RICORDI DELLA GUERRA VISSUTA DALLA GENTE COMUNE DELLO SPRUMARO DI CERVARO

«Studi Cassinati», anno 2024, n. 1

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di

Lisa Matrundola

IN ARMI

La dichiarazione di guerra dell’Italia del 10 giugno 1940 comportò la chiamata o il richiamo alle armi anche dei giovani della contrada dello Sprumaro che furono arruolati per le operazioni di guerra e inviati nei vari fronti. Fra essi:

– Giovanni Matrundola (classe 1923) figlio di Giuseppe e Maria Giuseppa Risi, chiamato alle armi nel 1942, trasferito il 5 giugno 1943 in Sicilia dove il 10 luglio fu catturato e fatto prigioniero dagli inglesi. Fu trattenuto nel campo di prigionia di Algeri. Fu liberato il 13 dicembre 1945 e rientrò il 4 luglio del 1946;

– Giuseppe Antonio Matrundola (classe 1914) figlio di Angelo e Maria Pacitti, richiamato alle armi nel dicembre 1940, impegnato nelle operazioni di guerra nella frontiera greco-albanese nel ‘41, rientrato in Italia per malattia e ricoverato in vari Ospedali Militari, rientrò in servizio il 18 giugno 1943. Si sbandò l’8 settembre 1943 e rientrò il 20 aprile 1945;

– Antonio Matrundola (classe 1919) figlio di Carmine e Filomena Pacitti, chiamato alle armi nel 1942, impegnato nelle operazioni di guerra in Balcania, territorio greco-albanese, dall’11 luglio 1943 all’8 settembre 1943, catturato e fatto prigioniero dai tedeschi nel fatto d’arme di Atene l’11 settembre 1943, rimasto prigioniero fino all’8 maggio 1945, successivamente trattenuto dalle FF.AA. Alleate. Rientrato il 14 luglio 1945;

– Vittorio (classe 1915), Armando (classe 1924) e Roberto Matrundola (classe 1921), tre fratelli figli di Crispino ed Emilia Canale. I primi due furono fatti prigionieri dai tedeschi. Armando fu catturato al Brennero il 9 settembre 1943, internato nel lager di Hammerstein Stalag II B (Polonia) liberato l’8 maggio 1945, rientrò l’8 agosto 1945. Roberto invece, fu catturato in Africa;

– Giovanni Minchella (classe 1921) figlio di Antonio e Livia (detta Lucia) Pennadoro, chiamato alle armi nel 1941, partito per l’Africa settentrionale e catturato dalle FF.AA. inglesi nel 1943. Rimpatriato dalla prigionia il 26 aprile 1946;

– Silvio Minchella (classe 1920) figlio di Pasquale e Carmela Canale, richiamato alle armi nel 1940, ha partecipato alle operazioni di guerra in Africa Settentrionale fino al 1941. Rientrato in Italia e trattenuto alle armi per la difesa del territorio italiano, si sbandò l’8 settembre del 1943. Congedato a novembre 1945.

Poi l’8 settembre fu dato l’annuncio dell’armistizio sottoscritto qualche giorno prima a Cassibile (Siracusa). Inizialmente suscitò una momentanea esplosione di gioia, scambiato come la fine della guerra, ma di lì a poco si tramutò in incubo per la reazione dei tedeschi in quanto aveva posto fine all’alleanza con la Germania nazista. Le forze armate italiane vennero lasciate senza direttive. L’esercito si dissolse, molti militari abbandonarono le postazioni e si sbandarono, fra essi anche alcuni giovani provenienti dallo Sprumaro come:

– Silvio Minchella di Sprumaro-Porcareccia, che tornò a casa. Dopo la guerra incorse nel reato di diserzione per non essersi presentato in seguito al bando di richiamo dal Comando militare di Roma. Fu pertanto denunciato dal Distretto Militare di Frosinone al Tribunale Militare di Roma che nel 1954 emise dichiarazione «di non doversi promuovere alcuna azione penale» in ordine al reato di diserzione e comunque non fu ammesso ad usufruire dei benefici di guerra;

– Giuseppe Antonio Matrundola di Sprumaro-Masciola, considerato “sbandato” non gli fu elevato nessun addebito in quanto presentatosi al Distretto Militare di Frosinone in ottemperanza al bando di richiamo. Fu ammesso ad usufruire dei benefici di guerra;

– Lanni Achille (classe 1920) di Spumaro-Dei Lauri, militare a Bra in Piemonte, fu mandato a casa dai diretti superiori. Considerato “sbandato”, successivamente si presentò al D.M. di Frosinone in ottemperanza al bando di richiamo e non gli fu elevato nessun addebito;

– Vincenzo Recchia (classe 1914)di «Prdsin o Mastaustino», richiamato alle armi e impegnato nelle operazioni militari nel Distretto di Roma quale corriere tra i vari distretti tramite le ferrovie, tornò a casa. Considerato sbandato incorse anche nel reato di diserzione per non essersi presentato in seguito al bando di richiamo dal C.M. di Roma, pertanto denunciato al Tribunale Militare di Roma che successivamente emise dichiarazione «di non doversi promuovere alcuna azione penale» in ordine al reato di diserzione, e comunque non fu ammesso ad usufruire dei benefici di guerra.

STRATAGEMMI

Nei primi tre anni di guerra, mentre i giovani dello Sprumaro, inquadrati nelle varie armi dell’Esercito italiano, venivano avviati sui vari fronti, nella contrada cervarese la vita era continuata a scorrere con relativa tranquillità. Poi, a partire dalla seconda metà del 1943, la situazione si fece giorno dopo giorno sempre più drammatica. Le famiglie iniziarono a vivere momenti di disperazione a causa della miseria, della fame, dell’attesa per gli esiti della guerra, del pensiero costante di come organizzarsi per sopravvivere ai continui bombardamenti e a un esercito d’occupazione.

Maria Minchella (classe 1931) zia di Tonino Bianchi, riferisce nell’agosto 2023 dal Canada dove risiede, che già prima dell’arrivo della guerra, alcuni uomini, per lo più anziani e che rappresentavano la forza lavoro di Sprumaro, erano andati a ispezionare le vicine colline per trovare i luoghi che potessero garantire la sopravvivenza. Il posto più sicuro sembrava essere la vallata ubicata tra Monte o Colle Aquilone e una serie di vette più basse posizionate alle spalle di Colle Capraro, oppure la località Ullanito, posizionata sulla destra di Colle Capraro, o la località Cisterna posizionata sulla sinistra e comunque comunicanti tra loro.

La vallata si presentava con vari anfratti, con boscaglia e piccole pianure, dotata di cisterne naturali oppure scavate nelle quali veniva raccolta l’acqua piovana utilizzata per dissetare gli animali. L’area era parzialmente dotata di qualche ricovero in quanto già utilizzata come pascolo di bestiame.

Quegli uomini decisero di realizzare dei ricoveri scavandoli con picco e pala, oppure ampliare vecchie caverne in modo che potessero contenere intere famiglie. I ricoveri furono rudemente pavimentati con pietre, vennero dotati di letti posizionati lungo le parenti, e fatti con tronchi di albero, frasche e fogliame. La parte centrale era lasciata libera per consentire l’accensione del fuoco che serviva da riscaldamento, cucina e luce di notte.

Grosse buche furono scavate anche nelle proprietà private, nelle vicinanze, ma non troppo, delle abitazioni, per nascondere damigiane di vino e di olio, sacchi di farina e di fagioli secchi, utensili da cucina e da lavoro, biancheria/stracci e ogni altra cosa che poteva tornare utile dopo la guerra, il tutto sapientemente ricoperto con paglia e fogliame. Le buche, infine, venivano richiuse con la terra, spianate e ricoperte con sterpaglie:

– mio padre Pietro fece lo scavo nel terreno denominato «Vsquarigl» (boschetto);

– Pasquale Minchella con i figli Silvio e Felice, scavarono varie buche e ricoveri alla Porcareccia. Una buca serviva per nascondere le derrate alimentari, un’altra, ubicata sul terreno di Risi Teresa (zi trsina) vicino al bosco, era ingegnosa perché scavata in una macera. Le pietre fungevano da porta (venivano tolte per l’accesso e rimesse per chiudere) e c’era un cunicolo abbastanza grande per nascondere i maiali vivi. Poi realizzarono un ricovero vicino al fosso (dove d’inverno scorreva l’acqua piovana) a confine con gli eredi di Giovanni Matrundola, a poca distanza dalla casa, che era a forma di ferro di cavallo con aperture alle due estremità che costituivano ingresso-uscita;

– Orazio Lanni (classe 1882) con i figli Achille (n. 1920) e Domenico (n. 1913) abitanti in Via dei Lauri, scavarono un ricovero in terreno piano ma sabbioso non soggetto a cedimento o franamento, vicino al fosso che era coperto da alberi e vegetazione varia;

– Giovanni Recchia di «Prdsin o Mastaustino» con il figlio Vincenzo (classe 1914) scavarono un localetto-bunker sotto al pavimento della loro cantina (il rudere del fabbricato è tuttora esistente a confine con Via Sprumaro) utilizzato per nascondervi le derrate alimentari e ripararvi i componenti della famiglia. Vi si accedeva da una piccola botola e come chiusura si usava una mezza botte.


