«Studi Cassinati», anno 2024, n. 1
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L’Abate emerito di Montecassino e Arcivescovo emerito di Gaeta, Mons. Bernardo Fabio D’Onorio, da ieri cittadino onorario della Città di Cassino, ha presieduto la concelebrazione della funzione religiosa a ricordo dell’80° anniversario della distruzione di Montecassino solennemente svoltasi nella Basilica Cattedrale al cospetto di autorità civili e militari, di alcune classi della Scuola San Benedetto di Cassino, di rappresentanti di Associazioni, di religiosi e religiose e di molti cittadini del comprensorio da sempre legati alla comunità monastica cassinese. Su tutti vegliava la Reliquia del santo Patrono d’Europa esposta sull’Altare Maggiore della Basilica Cattedrale.
L’omelia tenuta da mons. Bernardo D’Onorio
Grazie mille, rev.mo Padre abate Luca per l’onore che mi riserva nel presiedere la santa Eucarestia oggi che ricade il triste anniversario degli 80 anni della distruzione di questa veneranda abbazia, che da me è stata sempre amata e ancora lo è perché qui ritrovo le mie radici, la mia formazione monastica e culturale, sostenuta dagli esempi dei grandi abati Idelfonso Rea e Martino Matronola e dalla vita esemplare di tanti monaci. Perciò la mia riconoscenza continua immutata, anche in questa mia età avanzata.
Un saluto ai cari confratelli della Comunità, ai fedeli qui convenuti, al sig. Prefetto di Frosinone dott. Ernesto Liguori (e consorte), alle autorità civili e militari, al sindaco di Cassino dott. Enzo Salera e agli amministratori comunali, che ancora ringrazio per la cittadinanza onoraria.
Le parole che vi rivolgo, come diceva il card. Martini, sono indirizzate anche a me e prendetele come una mia meditazione ad alta voce, un parlare con Dio per poter meglio parlare a voi.
Sono passati, dunque, ottanta anni dall’insensato bombardamento che Montecassino subì nel secondo conflitto mondiale e lo ricordiamo oggi ancora con immenso dolore.
In quel tragico giorno del 15 febbraio 1944, come ha scritto nel Diario di Guerra Martino Matronola, alle ore 9,45 152 fortezze volanti dell’aviazione Alleata, le note B-17, iniziarono a lanciare sull’abbazia ben 450 tonnellate di bombe esplosive e incendiare. Successivamente altre 118 fortezze volanti tornarono a colpire ancora il monastero. Completarono l’opera ulteriori bombardamenti condotti da bimotori che sganciarono ordigni a bassa quota e le operazioni belliche cessarono solo nel pomeriggio.
In totale ben 776 furono gli aerei impiegati dalle Forze Alleate.
I circa 500 rifugiati, con molte donne e bambini, che speravano di trovare nell’abbazia un luogo sicuro, terrorizzati dalle esplosioni e presi dalla disperazione lasciarono lo Scalone delle epigrafi e iniziarono la fuga verso la pianura.
Così in poco tempo si compì il totale annientamento del sacro edificio.
Restava il pianto per i morti, restava il dolore per un monumento di arte e di spiritualità perduto, restava l’incredulità del mondo intero per il misfatto compiuto del luogo da sempre dedito all’Ora et Labora.
Due giorni dopo, il 17 febbraio, l’anziano abate Diamare poté abbandonare incolume il cumulo di macerie: tutto ciò che restava del monastero.
Ma perché proprio Montecassino? Ancora oggi ce lo domandiamo e tentiamo di dare qualche risposta, ma nessuna spiegazione di carattere politico o militare riesce a giustificare un gesto così insano.
Con la sua autorevolezza così ebbe a dire Papa S. Paolo VI: «Montecassino fu bombardata e demolita. Uno degli episodi più tristi della guerra fu così consumato. Non possiamo non deplorare che uomini civili abbiano avuto l’ordine di fare della Tomba di San Benedetto, bersaglio di spietata violenza».
S. Agostino nella sua celebre opera Le confessioni, annota le ultime parole della madre S. Monica, che si trovava ad Ostia e ormai vicina alla morte: «Seppellite qui la vostra madre». Agostino e il fratello espressero invece l’augurio che la morte non la cogliesse in terra straniera, ma nella propria patria: l’Africa. Ma S. Monica rispose con una certa decisione. «Seppellirete questo mio corpo dove che sia senza darvene pena. Di una cosa sola vi prego: ricordatevi di me, ovunque siate, dinanzi all’altare del Signore». L’evento della morte coinvolge sempre non poche dimensioni di coloro che rimangono nel pianto, ma un posto centrale è riservato alla memoria e per noi cristiani è importante anche la preghiera di suffragio. La morte non cancella il ricordo, ma il ricordo non può cancellare la morte.
