15 MARZO 1944: CASSINO «TERRA MURATA DI SANGUE E DI MARTIRIO»

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«Studi Cassinati», anno 2024, n. 1

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Gaetano de Angelis-Curtis

Per otto lunghi mesi la città di Cassino e le aree del Cassinate sono divenute, loro malgrado, l’ombelico della Seconda guerra mondiale. Il passaggio del fronte di guerra ha finito per incidere fortissimamente su ogni aspetto della vita delle popolazioni locali, caratterizzato come fu dai tanti eventi luttuosi con i morti per bombardamenti, per cannoneggiamenti, per rappresaglie, contrassegnato da sofferenze e patimenti, dalle distruzione totale o pressoché tale di città, paesi e di millenari luoghi di culto, dalla diaspora con lo sfollamento prima volontario in grotte e ricoveri di fortuna e poi coatto in centri di tutt’Italia, dalle violenze anche quelle fisiche e degli stupri, con l’aggiunta dei giovani del territorio divenuti soldati, richiamati alle armi e mandati a combattere nei vari fronti di guerra molti dei quali caduti o internati in campi di concentramento o di detenzione.

Parimenti nel dopoguerra i sopravvissuti e quelli che via via rientravano dai luoghi di sfollamento si ritrovarono a vivere nell’immediato in difficili condizioni a causa della penuria di abitazioni, della mancanza di cibo, della recrudescenza della malaria e di altre malattie, della scarsità di medicine, della carenza di personale medico e di strutture sanitarie, dell’insufficienza di prodotti per l’igiene, della presenza di notevoli quantitativi di residuati bellici inesplosi, senza lavoro e con poche o nulle aspettative future. Poi di fronte alla totale mancanza di prospettive si riaprì fortissima la strada dell’emigrazione, dell’abbandono della terra natìa come unica valvola di compensazione.

I civili

La città di Cassino subì il suo primo bombardamento il 10 settembre 1943, due giorni dopo l’annuncio dell’Armistizio da parte del capo del governo italiano, gen. Pietro Badoglio. Un attacco aereo inaspettato e improvviso che provocò le prime vittime, oltre un centinaio (non è stato mai possibile accertare l’identità di tutte e neppure quantificarle) e che causò le prime profonde ferite. In città come in abbazia si interruppe pure l’erogazione di energia elettrica e, seppur momentaneamente ripristinata, si arrestò completamente nei giorni successivi. Inoltre dal pomeriggio del 10 settembre si venne a perdere definitivamente il collegamento via funivia tra la città e il monastero cassinese quando un pilota tedesco della Luftwaffe tranciò i cavi d’acciaio.

Nei giorni e nei mesi successivi fece seguito sulla città e sull’intero comprensorio un’«attività aviatoria in permanenza». Altri terrificanti attacchi aerei su Cassino furono quelli del 4 ottobre, del 21 ottobre, della notte del 9 novembre e poi cannoneggiamenti continui mentre gli immobili posti all’entrata della città venivano minati e abbattuti da parte dei tedeschi a scopo difensivo.

Già nelle ore successive al bombardamento del 10 settembre la città cominciò a spopolarsi dando avvio a un primo esodo volontario verso zone periferiche e aree di campagna (Caira, Portella, Foresta ecc.), oppure verso Montecassino e la sua abbazia che fu raggiunta dalle varie comunità religiose femminili (le suore Benedettine, quelle di Carità e le Stimmatine con una cinquantina di orfanelle) nonché da religiosi e civili. Nei giorni e nei mesi successivi, man mano che aumentavano i pericoli dovuti ai bombardamenti, l’esodo dei civili si trasformò in una diaspora. I cassinati si riversarono nelle montagne circostanti, in paesi come Valvori e Terelle da dove furono poi costretti a evacuare. Vennero portati in modo coatto verso aree dell’alta provincia di Frosinone (Ferentino, Alatri, Fiuggi), verso Roma, oppure vennero sfollati in Comuni del settentrione, ad esempio in provincia di Verona (nel capoluogo e a Brenzone sul Garda, Bussolengo, Garda alloggiati nel «Villaggio profughi Montecassino»), in provincia di Cremona (a Capergnanica, Chieve, Crema, Dovera), in provincia di Mantova (ad Asola, Casalmoro, Casalromano, Cavriana, Pomponesco Monzambano, Sabbioneta) ecc. Seguì poi un secondo sfollamento effettuato dagli alleati nel febbraio-marzo 1944. Alcuni civili vennero trasferiti a Venafro e dintorni, ma la gran parte fu invece portata in Comuni del meridione, in Basilicata, Calabria (Catanzaro, Nicastro, Badolato, Isca, Gagliato ecc.) e Sicilia (Chiaramonte Guelfi, Piedimonte Etneo ecc.).