LA GUERRA IN CASA

Era comunque difficile separarsi dalle proprie misere case, dai pochi averi e dagli animali. In più aumentavano i problemi a causa delle preoccupazioni per gli anziani, per le persone malate cui si vennero ad aggiungere quelli per le donne in stato di gravidanza, come mia madre Antonietta Pacitti che era incinta di mio fratello Mario, nato in casa il 10 luglio 1943. Solo nove giorni dopo la guerra con tutto il suo carico di distruzione fece la comparsa nel Cassinate poiché il 19 luglio fu bombardato per la prima volta l’aeroporto di Aquino. Oramai la guerra con il suo carico di distruzione e lutti era arrivato anche su questo territorio.

Dopo l’8 settembre 1943 la popolazione civile iniziò a temere la reazione dei tedeschi che fu immediata.

Inizialmente occuparono città e paesi. Così il 9 settembre arrivarono a Cervaro centro, disarmarono la Caserma dei Carabinieri, requisirono la Casa Comunale, presero possesso delle abitazioni per installarvi il Comando e le strutture sanitarie. Allestirono una cucina da campo a S. Paolo e approntarono le postazioni di difesa. Tuttavia allo Spumaro i tedeschi erano arrivati ancor prima dell’8 settembre. Un comando tedesco aveva occupato l’area che partiva dal ponte di Sant’Antonino al ponticello di Catanzano e che fiancheggiava la via principale. L’accampamento militare fu organizzato principalmente sul terreno di Giuseppuccio Valente (l’area ubicata al di sopra della strada che va dal ponticello di Catanzano fino ai Mancini), tutta la zona Mancini (dove abito io), la zona Valente-Lanni, il primo agglomerato della zona Ferraro (famiglie Valente) e il terreno di Cosimuccio Valente vicino al ponte di Sant’Antonino.

Avevano provveduto anche a requisire le abitazioni. A mio padre requisirono solo una cantina di due vani che affacciava sul largario Mancini, poco distante dalla casa. Nella cantina mio padre aveva lasciato alcune damigiane di aceto. I tedeschi che l’avevano occupata, gli chiesero il permesso di bere l’aceto scambiato per vino. Mio padre acconsentì e fu così che si conquistò l’amicizia dei tedeschi dei Mancini che, in cambio, gli permettevano di stare ancora a casa e di muoversi tranquillamente in zona. I tedeschi avevano lasciato nella cantina una pistola all’interno di una piccola buca nel muro a sinistra della porta di entrata. Io ricordo bene di averla vista, è stata lì per tanti anni, ma è sparita durante i lavori del terremoto dell’84, la buca è ancora lì vuota.

Sempre Maria Minchella (zia di Tonino Bianchi) riferisce che i suoi familiari, ad ogni piccolo strano rumore, la mandavano sulla strada principale a verificare cosa stesse succedendo per poi riferirlo nei minimi particolari. Ricorda il transito a Spumaro di carri cingolati e altro macchinario che provvedevano a tagliare alberi e frasche per agevolare il transito dei mezzi militari e quelli da trasporto (camion) fino ad arrivare sul terreno di Cosimuccio Valente ove venivano parcheggiati. Rammenta, inoltre, che le truppe a piedi erano in contatto con il Comando tramite radio.

Dopo il primo bombardamento di Cassino del 10 settembre 1943, anche Cervaro subì il primo attacco aereo il 19 settembre. Poi il 5 novembre la prima cannonata cadde sullo Sprumaro e precisamente ai Mancini, nei pressi di un vecchio casolare ubicato sul terreno dell’attuale casa degli eredi di Giovanni Matrundola angolo Via Sprumaro-Via degli Ulivi. In quell’occasione perse la vita la signora Maria Grazia Di Giorgio (a. 45), moglie di Agostino Valente, fratello di Tommaso, colpita da una scheggia poiché al momento si trovava nell’area antistante il fabbricato. L’esplosione aveva causato un grande boato e un forte spostamento di aria, sobbalzando persone e cose. Mio fratello Luigi di poco più di 2 anni, che giocava sul largario davanti casa, fu sollevato e andò a ricadere violentemente al suolo a una ventina di metri, fortunatamente senza riportare danni.

SFOLLAMENTO COATTO AL SETTENTRIONE

Anche da Sprumaro i tedeschi rastrellarono delle persone che furono caricate su automezzi militari il 22 novembre 1943, portate a Ceprano-Fiuggi-Ferentino, sistemati su carri bestiame blindati e condotti in città e Comuni dell’Italia settentrionale. Ad esempio furono sfollati in Veneto, nel Comune di Bagnoli di Sopra, provincia di Padova:

– la famiglia di Lorenzo Risi (classe 1908). Lui rimase a casa e dunque sfollarono la moglie Rosa Valente (classe 1908) e i figli Maria (n. 1932), Dora (n. 1935), Carlo (n. 1938) e Anna (n. 1942);

– la famiglia di Pietro Valente fu Angelo (classe 1888) sempre di «Prdsin o Mastaustino» con la moglie Maria Di Placido (classe 1891), i figli Cosimo (detto Cosimuccio, n. 1929) e Palma n. 1918 (l’altra figlia Maria Grazia, n. 1915, sposata con Vincenzo Recchia, era rimasta a Cervaro). Palma Valente non fece ritorno a Sprumaro, ma rimase a Bagnoli poiché sposò un giovane del posto, Tony Bertin, da cui ebbe due figlie Doriana e Dina.

ANCORA NELLE PROPRIE CASE

A partire da quel 5 novembre era diventato pericoloso rimanere a casa. Tuttavia ci furono varie famiglie che decisero, nonostante i pericoli rappresentati dai bombardamenti e dalla presenza dei militari germanici, di non lasciare le proprie case e continuare a vivere allo Sprumaro. Si trattava soprattutto delle famiglie che avevano costruito i ricoveri/bunker, anche se poi alcune di esse non fecero altro che ritardare la partenza avvenuta qualche tempo dopo, e cioè:

– la famiglia di Tommaso Valentedei Valente rimase nella propria casa (fabbricato ora adibito a frantoio) nonostante la prima cannonata che colpì lo Sprumaro il 5 novembre 1943 fosse caduta nelle vicinanze del fabbricato e avesse causato la morte, come già ricordato, della signora Maria Grazia Di Giorgio. La famiglia, infatti, si sentiva abbastanza sicura, tanto che giunse a ospitare dei parenti delle Pastenelle, avendo provveduto a costruire all’interno del fabbricato una stanza/bunker per ripararsi dagli eventi bellici e nella quale i vari componenti si andavano a nascondere unitamente ai viveri;

– Orazio Lanni (nonno paterno di Pino), ammalato, affetto dal morbo di Parkinson, non sfollò mai e rimase per tutto il tempo della guerra assieme alla sua famiglia a casa o meglio tra la casa e il ricovero alla Via dei Lauri;

– la famiglia di Giovanni Recchia con la moglie Maria Giuseppa Pucci, il figlio Vincenzo (n. 1914), la nuora Maria Grazia Valente (n. 1915) e il nipotino Aldo di due anni e mezzo rimasero a casa e all’occorrenza andavano a nascondersi nel localetto-bunker che avevano costruito sotto al pavimento della cantina. Durante una perquisizione i militari Tedeschi scorsero il nascondiglio ed ebbero il sentore di presenze umane in loco per cui gettarono un candelotto fumogeno all’interno del bunker attraverso la botola. Il fumo prodotto causò la morte del piccolo Aldo per soffocamento mentre gli adulti che avevano trattenuto il respiro per non farsi sentire dai militari si salvarono tutti. Con la morte nel cuore la famiglia si traferì a Ullanito;

