricorso a voi … Mi ha … spolpato, saccheggiato tutto lo Stato …4. Francesco Gallio, che conduceva a Napoli vita dissoluta e dispendiosa, era spesso a corto di risorse e “quando all’alvitano vennero a mancare i denari liquidi … Studiò il modo come reperirli, anche e soprattutto con fraudolenza”5.
Il pretesto della lite fu l’esistenza di un mulino con palizzate del duca Gregorio Boncompagni a Ponte d’Apino (oggi Ponte Tapino), che secondo Francesco Gallio impedivano il libero passaggio delle trote nelle acque, privandolo di conseguenza di un così gustoso piatto. Il Cancelliere della Suprema Corte della Vicaria di Napoli Martucci fu inviato sul posto per dirimere la questione. Palesemente favorevole al Duca di Alvito, impose al Duca di Sora di togliere tutti i manufatti che, secondo l’alvitano, impedivano il normale passaggio delle “trotte” nelle acque. Furono scelti dei periti, provenienti da Roccasecca dei Volsci, che avrebbero dovuto giudicare sulla legale costruzione del mulino con annesse palizzate. Ma “Contro tale elezione si frappose ricorso: prima perché erano stati eletti periti non sottoposti alla regia giurisdizione, o come si diceva allora regnicoli, e poi perché il Martucci, e qui sta il pomo della discordia, aveva incluso tra le opere che dovevano essere demolite, il mulino feudale del Duca di Sora, detto di S. Martino, distante circa due miglia dal ponte d’Apino, che divideva le due giurisdizioni territoriali”6.
Il 15 giugno 1695, chiamato dal duca di Sora, Gregorio Boncompagni, intervenne il Commissario Gaetano Argento, che ordinò di togliere solo quei manufatti, che impedivano “… il libero deflusso delle trotte nelle acque del Fibreno e dei suoi affluenti e sanzionò che il mulino era stato costruito solo per agevolare i vassalli della località e che di esso potevano usufruire liberamente coloro che avessero sentito la necessità di servirsene”7. Il Commissario Regio constatò inoltre che l’abbondanza delle trote era nel territorio dei Gallio, per “quel sommo vantaggio che tiene questi per l’erbe ed incannucciate che si veggono così spesse nella parte del fiume che è sotto la sua giurisdizione, nella quale le trotte fanno volentieri lor dimora e si trattengono quasi sempre per esser loro connaturali, né mai da quelle si partono e vanno all’ampio fiume se non per sfetare: lo che fatto subito tornano a ricovrarsi”8.
Ritenne inoltre il Commissario Regio che le “pannine”, le palizzate, non trattenevano in alcun modo le trote e che lecito era l’uso delle nasse9, per la loro cattura. Vogliamo aggiungere altro? La sentenza fu salomonica e il duca Francesco accontentato: la sua volontà, non tanto coperta, era quella di spillare denari al cognato Gregorio Boncompagni con l’appoggio del Martucci: a scapito delle trote, che continuarono a comparire nel piatto dell’alvitano!