Terza battaglia di Cassino 15-23 marzo 1944: il bombardamento areo

Già il 22 febbraio 1944, una settimana dopo l’attacco aereo del 15 che aveva distrutto l’abbazia di Montecassino, nei comandi alleati si cominciò a pianificare il bombardamento della sottostante città in quanto quello che aveva schiantato la millenaria badia non aveva prodotto gli esiti sperati. Per il raggiungimento di risultati incisivi si decise che il «martellamento» su Cassino dovesse essere più esteso nonché incrementato di intensità rispetto a quello operato su Montecassino e cioè che gli attacchi dovessero essere condotti con un «aumentato numero dei bombardieri» e con un peso maggiore delle bombe da sganciare. Affinché il bombardamento raggiungesse un «determinante risultato» bisognava che l’attacco aereo «venisse attuato insieme a vigorose azioni offensive per terra» prevedendo così l’utilizzo dell’aviazione, dell’artiglieria e dei mezzi corazzati. L’annientamento totale della città avrebbe consentito l’ingresso da sud dei carri armati e della fanteria e una volta occupata la parte nord della città la Divisione indiana avrebbe attaccato la montagna in direzione del monastero. Il gen. Maitland Wilson iniziò a supporre di concentrare «3000 bombardieri e caccia sulla ristretta zona vitale» di Cassino. In sostanza continuava a permanere l’idea che i difensori tedeschi dovessero essere sconfitti dal «peso del metallo» così che le forze di terra alleate, dopo il fortissimo bombardamento attuato, avrebbero semplicemente avuto lo scopo di «occupare il bersaglio paralizzato». A tutto ciò si andava a innestare anche un fattore psicologico in quanto, a giudizio del gen. Ira Eacker, la distruzione della «fortezza di Cassino» doveva indurre i tedeschi a riflettere che gli alleati l’avrebbero ripetuta «per ogni piazzaforte» dove essi avevano deciso di resistere.

Il gen. Harold Alexander approvò il piano d’attacco predisposto dal gen. neozelandese Bernard Freyberg definito come «Operazione Dickens» dal nome dello scrittore inglese che nel corso del suo viaggio in Italia a metà Ottocento aveva avuto modo di visitare anche Cassino e Montecassino.

Il bombardamento di Cassino avrebbe dovuto essere effettuato il 22 febbraio prevedendo l’utilizzo di sei gruppi da bombardamento medi (aerei B-24 e B-25) e sette pesanti (aerei B-17 e B-26). Tuttavia la data dell’attacco continuò a slittare di giorno in giorno e fu più volte rimandata a causa delle avverse condizioni meteorologiche in quanto pioggia e neve seguitavano a cadere insistentemente e abbondantemente. Allo stesso tempo man mano che passavano i giorni aumentava la previsione d’uso dei gruppi da bombardamento in seguito all’allargamento dell’area d’attacco. Così dagli iniziali tredici, il 26 febbraio si passò a una previsione di attacco condotto da sedici gruppi di aerei cui si andavano ad aggiungere bombardieri leggeri e cacciabombardieri. In sostanza l’operazione si andò ampliando perché al bombardamento della città si legava quello delle aree in prossimità degli attraversamenti del Fiume Rapido e quello delle posizioni tedesche lungo la linea difensiva Aquino-Pontecorvo.