– la famiglia di Pasquale Minchella(classe 1895) che abitava alla Porcareccia con la moglie Carmela Canale (classe 1886). Quest’ultima, già vedova del primo marito Filippo Antonio Matrundola (fratello di mio nonno Giuseppe) caduto in combattimento nella Prima guerra mondiale, si era risposata con Pasquale Minchella. Dal secondo matrimonio erano nati tre figli, Silvio (n. 1920), Felice (n. 1927) e Cristina (n. 1922). Invece dal primo matrimonio era nata Rosina Matrundola (classe 1914) che dalla Via Vecchia Piternis, altezza casa Garofalo, era sfollata a Sprumaro assieme al marito Damiano Pacitti (classe 1909) e alle cinque figlie, Maria di anni 8, Vincenzina di anni 7, Sandra di anni 5, Iolanda di anni 3 ed Elisa di anni 1, nonché alla famiglia di Angela (detta Angelina) Pacitti (classe 1909, vicina di casa e vedova dal 1937) con i figli Clelia Capaldi di anni 8 e Michele di anni 13. Come già riportato, nei pressi della casa, al Fosso Porcareccia, era stato costruito un ricovero ritenuto sicuro. Nelle prime settimane, mentre gli adulti erano occupati in faccende di vario genere, i più piccoli (Maria, Vincenzina, Sandra, Clelia e Michele) durante la giornata venivano mandati al ricovero. Un giorno di fine novembre i bambini disattendendo gli ordini dei genitori, abbandonarono il ricovero per andare a giocare altrove e un colpo di cannone andò a esplodere sul fondo del fosso all’altezza dei due ingressi/uscite del ricovero. Inoltre i due maiali (di cui uno allevato per il podestà Francesco Cataldi) che Pasquale Minchella aveva nascosto nel cunicolo, gli furono requisiti, sparati e portati via dai tedeschi, alla presenza tra gli altri di Rosina Matrundola e le piccole figlie che incitava a piangere per impietosire i soldati tedeschi ma con esito del tutto negativo. A quel punto le famiglie di Pasquale Minchella, Damiano Pacitti e Angelina Pacitti furono costrette a partire per Ullanito anche perché Silvio, figlio di Pasquale, voleva raggiungere la fidanzata Elvira Minchella che con la sua famiglia era già sfollata lì;

– l’ottantatreenne Arcangelo Risi (classe 1860), mio bisnonno in quanto padre di mia nonna paterna Giuseppella, rimase nella sua casa ubicata alla Salauca (posta sotto Monte Trocchio precisamente di fronte a Via Taverna Vecchia verso la Sordella). Voleva custodire il suo fabbricato e accudire gli animali. Era certo che se fosse sopravvissuto alle bombe nessuno gli avrebbe fatto del male. Invece un giorno i tedeschi fecero irruzione nella casa. Lo ritrovarono nella stalla, nascosto nella paglia, lo catturarono e lo portarono via non senza averlo derubato degli animali e di quanto di commestibile fosse in casa. Non è mai più tornato a casa e non si è mai saputo dove, quando e come fosse morto;

– la famiglia di Liberantonio Matrundola dei Mancini non sfollò. Inizialmente perché aveva il problema del fratello Carmine (a. 57) gravemente malato. Era molto sofferente in quanto era caduto in una vasca/buca contenente calce idrata in ebollizione e si era ustionato per tutto il corpo. Strillava per il dolore, le piaghe si erano infettate (non c’erano medicine e i dottori erano irreperibili) e poi morì nel settembre del 1943.

Non mancarono casi di delatori e collaborazionisti. Si diceva che un capo famiglia rimasto più tempo a casa con i suoi, era entrato in amicizia con i tedeschi e ne divenne il fiancheggiatore e quindi artefice di almeno due gravi episodi a Sprumaro:

1) l’indicazione del domicilio di ragazze rimaste a casa a Masciola che i soldati tedeschi potevano abusare;

2) l’indicazione dei luoghi di montagna ove erano nascosti i civili dello Spumaro e ove i tedeschi potevano rastrellare gli uomini forza lavoro per le linee di difesa.

Le famiglie con anziani e soprattutto malati dovettero affrontare molte difficoltà. Per qualche malato fu anche tentato il trasporto verso Ullanito, come nel caso di Pasquale o Pasquariello Matrundola (classe 1879) dei Mancini con la moglie Rosa Russo (classe 1880), il figlio Antonio (n. 1904), la nuora Dolorosa Pacitti (n. 1905) e i nipoti Luigi (n. 1929), Maria (n. 1934), Carmine (n. 1941) ed Elisa Borea (n. 1936) avuta in affidamento prima della guerra1.Difficoltoso fu il trasporto di Pasquariello che forse aveva avuto un’ischemia. Messo sopra una branda fu trasportato, anche con l’aiuto di Antonio Rangicone il garzone della famiglia. Arrivati al casolare esistente su Via Masciola (ora Via degli Ulivi) sotto l’ultimo tornante prima di arrivare a via Noceromana, non fu più possibile trasportarlo oltre. Rimase nel casolare per qualche giorno ma lo stato di salute continuava a peggiorare per cui fu riportarono a casa insieme alla moglie. I due anziani coniugi rimasero per tutto il tempo della guerra nella loro casa occupata prima dai tedeschi e poi dagli americani. Tutti gli altri componenti della famiglia sfollarono a Ullanito.

L’UCCISIONE DI ANGELO MATRUNDOLA

Il sessantacinquenne Angelo Matrundola (classe 1878) fratello di mio nonno Giuseppe, era rimasto nella sua casa di Sprumaro-Masciola con la moglie Maria Pacitti (classe 1890) e le due figlie una di 26 anni e l’altra di 16. Un giorno di dicembre del 1943 la famiglia ricevette la visita di due militari tedeschi (si dice su indicazione di qualcuno della zona) che cercavano le ragazze. I militari riuscirono a prendere la figlia più piccola con il chiaro intendo di abusarne sessualmente. Mentre era in atto la colluttazione, con la ragazza che cercava di divincolarsi, intervenne il padre il quale aveva tra le mani una vanga perché stava piantando le patate. Utilizzandolo l’attrezzo agricolo a mo’ di sciabola colpì uno dei due ferendolo gravemente (zio Guido sosteneva che gli aveva staccato un braccio mentre più di qualcuno, oggi, ricorda che Angelo finì il militare a colpi di vanga). A quel punto l’altro militare, visto il commilitone a terra, scappò via. Le ragazze e la madre fuggirono prendendo Via Masciola fino a raggiungere Ullanito. Invece Angelo rimase a casa e si nascose nel fienile all’interno della stalla. Il soldato rimasto indenne era andato a chiamare rinforzi e fece ritorno con vari commilitoni che riuscirono a scovare Angelo nel suo nascondiglio. Fu preso e fucilato il giorno stesso e cioè il 16 dicembre 1943 (e non il 12 gennaio 1944 come riporta la lapide affissa al Comune).

SFOLLAMENTO VOLONTARIO

Elvira Vero con la madrina il giorno della Cresima, 27 maggio 1940.