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Il secondo episodio, più vicino a noi, è avvenuto alla fine del secolo XIX.
Il 18 dicembre 1889 il Tribunale di Frosinone dà incarico all’ingegnere civile Boldi Marco, con studio tecnico a Roma, di eseguire una perizia giudiziaria nella causa civile tra il marchese Anton Filippo Ferrari e il conte Pier-Luigi Negroni “… per un diritto esclusivo di pesca vantato dal 1° nel fosso Amaseno, a confine dei territori di Strangolagalli e di Monte S. Giovanni e precisamente alla foce del Fosso istesso nel fiume Liri,”10.
Anche in questo caso si vantano antichi diritti, come vedremo, che risalgono molto indietro nel tempo, ma che vengono messi in discussione, essendo  i tempi cambiati.
Per chi non conoscesse lo scenario in cui si svolsero i fatti, spiego che l’Amaseno è un fiumiciattolo (viene chiamato fosso) che nasce nei pressi di Rendinara, a circa mille metri d’altezza, ai confini con l’Abruzzo, costeggia la Certosa di Trisulti, scende verso l’Abbazia di Casamari, lambisce Monte San Giovanni Campano, per finire nel Liri nei pressi di Strangolagalli. Oggi è quasi scomparso. In passato però aveva più importanza ed è ricordato da Virgilio nel libro VII dell’Eneide per la leggenda di Camilla e di suo padre Metabo11.
Nei pressi della confluenza dell’Amaseno nel Liri, la famiglia del marchese Ferrari vantava un diritto esclusivo di pesca, che “… nell’Agosto del 1593, la Comunità di Monte S. Giovanni, donava al Capitano Pomponio Ferrari, in compenso dei molti servizi ch’egli aveva resi a quella universalità”12.
In passato molto pescoso, il Liri era diventato già nell’Ottocento povero di pesce, essendo cresciuta la popolazione (e quindi i pescatori), le tecniche di pesca divenute più raffinate e l’industria (cartiere specialmente) più sviluppata. Pertanto il marchese Ferrari s’ingegna di avere ancora abbondanza di trote, cercando le condizioni migliori di pesca. Quali sono le cause che allontanano il pesce dall’Amaseno e dal “nassaro”? Ne vengono elencate diverse: rumori molesti, tagli degli alberi, spari di cacciatori, ecc. … Copertamente il Marchese incolpa di questo mancato introito giornaliero di pesce (si parla di kg. 40) i proprietari dei fondi situati sulle due rive dell’Amaseno, cioè il conte Negroni, che ha fondi sulla riva destra, e il conte Lucernari, che ha fondi sulla riva sinistra.
Il rimedio? Non si dovranno tagliare alberi nel periodo della pesca, dovranno tracciarsi stradelli lontano dalle rive, in modo che i pesci non vedano i pescatori e non scappino, non si dovranno fare rumori molesti. Questo è ciò che l’ingegnere perito propone al tribunale.
A noi non interessa l’esito della controversia. Sono interessanti le notizie sul luogo13, su diritti ancora esistenti e non più accettabili, su abusi (come quello di cancellare con l’aratro uno stradello), sul modo di pescare. Si parla ancora delle nasse, delle reti usate (si deplora che per avidità di lucro vengano pescati i pesci troppo piccoli che impoveriscono il fiume), specialmente del “nassaro”, un sistema di chiusura totale dell’Amaseno con nasse speciali, che, unito alle reti, impedisce al pesce di fuggire.
Ancora più interessante la descrizione della fauna ittica presente nel Liri   (le trote entrano dal Liri nell’Amaseno per la riproduzione in quanto le acque del torrente sono più calde): “Il Liri ha sempre avuto fama di pescoso e senza dire delle lamprede, degli Storioni, delle trote, e dei crostacei, per cui, nel suo corso inferiore (Garigliano), andava famoso nella antichità; nel tratto che c’interessa ha sempre dato, fino a non molti anni fa abbondante prodotto di trote (Trotta fario Linn.o), di Squali (Squalus cavedanus B. p), di barbi (Barbus plebejus Val.), rovelle (Leuciscus aula B. p), anguille (Anguilla vulgaris).”14
Le grandi riforme napoleoniche non riuscirono sempre a spazzare via subito privilegi goduti per secoli: passarono altri decenni prima che lo Stato imponesse la sua giurisdizione su strade, ponti e fiumi.


1 Torquato Vizzaccaro, “Francesco Gallio Duca di Alvito e le trote del Fibreno cronache del XVII secolo”, Tipografia dell’Abbazia di Casamari, s.d., pag. 3.
2 Ivi, pag. 9.
3 Domenico Santoro, “Pagine sparse di storia alvitana”, riportate da Rosanna Tempesta in “Il Ducato di Alvito nell’Età dei Gallio”, Alvito 1997, pag. 296.
4 Ivi, pag. 296.
5 T. Vizzaccaro, op. cit., pag. 9.
6 Ivi, pag. 6.
7 Ivi, pag. 7.
8 Ivi, pag. 8.
9 Nassa. Cesta di giunco, vimini, o rete metallica, forma conica, chiusa ad un’estremità e con imboccatura a imbuto, per la quale facilmente entra il pesce senza poterne uscire.
10 A.S.F., Tribunale di Frosinone, Verbali di Istruttoria, reg. 363, b. 321, pag. 2 ( la numerazione delle pagine è mia, n.d.a. ).
11 Cfr. Valentino Visca, Monte San Giovanni Campano e Canneto nei secoli, 2008, vol. I, pagg. 9-13.
12 ASF, Tribunale di Frosinone, ecc..,pag. 12.
13 Anche in questo episodio riferito si parla, come nel precedente, di un mulino, che si doveva raggiungere attraversando l’Amaseno. L’importanza dei mulini nel passato era notevole. L’autore di questo articolo sta lavorando sulle antiche mole di Fontana e spera di farne una pubblicazione.
14 ASF, Tribunale di Frosinone, pag. 11.

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