Alla fine il 14 marzo 1944, ventuno giorni dopo la fissazione della prima data dell’attacco, il capitano David Ludlum, meteorologo e responsabile del servizio di monitoraggio della situazione meteo, comunicò la frase in codice «Bradman batte domani» che fissava l’avvio delle operazioni per il giorno successivo.

Il 15 marzo 1944 ebbe così inizio il bombardamento della città. Era una giornata di sole e di «tempo bellissimo». Alle ore otto e trenta del mattino giunse la prima formazione di bombardieri alleati formata da due gruppi di bombardieri medi. A essi fecero seguito undici gruppi pesanti e quindi altri due gruppi di bombardieri medi. Allo scopo di «dar tempo alla polvere di diradarsi e facilitare l’inquadramento del bersaglio», per la prima mezz’ora di bombardamento le ondate dei gruppi aerei si avvicendarono ad intervalli di dieci minuti. Quindi dalle nove fino a mezzogiorno gli attacchi si susseguirono ogni quindici minuti. A mezzogiorno cessò il bombardamento che si rivelò «eccellente e terribile».

Appena l’ultimo bombardiere ebbe sganciato il suo carico entrarono in azione le artiglierie alleate. Da mezzogiorno «le batterie appartenenti a tutti i corpi della V armata», compresi «tre pezzi montati su carri ferroviari serviti da squadre di artiglieri italiani», aprirono il fuoco su Cassino. Il fuoco di sbarramento, che fu «ancor più forte ed accurato», durò quaranta minuti. A partire dalle ore tredici riprese il bombardamento aereo che si protrasse fino alle diciassette e trenta e nel corso del quale si susseguì l’attacco di gruppi di otto bombardieri intervallati ogni dieci minuti. Alcune formazioni non riuscirono a sganciare i loro carichi a causa delle «dense nuvole di polvere» che coprivano l’area.

Nelle prime tre ore e mezzo di attacco furono impiegati 435 aerei tra bombardieri pesanti e medi che sganciarono sul piccolo obiettivo, ampio circa 2,6 chilometri quadrati, «2.214 bombe da 1.000 libbre per un totale di quasi mille tonnellate» di esplosivo ad alto potenziale. Nel pomeriggio comparvero altri 200 cacciabombardieri.

 Nell’area della stazione ferroviaria 49 aerei sganciarono 57 bombe per un totale di 18 tonnellate, invece nell’area della zona dell’Anfiteatro 96 aerei lanciarono 281 bombe per complessive 44 tonnellate e infine altre 10 tonnellate di bombe raggiunsero le postazioni tedesche sui pendii di Montecassino. Gli attacchi aerei pomeridiani erano intervallati dal bombardamento delle batterie terrestri, complessivamente «890 tra cannoni, obici e mortai di ogni tipo», che spararono quasi 200.000 granate.

Le operazioni terminarono alle ore venti.

Complessivamente l’intera area era stata sottoposta a undici ore e mezzo di fuoco. Sulla città erano state sganciate circa 1.100 tonnellate di bombe d’aereo e 2.500 tonnellate di esplosivo. Il gen. Mark Wayne Clark ebbe a scrivere nel suo Diario: «parve che il cuore di Cassino venisse scagliato in aria, in immense lingue di fuoco arancione, seguite da un’eruzione di fumo e di rottami di ogni sorta».