Differentemente ci furono famiglie di Sprumaro, con parenti di zone limitrofe, che decisero di sfollare volontariamente, o furono costrette con la forza ad allontanarsi. In tutta fretta partirono a gruppi verso la montagna e raggiunsero i ricoveri che erano stati approntati nei mesi precedenti nelle zone limitrofe considerate più sicure. Si diressero alla volta delle località di Ullanito, Cisterna e Paglioni le famiglie Matrundola dei Mancini, Minchella e Capaldi della Porcareccia, Minchella, Pacitti e Valente del Ferraro, Valente dei Valenti, Minchella di Masciola-Via degli Ulivi, Risi e Recchia di «Prdsin o Mastaustino», Canale di Breghella, accompagnate dagli animali di grossa taglia, che in montagna tornavano utili, le mucche e le capre per il latte ai bambini, gli asini per il trasporto, ma che costituivano l’unico capitale di scorta utile per il lavoro anche nel dopo guerra, mentre Pasquale Minchella della Porcareccia, che di professione faceva il bovaro, riuscì a salvare le sue due vacche che utilizzava per arare i terreni di terzi. Sfollarono:

– la famiglia di Marco Pacitti (classe 1905) del Ferraro ma che in quei frangenti si trovava a Tarquinia, per cui sfollarono la moglie Lucia Di Cerbo (classe 1905), con le figlie Mafalda (n. 1932), Amalia (n. 1938) ed Elvira Vero allora tredicenne avuta in affidamento. Ad esse si aggiunse la sorella di Lucia, cioè Maria Assunta Di Cerbo (n. 1913) delle Pastenelle. Risalendo Via Masciola e oltrepassando l’Ascensione e il Caprareccio il gruppo raggiunse i Paglioni e ivi si stabilì in un ricovero di fortuna;

– sempre ai Paglioni vicino al ricovero dei Pacitti c’era quello della famiglia di «Chiuv» (chiodo) delle Pastenelle. Una sera Elvira Vero, che aveva fatto amicizia con una ragazza della sua età, andò a dormire con lei al ricovero di «Chiuv», ma improvvisamente un colpo di cannone andò a cadere sui Paglioni. Elvira fu colpita alla testa dalle schegge e perse la vita assieme ad altre due persone adulte. La ragazzina, con le trecce penzolanti e intrise di sangue, tra le braccia della madre, fu trasportata all’Ascensione, ove fu sepolta sotto un particolare albero di ulivo. Al rientro dallo sfollamento, verso la fine 1945, a Elvira fu data una degna sepoltura al Cimitero di Cervaro. Mamma Lucia, a ricordo della figlia, trattenne una treccia di capelli con vene di sangue ormai secco che tenne per anni appesa al muro della sua camera da letto;

– la famiglia di Antonio Minchella (classe 1894), la moglie Livia (detta Lucia) Pennadoro (classe 1898) e i figli Maria (n. 1931), Achille (n. 1927), Laura (detta Laurina, n. 1924) ed Elvira (n. 1923). Quest’ultima dopo poche settimane fu raggiunta dal fidanzato Silvio Minchella con tutto il suo numeroso nucleo familiare che inizialmente aveva deciso di non sfollare avendo realizzato un ricovero al Fosso Porcareccia, scoperto dai tedeschi e poi fatto oggetto di cannoneggiamento;

– Lidia Risi (classe 1936) detta Lidiuccia, come lei stessa racconta, fu costretta a lasciare la casa a «Prdsin o Mastaustino» alla volta dei Paglioni. La sua famiglia era composta dal padre Giuseppe (detto Peppino) Risi (classe 1910), dalla mamma Caterina (detta Catarina) Valente (classe 1915) e dalle sorelle Genoveffa (n. 1938) e Rossana Pardi nata a Roma nel 1939 (avuta in affidamento). I componenti del nucleo familiare dovettero scappare perché un giorno, mentre mamma Caterina stava friggendo i peperoni sul fuoco, dei soldati tedeschi fecero irruzione in casa e sotto la minaccia delle armi li cacciarono. Fuggirono senza mangiare e senza avere la possibilità di prendere nulla. Nella concitazione del momento l’elastico degli slip di Genoveffa si ruppe. La bambina voleva farli reggere annodando i fili del telefono che i tedeschi avevano allungato lungo la Via Masciola, ma la mamma che intuiva il pericolo le gridò «lascia le mutande e scappa». Il capofamiglia Giuseppe al momento non era in casa. Fece in tempo a nascondersi nella siepe, poi raggiunse la famiglia e passò il tempo a scappare e a nascondersi dai tedeschi;

– allo stesso modo fu cacciata la famiglia di Lorenzo Risi (classe 1908), fratello di Giuseppe, con la moglie Rosa Valente (classe 1908) e i figli Maria (n. 1932), Dora (detta «D-ruccia», n. 1935), Carlo (detto Carluccio, n. 1938) e Anna (n. 1942) residenti a «Prdsin o Mastaustino»;

– alla volta di Ullanito/Cisterna, subito dopo il 5 novembre, partirono mio padre Pietro Matrundola (classe 1913), mia madre Antonietta Pacitti (classe 1919) con i figli Antonio di anni 4, Luigi di anni 2 e Mario di poco più di 2 mesi. C’erano anche i genitori del capofamiglia Pietro e cioè Giuseppe Matrundola (classe 1887) con la moglie Giuseppa Risi (classe 1889), la sorella Benedetta (n. 1921) e il fratello Guido (n. 1930) nonché altre famiglie della zona come quella Barilone delle Pastenelle che aveva promesso di aiutare mio padre a portare i bambini in montagna in cambio di olio di oliva regolarmente consegnato prima del viaggio. Il trasferimento fu faticosissimo. La strada da via Masciola (ora Via degli Ulivi) rappresentava l’inizio dell’ascesa verso la montagna che era tutta in salita, a tratti insidiosa per frane, strettoie, oppure risultava occlusa da massi di pietre, o da alberi e rami ricresciuti, e spini. I componenti del gruppo, scalzi e seminudi, si erano caricati sulla testa cassettoni di legno con farina, olio, vino, acqua, latte, pentole e utensili da cucina. Inoltre sulle spalle portavano altri sacchi con coperte e stracci per coprire i bambini. Tra le mani avevano utensili da campo necessari durante il tragitto e poi in montagna. Mio padre calzava vecchie cioce e pantaloni ricuciti con le ginestre, mia madre portava in braccio anche mio fratello Mario. Antonio che era più grande portava una mappatella con i panni. I miei non riuscivano a stare al passo con gli altri, il carico era pesante, dovevano fermarsi in continuazione. Mario piangeva e mamma doveva allattarlo, Antonio e Luigi si stancavano e volevano mangiare. La famiglia fu lasciata sola, abbandonata anche dai Barilone, e arrivò alla Cisterna tre giorni dopo.

LA DURA VITA DA SFOLLATI

Mio padre e mia madre raccontavano che la vita da sfollati in montagna non era per niente facile. I ricoveri erano umidi e faceva freddo. Quell’inverno nevicò abbondantemente e l’abbigliamento non era adeguato perché proprio non posseduto.

Mia madre (nel 2012 a 93 anni) nei suoi racconti metteva sempre in evidenza che erano scalzi, nudi e morti di fame. I piedini dei piccoli figli Antonio e Luigi diventavano viola per il freddo, allora glieli avvolgeva con gli stracci, mentre lei e mio padre erano completamente scalzi (a mio padre anche le cioce lo avevano abbandonato).

Per motivi di sicurezza il fuoco si accendeva al centro del ricovero e serviva per scaldare l’ambiente, per cucinare e per avere luce di notte. Tuttavia il fumo e il cattivo odore che rimanevano all’interno del ricovero erano insopportabili.

Mancava tutto anche l’acqua potabile. Quella più pulita era quella piovana raccolta nei bacili (le «carcavelle») oppure veniva utilizzata la neve sciolta. Quando l’acqua pulita finiva si beveva perfino l’acqua che si depositava nelle orme profonde lasciate dalle mucche sul suolo fangoso. Oppure si doveva ricorrere all’acqua della vasca/cisterna nella quale si abbeveravano gli animali e quindi sporca di escrementi di vacche, pecore e capre. Quel liquido doveva essere filtrato o più precisamente, a detta di mia mamma, «si dovevano togliere le merde di pecore e di capre prima dell’utilizzo».

Durante la giornata, quando tutto era tranquillo, soprattutto mio padre, si aggirava per la montagna alla ricerca di erbe commestibili e legna da ardere. Divenne il macellaio dei civili e dei militari della vallata. In cambio riceveva la testa della bestia macellata e non si lamentava perché bollita con le erbe di montagna ne usciva un piatto succulento, sempre meglio della polenta di farina (poca) o delle erbe lessate.

RASTRELLAMENTI

Un giorno sulla vetta di Colle Aquilone apparvero molti soldati tedeschi, tutti in fila. Erano andati, evidentemente informati da qualche delatore (come racconta Vincenzina Pacitti), a rastrellare uomini (alcuni ebbero il tempo di scappare e nascondersi) e animali. Dopo averli presi, li portarono in paese come una mandria di bestiame passando dal lato Viticuso-Piternis.