Spesso si sente ripetere in occasione della scomparsa di qualche congiunto: «I defunti vivono nel cuore di chi resta».
Questo può risultare suggestivo e consolante, però a pensarci bene si avverte tutta l’inadeguatezza dell’espressione. I discepoli del Signore Risorto non possono accontentarsi del solo ricordo altrimenti, come afferma san Paolo, questi discepoli sarebbero da compiangere più di tutti gli altri uomini. Perciò Monica chiede ai figli sì il dolce ricordo nel cuore, ma soprattutto che la sua vita la si metta nelle mani del Signore.
Oggi, allora, vogliamo mettere nelle mani dell’Onnipotente tutte le persone cadute nella seconda guerra mondiale, tutti i civili e i militari che persero la vita lungo la linea Gustav, da Ortona al fiume Garigliano e poi qui a Montecassino, nella città martire di Cassino e in tutto il suo circondario.
Allo stesso tempo facciamo pure memoria delle vittime innocenti della Shoah e di tutti gli uomini, donne e bambini uccisi in tempi recenti nella guerra in Ucraina, nel Medio Oriente e in altri 50 Paesi del mondo.
E intorno all’altare, nella celebrazione Eucaristica, che si radunano coloro che desiderano la vita, sapendo bene che lì solo trovano la fonte inesauribile.
Conosciamo tutti che la parola greca «Eucarestia» significa riconoscenza, gratitudine, rendere grazie. Perciò oggi 15 febbraio 2024 il nostro ringraziamento si scioglie in una anamnesi nella quale facciamo memoria sì della triste distruzione dell’abbazia di Montecassino ma anche della sua ricostruzione, e così della amata Cassino, che una volta solo adagiata alle pendici di Rocca Janula e Monte Maggio, ora invece estesa come una grande città, operosa e baciata dal sole.
Cantiamo la nostra gioia pensando al celebre motto Succisa Virescit; l’abbazia è risorta, forse più bella di prima, voluta «come era e dove era» dall’indimenticabile abate Ildefonso Rea che così realizzava, con rara competenza, il programma di ricostruzione
A suggellare il monastero risorto fu la presenza il 24 ottobre 1964 del papa Paolo VI, il quale sulla scia dei suoi predecessori riconsacrò questa magnifica cattedrale che richiama la precedente basilica dallo stile inconfondibile di arte barocca napoletana. È proprio da questa cattedra che papa Montini proclamò S. Benedetto patrono principale dell’Europa, evento di portata storica e di alto significato per la vita monastica e civile. Nella sua omelia, profonda e di forte afflato poetico, Paolo VI fece l’elogio dell’opera dei monaci nei tanti monasteri d’Europa, sostenuti dal dono della Pace.
E su questo tema il papa invitò i figli di san Benedetto a fare della Pace un emblema da scrivere “sulle soglie” dei monasteri, ma “ancora meglio” da imprimere come legge “soave e forte” nei loro animi.
Chi viene a Montecassino è subito accolto dal motto Pax che è augurio e sollecitazione non solo per monaci anche per molti altri. L’invito è rivolto anche ai signori della Città, cioè a coloro che gestiscono la Res Publica affinché abbiano intelligenza e coraggio di cercare nell’oasi del monastero quella forza spirituale necessaria nei momenti difficili delle scelte. In questo luogo sostanziato dalla preghiera e dal lavoro, i fedeli saranno anche invasi nell’animo «dal corteo dei ricordi antichi, delle tradizioni secolari, dei vessilli della cultura e dell’arte, delle figure di Pastori, degli abati, dei monaci e dei Santi!» che per secoli hanno caratterizzato la Terra Sancti Benedicti.
A Montecassino parlano ancora le antiche mura poligonali e con esse le nuove, quelle della ricostruzione avvenuta per merito dello Stato italiano.
Ed è stata la pace che le ha fatte risorgere.
Carissimi, l’Eucarestia che stiamo celebrando sia un inno di lode e di ringraziamento in modo particolare per la ricostruzione di Montecassino, faro di spiritualità e di civiltà per secoli, grazie all’opera illuminata di abati e di monaci che hanno qui profuso amore, intelligenza e lavoro non comuni.
A conclusione un augurio grande: il Signore, datore di ogni bene, ci protegga sempre e faccia risplendere il suo volto su di noi per poter essere operatori di pace.