Malgrado le dimensioni del bersaglio relativamente poco esteso, malgrado il cielo sgombro e la mancanza totale di reazione da parte della contraerea tedesca né si palesò alcuna minaccia area in quanto la Luftwaffe «era assente dai cieli e la contraerea tedesca nella zona di Cassino era pressoché inesistente», non tutto il carico di bombe raggiunse la città di Cassino. Infatti «soltanto il 43% delle bombe sganciate colpì la zona in un raggio di 1 chilometro dal centro della città». Invece il 53% cadde all’esterno dell’abitato e sui rilievi montuosi circostanti colpendo e uccidendo anche militari alleati nei loro avamposti, ad esempio a Cervaro e persino l’accampamento del comandante del Quartier generale dell’VIII armata, «che si trovava a 3 miglia da Cassino, fu distrutto». Il restante 4% cadde in zone distanti dall’obiettivo. Un’intera formazione di quaranta bombardieri pesanti sganciò le bombe sulla città di Venafro, scambiata per Cassino, e le zone limitrofe di Pozzilli, Montaquila, nonostante fosse a dodici miglia di distanza, provocando morti e feriti tra i civili e tra gli stessi militari alleati (quelli francesi del Cef). Inoltre due bombardieri pesanti rilasciarono il loro carico di bombe in mare mentre altri ventitré rientrarono alla base senza aver sganciato le bombe non essendo riusciti a individuare l’area del bersaglio.

I corrispondenti di guerra e gli altri ufficiali alleati assistettero al bombardamento dalle alture di Cervaro. Vari giornalisti e cineoperatori si portarono su monte Trocchio per filmare le fasi dell’attacco aereo. Invece i più alti gradi delle forze alleate raggiunsero, alla stregua «di eminenti turisti militari accorsi per un mattino di intrattenimento», il comando operativo del II Corpo d’armata neozelandese nella parte alta del paese di Cervaro. Di primo mattino un «gruppo di tutto riguardo» si era riunito «per osservare l’esperimento» e assistere al bombardamento come fosse uno spettacolo cinematografico. Si trattava di importanti ufficiali alleati tra cui il gen. sir Harold Alexander (Gran Bretagna) responsabile delle operazioni di guerra nella Campagna d’Italia, il ten. gen. Mark Wayne Clark (Usa) al comando della 5a Armata americana, il ten. gen. sir Bernard Fryberg (Nuova Zelanda) comandante del II Corpo neozelandese, il gen. Ira Eaker (Usa) comandante delle Forze aeree alleate nel Mediterraneo. Tuttavia già mezz’ora dopo l’inizio del bombardamento agli “spettatori” di Cervaro non fu possibile scorgere più nulla a causa del fumo e della polvere. Poi a mezzogiorno «si concessero uno spuntino».

Terza battaglia di Cassino 15-23 marzo 1944: l’attacco di terra

Dopo l’impressionante bombardamento e il massiccio cannoneggiamento iniziò l’attacco di terra che però finì per fallire a causa della grande quantità di rovine prodotte dai bombardamenti da un lato e della reazione tedesca dall’altro. Le strade erano state cancellate e i cumuli di macerie, che raggiungevano un’altezza di cinque-sei metri, non consentirono ai carri armati di avanzare né i mezzi corazzati riuscirono a superare i crateri prodotti dalle bombe che avevano una larghezza di 13-16 metri di diametro e che si andarono riempendo di acqua poiché la sera stessa aveva ripreso a piovere. Fu necessario l’utilizzo di ruspe e mezzi cingolati e solo dopo 36 ore alcune strade poterono tornare a essere percorribili dai carri armati. Priva del supporto dei mezzi corazzati, la fanteria alleata fu costretta a combattere casa per casa facendo anche piccoli progressi all’interno della città devastata dove si scontrò con la veemente reazione del nemico.

A presidio della città c’erano circa 350 paracadutisti tedeschi e il rapporto tra il quantitativo di esplosivo impiegato e il numero di militari tedeschi presenti a Cassino fu «di circa quattro tonnellate» per ognuno dei difensori della città. Oltre ai militari tedeschi c’erano a Cassino anche «alcuni civili italiani» che condivisero con i paracadutisti l’«esperienza del bombardamento: si trattava di povera gente che per volontà propria o perché costretta dagli eventi era rimasta a vivere in città, rifugiandosi nella rete fognaria».