Durante il rastrellamento, mio padre non tentò di nascondersi o scappare, aveva con sé un documento che lui considerava un “salvavita”. Esibì infatti ai soldati tedeschi il suo foglio matricolare che conteneva la «dichiarazione di riforma» datata 17 ottobre 1935 in cui il Consiglio di Leva di Frosinone lo riconosceva inabile al servizio militare per «deficienza di statura persistente oltre il periodo della rivedibilità». Allora i tedeschi gli chiesero garbatamente se voleva, comunque, andare a lavorare per loro, erano assicurati vitto e alloggio. Al rifiuto un soldato gli disse «Nix lavoro Nix mangiare» (nix sta per nicht). Mio padre si è sempre chiesto perché i soldati tedeschi non gli avessero usato violenza, lasciandogli la libera scelta. Forse perché non capendo l’italiano non erano venuti a conoscenza del vero contenuto del foglio di riforma, o forse perché si presentava piccolo, smagrito, stracciato e sofferente, o forse perché aveva tre bambini o semplicemente perché, cosa rarissima, aveva avuto la fortuna di incontrare militari che non avevano ancora perso il senso di umanità. Mio padre raccontava che non si era mai imbattuto in tedeschi aggressivi e violenti, anche se, comunque, li temeva molto. Egli scendeva spesso dalla montagna per le provviste ma soprattutto per controllare la sua piccola casa che fortunatamente trovava sempre in piedi ma completamente vuota, non attribuiva il furto delle cose ai soldati bensì alla gente del posto. Passando davanti alla cantina non mancava di salutare i soldati tedeschi che lo presero a ben volere e gli davano qualcosa da mangiare. Poi passava in rassegna la zona per portare notizie fresche in montagna. Nel corso di una di quelle perlustrazioni vide, al ponte di Catanzano, che sulla strada giacevano alcuni soldati tedeschi morti. Calzavano scarpe alte (stivaletti) nuove nuove, al che un pensiero lo assalì che forse poteva risolvere il dramma dei suoi piedi. Si guardava i piedi nudi, feriti e di colore viola e poi tornava a guardare le scarpe. La coscienza si ribellava all’idea di prendere le scarpe a un morto, ma trovò la giustificazione per metterla a tacere e decise di prenderle perché “al morto non servivano più a me si”. Si guardò intorno, tolse le scarpe al morto e le nascose in una sacca. Calzò le scarpe solo quando fu sulla montagna che cominciava a popolarsi di militari alleati.

Dichiarazione di riforma di Pietro Matrundola.

ULTERIORI BOMBARDAMENTI

Oltre che il centro di Cervaro, contrade e abitati limitrofi come Sprumaro, i bombardamenti interessarono anche i monti e le vallate circostanti. Pure Monte Aquilone fu oggetto di cannoneggiamenti. Fu colpita così anche la culla dei civili di Sprumaro e si ebbero morti e feriti. Infatti il 21 dicembre 1943, perse la vita, colpita da schegge, Angela Pacitti (classe 1908), moglie di Marcellino Franzese (classe 1908) delle Pastenelle, mamma di 4 figli, Antonio (n. 1931), Pasqualina (n. 1936), Carmine (n. 1937) e Maria (n. 1940). Fu seppellita provvisoriamente a Ullanito e dopo la guerra fu traslata al cimitero di Cervaro. Marcellino rimasto solo era disperato, non sapeva come gestire i suoi quattro figli. Ognuno cercava di aiutarlo come poteva. La sorella di mio padre, zia Bettina di 22 anni, iniziò ad andare al suo ricovero tutti i giorni per qualche ora per preparare qualcosa da mangiare ai bambini. Con il passare dei giorni le ore di aiuto aumentavano sempre di più finché si stabilì in pianta stabile al ricovero con Marcellino e i suoi figli abbandonando la famiglia d’origine (il comportamento di zia Bettina non fu gradito né dalla famiglia né dai conoscenti, all’epoca si poteva convivere con un uomo solo a matrimonio avvenuto). Poi zia Bettina sposò Marcellino nel 1945 ed ebbe altri cinque figli. È stata la mamma buona di tutti i figli di Marcellino e tutti indistintamente l’hanno rispettata e amata.

NUOVE VITE E NOTE DI VITA

Tra tragedie e morti a Ullanito ci furono anche eventi di nascita, che oggi identifichiamo come “lieti”, in condizioni igieniche e sanitarie precarie, senza assistenza medica né medicine e nella promiscuità degli abitanti del ricovero, solo con l’aiuto della mammana (levatrice) che altro non era che una donna più anziana con l’esperienza di aver fatto nascere qualche bambino. Il 25 gennaio 1944 Lucia Risi moglie di Luigi Minchella (Marone) di Masciola diede alla luce una bimba che fu chiamata Maria Salva.

Altra nota per così dire leggera è rappresentata dal fatto che tra gli sfollati in montagna c’erano anche donne di facili costumi. Una di queste si chiamava Rosaria. Aveva 26 anni, era una bellissima e prosperosa ragazza e pertanto caldamente corteggiata dai giovani ma anche dai padri di famiglia. Illusa da promesse e regali ricambiava i suoi ammiratori. Tuttavia i suoi corteggiatori prima la usavano e poi la deridevano e l’allontanavano. In montagna lasciata da sola e in miseria si accompagnava con soldati (in cambio di cibo e un posto per dormire) in particolare con un militare americano di nome Bimbo che aveva un cane di nome Bob (come riferitomi da Giovanni Matrundola). Rosaria fu scacciata dalla famiglia e diseredata, rappresentava la “vergogna della famiglia”. È morta a Latina di vecchiaia.

RISCHI

Tra le pochissime fonti di sostentamento degli sfollati di Ullanito c’erano quelle derrate alimentari che erano state nascose nelle case di Sprumaro prima di essere abbandonate. Ecco che giovani donne coraggiose, accompagnate dai padri o dai fratelli, nonché i capi famiglia facevano la spola fra i rifugi e lo Sprumaro per recuperare farina, fagioli, vino, olio, ecc., nonché per verificare lo stato e le condizioni delle abitazioni oppure per avere notizie.

Tuttavia le insidie rendevano pericoloso il viaggio fino a casa. I soldati tedeschi erano sempre in agguato e sempre pronti ad esercitare atti di violenza.

Un giorno Cristina Minchella, nata il 22 giugno 1922, della Porcareccia, con il fratello Silvio e lo zio Damiano, provenienti da Ullanito, stavano percorrendo l’ultimo tratto di uno stradello dei Valente coperto dai rami degli alberi. Erano giunti quasi al guado (inizio) di Via Porcareccia, le due strade erano situate una di fronte all’altra tagliate dalla via principale di Sprumaro. A un certo punto sentirono il rumore del motore di un camion. Silvio e Damiano riuscirono a infilarsi nella boscaglia, nascondendosi tra le frasche. Invece Cristina, una bella e giovane ragazza, non riuscì a sottrarsi alla vista. Due militari tedeschi, scesero a volo dal camion, che proseguì la sua corsa, afferrarono la povera Cristina con evidente intenzione di abusarne sessualmente. La giovane cercò di divincolarsi dalla presa, contorcendosi, scalciando e gridando, finché riuscì a liberare un braccio e con scatto repentino afferrò una pietra e la piazzò sul viso di uno dei due soldati, colpendolo a un occhio che cominciò a sanguinare. Entrambi abbandonarono la presa e fuggirono. Di lì a poco la zona si riempi di tedeschi alla ricerca di Cristina, la cercarono anche durante la notte con le torce. Ma la ragazza, con il fratello e lo zio, aveva ripreso immediatamente la via della montagna.

LA DUPLICE UCCISIONE DI ANGELANTONIO VALENTE E GIUSEPPE VALENTE

Ecco che il 12 gennaio 1944, proprio mentre il centro di Cervaro stava per essere liberato dalle truppe americane, due capi famiglia, accompagnati da un cane, partiti da Ullanito e diretti alle proprie case allo Sprumaro per recuperare dei prodotti alimentari, furono trucidati. Si trattava di:

Angelantonio Valente nato il 10 ottobre 1885, dei Valente, marito di Orazia (detta Raziella) Rizzi (classe 1891) e padre di Clementina (n. 1912, poi mamma di Elisa e Olga), Giovanni (n. 1914, poi padre di Enzo, Maria e Erminia), Iolanda (n. 1915), Marco (n. 1919), Immacolata Concetta (n. 1923, poi mamma di Giovanni Pacitti), Angelina (n. 1925), Vincenzo (n. 1928, poi padre di Antonella, Silvana, Alida e Angelo) e Laura;

– Giuseppe (detto Giuseppuccio) Valente nato il 19 marzo 1888 del primo agglomerato del Ferraro, marito di Palma Maraone (classe 1888) e padre di Caterina (detta Catarina, n. 1915), Gilda (n. 1924) e Anna (detta Nannina, n. 1920, poi mamma di Enzo, Maria e Erminia).