Saluto di ringraziamento dell’Abate Luca Fallica
Ringrazio tutte le autorità, civili e militari, intervenute a questa celebrazione, nell’ottantesimo anniversario del bombardamento che ha distrutto la nostra abbazia, un mese prima che la stessa sorte la accomunasse alla città di Cassino. E ringrazio in particolare dom Bernardo, Arcivescovo emerito di Gaeta e già Abate di questa nostra abbazia, che proprio ieri ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Cassino, conferitagli unanimemente dal Consiglio Comunale della città martire. Lo ringrazio per aver accolto prontamente, e con grande cordialità, l’invito a presiedere questa celebrazione eucaristica, e soprattutto per le parole, chiare e incisive, che durante l’omelia ci ha rivolto sul tema della pace. Ringrazio in particolare i ragazzi e le ragazze della nostra Scuola, l’Istituto san Benedetto, per la loro presenza: noi ci impegniamo a consegnare loro la memoria di quanto accaduto e loro ci consegnano l’attesa con la speranza del futuro che diventa per noi impegno e responsabilità.
Nel corso di quest’anno ci apprestiamo anche a celebrare, il prossimo 24 ottobre, il sessantesimo anniversario della consacrazione di questa Basilica, dopo la sua ricostruzione, da parte di san Paolo VI, che in quell’occasione proclamava san Benedetto patrono principale d’Europa con la Lettera apostolica Pacis nuntius. Definendo san Benedetto ‘messaggero di pace’ affidava anche a noi monaci, suoi discepoli, l’impegno a far sì che il nostro motto ‘Pax’, pace, fosse posto al centro della nostra preghiera, del nostro impegno di vita, della nostra incessante preoccupazione, in particolare attraverso quelli che sono stati e rimangono simboli caratteristici della presenza della vita benedettina nella storia europea e non solo. San Paolo VI li ricordava: la croce, e dunque una spiritualità fortemente pasquale; l’aratro, come segno del lavoro e dell’impegno nella storia, il libro, simbolo di una responsabilità culturale e di dialogo con il pensiero e la ricerca umana.
Quest’anno il calendario ha voluto che questa celebrazione cadesse proprio all’inizio della quaresima, aperta ieri dal mercoledì delle ceneri. Per questo motivo ha assunto il carattere sobrio e penitenziale tipico del tempo quaresimale. Come ben sappiamo, il cammino quaresimale ci conduce verso la Pasqua, quando ascolteremo, nei racconti di risurrezione, più volte Gesù salutare i suoi discepoli dicendo loro «pace». Non è solo un saluto, è l’offerta di quella pace che solo lui può donare, e che il mondo non sa dare, come ci attesta la memoria di quanto accaduto ottanta anni fa e come purtroppo ci testimonia quanto continua ad accadere, con insensata violenza, anche ai nostri giorni, e in molte parti del mondo.
La pace che dona Gesù è frutto della sua Pasqua, della sua morte e risurrezione, del suo corpo dapprima annientato e poi richiamato alla vita dalla potenza di amore del Padre. Noi desideriamo e preghiamo affinché anche la distruzione della nostra Abbazia e della città di Cassino siano davvero partecipi del mistero pasquale. Esse sono tornate a vivere dopo le distruzioni belliche, ma la Pasqua esige da noi di più: di essere, proprio perché custodi di una memoria che non dimentica il dolore, la sofferenza, i troppi morti, essere e diventare in modo sempre più efficace annunciatori, come san Benedetto, di pace, artefici di pace, costruttori di pace, ricordando la beatitudine di Gesù: «beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Essere figli di Dio, cioè uomini e donne autentici, nella piena fioritura della loro umanità creata da Dio a sua immagine e somiglianza, significa essere facitori di pace, ovunque si svolga la nostra vita e si attui il nostro impegno.
Grazie, dom Bernardo, per avercelo ricordato con la sua parola, e grazie a tutti voi, perché la vostra partecipazione a questa celebrazione ritengo esprima non solo la volontà di un dovuto ricordo del passato, ma anche il desiderio di un impegno nel presente, secondo la spiritualità benedettina ricordata da Paolo VI: attraverso la croce, l’aratro e il libro dobbiamo davvero tutti, ciascuno secondo la sua competenza, impegnarci a disegnare quello che Giorgio La Pira chiamava il «sentiero di Isaia», un sentiero di pace in cui appunto le armi fossero trasformate in aratri, come scrive Isaia -; sentieri nei quali – l’espressione era proprio di La Pira, anche se oggi viene spesso ripresa da papa Francesco – si potesse «abbattere il muro di diffidenza tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti».
Foto ©Roberto Matronardi per g.c.
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