Nel corso delle operazioni di bombardamento i tedeschi persero quasi la metà degli effettivi in quanto morirono circa 160 paracadutisti. Molti soldati sopravvissuti avevano trovato rifugio in una caverna ubicata ai piedi di Montecassino, nelle vicinanze dell’Hotel Continental, quella che poi è stata definita come la «grotta di Foltin» dal nome del capitano tedesco che vi condusse, nel corso di una pausa del bombardamento, i suoi uomini raggiunti anche da altre compagnie, e che divenne una sorta di rifugio antiaereo. Seppur ridotti più della metà dei loro effettivi, i paracadutisti sopravvissuti «all’apparire dei primi fanti» neozelandesi reagirono veementemente, organizzarono la difesa della città tra le macerie sfruttando le rovine delle case come bunker e riuscendo a bloccare l’avanzata alleata. Alexander dichiarò: «Mi sembra inconcepibile che dei soldati potessero rimanere vivi dopo un simile terribile martellamento durato otto ore … Stento a credere che vi siano altre truppe al mondo che avrebbero potuto resistere a tale tempesta di fuoco e poi passare all’attacco con la ferocia da essi dimostrata». Dalle rovine dell’abbazia, dalle caverne della montagna, dai ruderi della città, dalle macerie delle case le forze tedesche presero gli alleati «sotto un fuoco diabolico, facendo vuoti spaventosi» tra essi.

La battaglia andò avanti per otto giorni ma considerata l’impossibilità di vincere la resistenza dei «diavoli verdi» l’attacco alleato si dovette fermare.

Le unità tedesche furono indebolite ma non annientate per cui anche le tonnellate di bombe lanciate su Cassino non avevano dato l’effetto sperato.

Cassino «Città sacrificata» – «Città martire»

La distruzione totale dell’abitato di Cassino è stata la «più forte azione di fuoco che sia mai stata conclusa su così breve spazio», detenendo ancora il non invidiabile record di tonnellate di bombe per kmq di superficie. «Mai prima d’allora una città del fronte italiano era stata rasa al suolo da un bombardamento a tappeto». Per bombardarla gli alleati avevano concentrato la più imponente forza aerea mai comparsa nel teatro di guerra del Mediterraneo. Cassino era stata completamente rasa al suolo, era piatta «come lo può essere una città di pietra».

Alla fine delle cruente operazioni di guerra che avevano interessato Cassino e il Cassinate non era rimasta che la desolazione più totale. La distruzione fu dunque del cento per cento. Così al termine dell’agonia Cassino conquistava la «palma del martirio» come scrisse Gaetano Di Biasio, che poi volle definirla come «città sacrificata», «città martire».

Il ritorno della popolazione locale

Dopo la conquista delle macerie dell’abbazia di Montecassino da parte del II Corpo polacco del gen. Wladislaw Anders il 18 maggio, lo sfondamento della Linea Gustav e l’avanzamento del fronte di guerra con la liberazione di Roma, cominciarono ben presto ad affluire sul territorio sempre più numerosi i profughi e gli sfollati.

Nulla o quasi nulla di quel che avevano lasciato ritrovarono gli abitanti quando vollero far ritorno coraggiosamente e sollecitamente sulle loro terre. Il viscerale attaccamento portò le indifese, inermi e deboli popolazioni locali a riprendere possesso delle rovine nei paesi e nelle città, nella desolazione più totale, tra distruzione, squallore, malaria, materiali bellici inesplosi, fame, ancora all’addiaccio, al freddo, sotto la pioggia e la neve, in approssimativi ricoveri. E quel concerto di situazioni continuò a seminare morte, a generare lutti e patimenti.

Infatti si ritrovarono a vivere una nuova luttuosa, travagliata e tormentata stagione, a combattere «l’altra battaglia di Cassino» come fu storicamente definita, non più fragorosa tra eserciti invasori con armi sempre più potenti e micidiali, ma una ‘guerra’ subdola, silente, capace, allo stesso tempo, di mietere ulteriori vittime.