Si trovavano già in prossimità delle proprie abitazioni, sulla strada vicinale dei Valente (alle spalle del frantoio Lanni) e prima del secondo agglomerato del Ferraro e più precisamente a poca distanza retro case della famiglia Pacitti (Cosimo, Stefano ecc.) quando incrociarono dei soldati tedeschi. Con i fucili spianati i militari chiesero ai due cosa stessero facendo lì. In quei frangenti i due non riuscirono a dare spiegazioni esaustive. Furono allora considerati delle spie degli anglo-americani. Pertanto i tedeschi decisero di dar loro una punizione esemplare. Entrambi furono uccisi, sgozzati con una sciabola/baionetta. Poi i soldati spararono un colpo di fucile al cane.

I corpi di Angelantonio e Giuseppuccio, nonché la carcassa del cane, furono abbandonati sul campo come monito. Caterina la figlia di Giuseppuccio Valente, e Marco, il figlio di Angelantonio Valente, più qualche altro familiare scesero dalla montagna per sistemare i resti dei due sventurati. Costruirono due casse con pezzi di tavole raccolte nei paraggi, vi adagiarono i corpi, e, caricate sopra le teste di Marco e Caterina, le trasportarono al Cimitero di Cervaro. Qui i familiari scavarono una fossa provvisoria e vi seppellirono i genitori. Dopo la guerra Giuseppuccio e Angelantonio furono riesumati per dare una degna sepoltura. Ad Angelantonio mancavano le scarpe e il figlio Marco gli mise le sue (tornò a casa scalzo). I nomi di Giuseppe Valente e di Angelantonio Valente appaiono menzionati sulla lapide affissa sulla facciata del Comune di Cervaro.

I PRIMI RIENTRI DOPO LA LIBERAZIONE E LA DISTRUZIONE DI MONTECASSINO

Il territorio di Cervaro fu liberato tra il 12 e il 15 gennaio del 1944. Con l’arrivo degli alleati si mangiava qualcosa in più e ci si sentiva protetti. Fu così che alcune famiglie, nei primi giorni di febbraio 1944, come oggi riferisce Vincenzina Pacitti, che ha assistito al bombardamento di Montecassino del 15 febbraio 1944 da Via Piternis, tornarono dalla montagna in paese. Il gruppo di famiglie di Damiano Pacitti, Pasquale Minchella e Angelina Pacitti intendevano alloggiare nella casa del primo, in Via Vecchia dei Piternis ma avendola trovata occupata dagli americani che l’avevano adibita a ospedaletto, si spostarono in un fabbricato lì nei pressi. L’allora bambina Vincenzina di 7 anni, ha, ancora oggi a 87 anni, nitide le immagini dei soldati feriti e sanguinanti o privi di qualche arto e ha ancora nelle orecchie le grida di dolore dei feriti.

La famiglia di Antonio Matrundola dei Mancini centro (come riferisce Maria Matrundola) tornò a casa perché Pasquariello e Rosa erano molto malati. Dietro casa e nel largario antistante trovarono un accampamento militare americano (in sostituzione di quello tedesco) e la casa adibita ad ospedaletto. Lì Pasquariello e Rosa furono ricoverati con i soldati feriti e anch’essi furono curati. Entrambi guarirono e morirono rispettivamente nel 1967 e nel 1969. Anche gli altri membri della famiglia trovarono una sistemazione all’interno della casa, e i piccoli figli di Antonio e cioè Luigi, Maria, Carmine e Elisa si aggiravano all’interno della casa tra feriti e morti. Antonio riceveva e dava aiuto agli Americani. Andava con i soldati a caricare e scaricare le munizioni per i cannoni, le mitragliatrici ecc.

Ma la guerra continuava ancora. Dalla montagna, gli sfollati assistevano allo spettacolo dei bombardamenti, prima il cielo solcato dagli aerei assordanti, poi il sibilo delle bombe in caduta, e infine la deflagrazione sulle pianure di Cervaro e Cassino accompagnata da fuoco, fiamme, fumo e nuvole di polvere non senza dimenticare il tonfo e le esplosioni delle cannonate.

Fu così anche il 15 febbraio 1944 quando gli sfollati passarono la giornata sulle alture dei colli da cui era nettamente visibile il Monastero di Montecassino e potettero assistere alla sua distruzione, un viavai di aerei scaricavano bombe che cadevano a pioggia (come ghiande a vista percepita da mia madre) a seguire i cannoneggiamenti finché il Monastero non fu più visibile dalla montagna.

INTENSIFICAZIONE DELLE OPERAZIONI MILITARI E LO SFOLLAMENTO AL SUD

Intanto gli alleati andavano intensificando le operazioni militari per lo sfondamento della Linea Gustav. Nell’imminenza del bombardamento di Cassino del 15 marzo 1944 quella parte di popolazione che era riuscita a evitare lo sfollamento forzato disposto dai tedeschi nel novembre precedente, subì quello degli alleati. Questa volta, però, molte famiglie spaventate e disperate da mesi di privazioni, stenti e sacrifici scelsero di sfollare alla ricerca della tranquillità e della salvezza. Altre, invece, subirono a malincuore l’allontanamento, altre ancora, come la mia famiglia, riuscirono a rimanere al rifugio di montagna ed altre nelle proprie case.

Nella seconda metà del mese di febbraio alcune famiglie di Sprumaro già rifugiate a Ullanito, Cisterna e zone limitrofe ai piedi di Colle Aquilone, furono caricate sui camion militari americani e portate alle stazioni ferroviarie più vicine con direzione sud Italia (per la maggior parte) e cioè Calabria, Sicilia, Basilicata.

SFOLLAMENTO IN CALABRIA

Furono sfollati in Comuni della provincia di Cosenza sistemati nelle case con vitto (poco) a spese degli americani:

– la famiglia di Crispino Matrundola (classe 1880) dei Mancini con la moglie Emilia Canale (classe 1882) e le figlie Angelina (n. 1904), Maria (n. 1905) e Vincenzina (n. 1920);

– le famiglie dei fratelli Luigi Tomassi e Tommaso (detto Tomasino) Tomassi (classe 1912) di Via Noceromana. Il primo era con la moglie Maria (detta Marietta) Minchella e il figlio Giuseppe (detto Peppino). Il secondo era con la moglie Elisabetta (detta Lisetta) Pacitti (classe 1922) di Cosimo del Ferraro, con la prima figlia di due anni Lidia (n. 1941), e poi l’altro figlio Antonio che era nato il 7 febbraio 1944. Il piccolo era nato sano come un pesce e bello come il sole, portato a pochi giorni in terra di Calabria dove fu investito da una febbre altissima con convulsioni e irrigidimento dei muscoli particolarmente quelli delle gambe. Solo molto tempo dopo seppero che aveva contratto la poliomielite. Invece la mamma di Elisabetta e le sorelle furono sfollate in Sicilia.

SFOLLAMENTO IN BASILICATA

Altre famiglie furono sfollate in vari Comuni della Basilicata. A Laurenzana, provincia di Potenza, giunsero:

– la famiglia di Marco Pacitti cioè la moglie Lucia Di Cerbo e le figlie Mafalda e Amalia nonché Maria Assunta Di Cerbo sorella di Lucia delle Pastenelle,Durante la giornata Amalia giocava con le coetanee lungo le viuzze del paese. Mafalda, di 12 anni, oltre a divertirsi a fare le trecce a tutte le ragazze del rione, faceva la pasta in casa e predisponeva la cena per gli adulti che andavano a lavorare in campagna per portare qualche soldo a casa.

Invece giunsero a Rionero in Vulture, provincia di Potenza:

– la famiglia di Clementina Valente (classe 1912) dei Valente, figlia di Angelantonio e di Orazia (detta Raziella) Rizzi, sposata con Pasquale Niro (classe 1908) di Vallerotonda, deceduto nel suo paese d’origine nel 1943 a causa di cannoneggiamenti, con i figli Rinaldo (n. 1931) e Onorino (n. 1936). A loro si aggregò la famiglia di Domenico Niro (cognato di Clementina) di Vallerotonda con la moglie Elisa Mancone e i bambini Diomira (n. 1930), Esterina, Evaristo e Remo. La signora Elisa Mancone era incinta del quinto figlio e a Rionero morì di parto insieme al bambino. Successivamente i cognati, rimasti entrambi vedovi, si sposarono ed ebbero altri due figli Elisa e Olga. La nuova famiglia si stabilì a Sprumaro.

SFOLLAMENTO IN SICILIA

Molte persone del Cassinate e di paesi limitrofi partirono alla volta della Sicilia dalla stazione di Napoli, ammassate su vagoni merci, sedute in terra o sopra i bagagli, dei fagotti fatti con vecchie lenzuola chiusi attorcigliando gli angoli e annodandoli che contenevano qualche straccio di coperta, vestiti e provviste.

Anche alcune famiglie di Spumaro-Cervaro furono portate in terra siciliana. Attraverso i ricordi di Carmina (detta Carmela Marone) Minchella, oggi ottantacinquenne (intervistata dal fratello Giannino), sulla base dei racconti di famiglia e di quelli di altre persone della zona, è possibile conoscere le famiglie che giunsero a Chiaramonte Guelfi, Comune in provincia di Ragusa, posto in cima a una collina dei Monti Iblei, e cioè:

– la famiglia di Carmela (detta Carmela Marone) Minchella (classe 1938) di Masciola ora Via degli Ulivi, composta dal padre Luigi Minchella (classe 1909), dalla mamma Maria Lucia Risi (classe 1913), dalle sorelle e fratelli Matilde (n. 1939), Paolo (n. 1942) e Maria Salva (detta Salvina) nata il 25 gennaio 1944 a Ullanito, oltre alla nonna materna Vincenza Curtis (classe 1868, vedova);

– la famiglia di Nicola Minchella (classe 1906), di Masciola ora Via degli Ulivi, che però in quei momenti si trovava altrove, per cui sfollarono la moglie Maria Addolorata (detta Dolorosa) Crolla (classe 1910) con le figlie Lucia e Santina (Nicola Minchella era il fratello di Luigi Minchella e dunque zio di Carmela Marone Minchella);

– la famiglia di Cosimo Pacitti (classe 1897) del secondo agglomerato di Ferraro, anch’egli non era presente in quei momenti in quanto catturato dai tedeschi. Sfollarono dunque, la moglie Maria Giuseppa (detta Margseppa) Iafano (classe 1898) con le figlie Fortunata (n. 1925), Pierina (n. 1927), Mario (n. 1930), Filomena (n. 1932) ed Elena (n. 1935);

– la famiglia di Francesco (detto Francesco di Giorgio) Valente (classe 1898) dei Valente, con la moglie Maria (detta Marietta) Di Cerbo (classe 1901) e i figli Antonietta (n. 1925) e Giuseppe (detto Peppe n. 1929);

– la famiglia di Francesco Risi (classe 1916) di «Prdsin o Mastaustino» che al momento si trovava in prigionia in Russia e dunque sfollarono la moglie Pasqualina (detta Pascalina) Canale (classe 1921) e la figlia Gaetana (detta Gaetanina n. 1942) nonché la suocera Concetta Rizzi (vedova, classe 1892) e la sorella Matilde (n. 1922);

– la famiglia di Pasquale (detto Pascale) Canale di Breghella (classe 1913) che al momento si trovava in prigionia in Africa e dunque sfollarono la moglie Maria (detta Mariuccia n. 1915) e le figlie Anna (n. 1938) e Iolanda (n. 1940, mia cognata);

– la famiglia di Orazio Canale (classe 1883) delle Pastenelle con la moglie Maria Giuseppa Canale (classe n. 1891, nonni di Enzina Margiotta) con i figli Carmela (n. 1912), Vincenzo (n. 1915) e Argentina (n. 1924, poi mamma di Enzina Margiotta);

– la famiglia di Arturo Cavaliere (1915-1950) delle Pastenelle con la moglie Filomena Pacitti (1918-1997) e il figlio Domenico (n. 1935) e forse anche la figlia Maria (n. 1933 ma non c’è ricordo);

– la famiglia di Alessandra Pacitti (n. 27.2.1923) si presume con la madre Teresa Pignanelli (1889-1956 o 1958), vedova del primo marito Domenico Cavaliere (1889 circa-1920) e del secondo marito Damiano Pacitti (1885 circa-1931) residente in via Patini di Cassino (vicinanze di Pastenelle-Cappella Morrone-Pacitti di Cervaro). Pertanto Arturo Cavaliere e Alessandra Pacitti erano fratelli per stessa madre e padri diversi.

RICONGIUNGIMENTI FAMILIARI IN TERRA DI SICILIA E NUOVE NASCITE

Secondo la narrazione di Geremia (detto Germino) Tortolano (padre di Claudia e marito di Delia) avvenne che Francesco Risi marito di Pascalina, già componente del Corpo di spedizione italiana in Russia dal 1941 e scioltosi nel 1943, riuscì a rientrare, dopo varie vicissitudini, in Italia. Nel febbraio 1944 giunse allo Sprumaro ma non vi trovò la sua famiglia. Venne a sapere che era stata sfollata a Chiaramonte Gulfi. Allora si mise d’accordo con Pasquale Margiotta (n. 1925, padre di Enzina) dei Rodi il quale era fidanzato con Argentina Canale, sfollata con la famiglia anche lei a Chiaramonte Gulfi, e decisero di partire alla volta della cittadina siciliana con mezzi di fortuna, camion militari, treno e carretti vari fino a raggiungere la meta stabilita solo dopo alcuni giorni. L’incontro tra Francesco e Pascalina fu talmente caloroso che il 6 novembre 1944 in Chiaramonte Gulfi nacque la seconda figlia che si doveva chiamare Delia, ma Francesco, che era passato alla cantina prima di andare al Comune, la registrò con il nome di Delizia Cristina (detta Delia, poi mamma di Claudia Tortolano). Padrini di battesimo della bambina furono Arturo Cavaliere e la moglie Filomena Pacitti delle Pastenelle, compagni di sfollamento.

SOLIDARIETÀ E BARUFFE

I chiaramontani erano solidali e affettuosi con gli sfollati di Cervaro. Carmela ricorda che ogni mattina un pastore con 10 o 15 capre, si fermava davanti la loro casa, mungeva le capre e donava un quarto di litro di latte per ogni bambino e ogni anziano sfollato.

Nonostante la solidarietà e nonostante le derrate alimentari fornite dagli americani tramite il Comune, il cibo risultava insufficiente a sfamare gli sfollati. Allora alcuni andavano a lavorare in campagna per qualche soldo, mentre altri uscivano a chiedere l’elemosina portando a casa un po’ di olio e di pane. Invece Francesco Risi con alcuni amici, gironzolava tutta la giornata tra Chiaramonte e i paesetti vicini, frequentando le cantine dove si beveva, si giocava a carte e si conversava (luoghi vietati alle donne mentre concessi ai bambini solo per chiamare il genitore maschio). In tali ambienti iniziarono a nascere forti rivalità tra gli sfollati dei vari paesi del Cassinate. Dai racconti di Francesco al genero Geremia (detto Germino), i cervaresi, per il loro modo di parlare, venivano chiamati in modo denigratorio “bocca storta”. Ciò generava allora risse e zuffe, nella colluttazione se ne davano di santa ragione e poi il ferito veniva riaccompagnato a casa.

MATRIMONI IN TERRA DI SICILIA2

Si vennero a creare anche legami sentimentali come nel caso di Alessandra Pacitti che sposò un giovane del posto di nome Giuseppe ed ivi ha vissuto fino alla sua morte avvenuta nel 2010.

Fortunata Pacitti nel settembre 1944 conobbe Raffaele Catania, nato nel 1923 a Chiaramonte Gulfi, residente in un piccolo “dammuso” (casa nella roccia) a Piano San Salvatore. La scintilla dell’amore scoccò sui campi mentre raccoglievano le carrube. Fortunata e Raffaele si vedevano di nascosto dalle famiglie, entrambi erano già fidanzati, Raffaele era anche sul punto di sposarsi (mancavano pochi giorni) e la dote da parte della promessa sposa era già stata consegnata al futuro marito.