Il primo luglio 1944 Gaetano Di Biasio fu nominato sindaco di una città fantasma. Egli avrebbe voluto che le rovine non venissero rimosse ma rimanessero come «monumento storico d’una guerra scellerata» come «ammonimento e terrore». Avrebbe voluto che non fossero toccate in quanto la «conservazione del vecchio abitato, distrutto dalla furia bellica, avrebbe dovuto assumere la funzione di rendere testimonianza dell’immane tragedia, di fungere da monito, in definitiva, per le generazioni successive». Il nuovo agglomerato urbano, la «Città Nuova», si sarebbe dovuto stendere «come un florido tappeto» ai «piedi» di quella distrutta. Tuttavia il mancato intervento diretto dello Stato italiano, che pur era stato prospettato, costrinse amministratori comunali e progettisti al «ripristino dei vecchi allineamenti stradali», all’avvio della ricostruzione dell’abitato di Cassino nel vecchio sito, con la sola esclusione della zona pedemontana dichiarata di inedificabilità assoluta.

Gli eventi bellici hanno rappresentato un vero e proprio spartiacque tra il prima e il dopo.

La guerra non ha assunto ‘solo’ il significato di distruzione totale. La guerra non si è “limitata” a seminare morte, a spazzare via fisicamente palazzi, monumenti, abitazioni, infrastrutture della città prebellica.

La città non fu solo «distrutta, polverizzata, massacrata», non fu solo frantumata, devastata, sbriciolata, ridotta in mille brandelli al pari di altre del territorio. Non è stato nemmeno possibile quantificare il numero di vittime di specifici luttuosi eventi (quelli del 10 settembre 1943 o del 15 febbraio 1944 in abbazia ad esempio) né tanto meno fornire i loro dati biografici essenziali. Persone scomparse tout court, cancellate dal ricordo dei viventi, fisicamente inghiottite e seppellite nelle macerie, anagraficamente cassate dai registri di Stato civile e da quelli parrocchiali anch’essi distrutti.

I massicci bombardamenti hanno distrutto la continuità, lo scorrere, il fluire della vita quotidiana di una città di provincia, laboriosa e bella, nonché di altri paesi del comprensorio, hanno interrotto il normale flusso della storia degli uomini, delle donne della città.

La guerra ha polverizzato anche il ricordo, la memoria, la storia stessa della città. La guerra è stata una cesura totale tra ciò che era la città prima della distruzione e ciò che è la Cassino postbellica. Le nuove generazioni non hanno più cognizione di cosa fosse e di come fosse la città di Cassino così come degli altri centri urbani.

La rinascita

Il passaggio del fronte di guerra ha lasciato in eredità una «terra murata di sangue e di martirio». Cassino e altre quattro città consorelle nella totale sciagura (Piedimonte San Germano – Villa Santa Lucia – Pontecorvo – San Biagio Saracinisco) furono distrutte al 100 per cento, tre i Comuni distrutti al 98 per cento (Cervaro – S. Pietro Infine – Spigno Saturnia), due al 96%, undici al 95%, nove tra il 93 e il 90%, oltre a tutti quelli che conobbero gli eccidi dei propri abitanti e l’ignominia delle violenze sessuali.

Quelle popolazioni dovettero provvedere a una ricostruzione che fosse fisica del territorio e al tempo stesso psichica delle genti del luogo. Lo fecero operando con coraggio in una situazione difficilissima e precaria, tra continue sofferenze, tra difficoltà quotidiane, con pochissime risorse economico-finanziarie e scarsissime prospettive occupazionali.

Esse però riuscirono a uscirne ponendo le basi del miracolo della ricostruzione e della rinascita. Esse sono quelle che meritano il più alto riconoscimento morale che può essere concesso dalla Repubblica Italiana conferendo la «Medaglia d’oro al merito civile».

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