Le famiglie cercarono di dissuadere i due giovani. La situazione si era fatta imbarazzante, le famiglie “ci avevano rimesso la faccia” ed erano soggette alle critiche dei paesani. Mamma Margseppa e le sorelle cercarono di convincere Fortunata a rinunciare a Raffaele ma non ci fu nulla da fare, era follemente innamorata. Quando la famiglia fece ritorno a Cervaro lei rimase a Chiaramonte ove fu soprannominata “la sfollata”. Fortunata fu presa in custodia da Lucia, moglie di Salvatore detto Turiddu fratello di Raffaele, che doveva badare a che i fidanzati non rimanessero soli fino al matrimonio. Quindi il 4 gennaio 1945 fu celebrato il rito nuziale.

Pacitti e Raffaele Catania il giorno del matrimonio celebrato a Chiaramonte Gulfi il 4 gennaio 1945.

Tuttavia il padre Cosimo portava rancore verso la figlia tanto che per alcuni anni non ebbe contatti con Fortunata. La mamma Margseppa aveva regalato alla figlia un lenzuolo, una scatola di fiammiferi e una bottiglia di petrolio, ma Raffaele li aveva regolarmente rifiutati e restituiti. Fortunata e la sua famiglia d’origine si riconciliarono quando lei venne a Sprumaro a presentare i suoi primi quattro figli.

Fortunata e Raffaele ebbero complessivamente cinque figli Giovanna, Salvatrice, Maria, Vito e Salvatore, tutti nati nel “dammuso” composto di una stanza con il letto di Fortunata e Raffaele e i lettini dei figli. Poi c’era una porticina che dava accesso alla “tannura” (angolo cottura) e alla stalla della mula. Raffaele, gran lavoratore, faceva la calcara. In più marito e moglie lavoravano un terreno ereditato che si trovava a tre chilometri da casa, accompagnati dai bambini che non potevano rimanere soli a casa.

A causa del raccolto scarso, dei debiti e dell’assenza di prospettive di guadagno, con cinque figli da sfamare tra i quattro e i tredici anni, nell’aprile del 1957 i due decisero di emigrare in Francia a Bagneux ove Raffaele faceva il muratore, ben pagato, Fortunata le pulizie alle famiglie benestanti, i figli tutti dediti agli studi.

Di qui inizia l’ascesa sociale di tutti i figli di Fortunata che ottennero il meritato successo in campo economico e professionale. In particolare il più piccolo, Salvatore, da autista diventò Ceo (amministratore) del colosso dell’autonoleggio Europcar (dall’auto- biografia di L’uomo con una Marcia in più edito dal Gruppo24ore). Fortunata e Raffaele sono morti in Sicilia rispettivamente nel 2022 e nel 1995.

IL RIENTRO

Al ritorno gli sfollati ritrovarono quasi tutti le case in piedi (salvo qualche eccezione) ma completamente vuote. Il rientro avvenne a scaglioni. Ovviamente quelli provenienti dalle montagne vicine rientrarono già nella primavera inoltrata del 1944, gli altri tra la fine di novembre e dicembre 1945.

Per gli sfollati al meridione normalmente erano i capifamiglia che anticipavano il rientro degli altri componenti. Li precedevano per verificare la situazione che trovavano in paese, le condizioni della casa e le difficoltà in generale, anche quelle del viaggio.

Ad esempio dalla Sicilia tornarono nell’autunno 1945 senza permesso Luigi Minchella (padre di Giannino Marone) e Francesco Valente (detto Francesco di Giorgio). Infatti Giovanbattista Minchella, padre del primo, aveva scritto una lettera in cui li avvisava che si prospettava una buona annata di olive per cui si doveva provvedere alla raccolta.

Dalla Sicilia gli sfollati raggiungevano in treno Napoli e poi ogni gruppo familiare si arrangiava come poteva. Un giorno giunse alla stazione del capoluogo partenopeo Carmela Marone Minchella con la mamma Maria Lucia e sua cognata Maria Addolorata (detta Dolorosa) Crolla e poi l’anziana nonna Vincenza e sei bambini. Maria Lucia e Dolorosa lasciarono Vincenza a custodire i bambini, i bagagli e l’olio, per andare alla ricerca di un mezzo di trasporto che doveva portarli a Cervaro. Mentre stava lì aspettando la povera Vincenza fu derubata di dieci litri di olio. Alla fine, comunque, un camion portò tutto il gruppo fino alle Pastenelle. Poi da lì le donne e i bambini più grandi proseguirono a piedi mentre, dopo una lunga attesa, nonna Vincenza con Maria Salva di quasi due anni e i bagagli tornarono a casa con l’asino.

L’ALTRA GUERRA

Cristina Minchella (indicata dalla freccia).

Finita la guerra delle armi, anche lo Sprumaro ne combatté un’altra e sempre per la sopravvivenza. Cominciarono a diffondersi le malattie infettive tra cui il tifo e la malaria dovute alla scarsa igiene, all’acqua infetta, ai cibi avariati ecc.

Si ammalarono di tifo, con febbre, mal di testa, dolori addominali, inappetenza, debolezza, sfinimento ecc., il tutto aggravato dall’assenza di cure appropriate:

– Cristina Minchella di anni 22 che morì il 24 settembre 1944;

– Pietro Catori (n. 1913) della Porcareccia, che viveva isolato, perché contagioso, nel rudere del fabbricato semidistrutto colpito dalla cannonata ove ora sorge la casa degli eredi di Giovanni Matrundola e ove ha vissuto ancora per tanti altri anni con la moglie Angela Franzese (n. 1913);

– Elisa Borea dei Mancini curata con decotti di erbe;

Si ammalarono di malaria, curati e salvati con chinino dal medico Barone:

– Guido Matrundola (mio zio);

– Concetta Valente (mamma di Giovanni Pacitti) dei Valente;

– Armando Matrundola dei Mancini che fu ricoverato nell’Ospedaletto baraccato di S. Antonino;

– Maria Matrundola di Antonio dei Mancini che si ammalò anche di tifo ed ebbe anche una paresi facciale, fu salvata dal medico dottor Alfonso Coletta che portava le medicine salvavita da Napoli.

Antonietta Pacitti, mia mamma, non so di cosa si fosse ammalata ma aveva un enorme foruncolo (lei diceva una grande boggia) nella regione lombare, che la costringeva all’immobilità con dolori lancinanti e febbre, mio padre era disperato, temeva il peggio, era lui che si doveva occupare dei bambini. Mia mamma fu operata alla viva dal medico Barone che le praticò una lunga incisione e rimase una cicatrice che l’ha accompagnata nella vita a ricordo della guerra.

Senza dimenticare l’invasione dei pidocchi che non aveva risparmiato nessuno. Le teste di uomini, donne e bambini venivano rasate a zero, le giovani donne che avevano capelli lunghi e li portavano annodati a trecce si sentivano destabilizzate e non lo hanno mai dimenticato. Le sorelle Angelina, Vincenzina e Maria Matrundola, nei ricordi drammatici della guerra, non mancavano mai di narrare la rasatura dei capelli che avevano subito.

Gli indumenti, le coperte, la paglia, insomma tutto ciò che era infetto veniva bruciato.

Un altro importante problema era dato dalla scarsità di prodotti alimentari. Il Comune, a detta di mia madre dava mezzo chilo di farina per ogni 4 o 5 persone e pochi grammi di zucchero avvolto in una pezza. Bisognava procurarsi da mangiare perché proprio non c’era niente.

Gli uomini cercavano lentamente di far ripartire le campagne e le donne (tra cui Rosina Damiano e le sorelle Angelina, Vincenzina e Maria di cui si ha ricordo) andavano alla Valle Vecchia a fare le fascine di legna, che trasportavano sulla testa, per poi venderle ai signorotti del paese per qualche centesimo.

Insomma un drammatico vissuto che però non va rimosso né dimenticato come monito per le generazioni future.
Diceva la mia mamma “ci sentivamo uccisi e messi in croce ma siamo qua a raccontarlo”. Mia mamma ci ha lasciati a 99 anni e mio padre a 94.

1 A Cervaro il servizio per l’affido era esercitato da Filomena «Str-becchia» che andava a prendere i bimbi abbandonati dalla nascita nei brefotrofi di Roma e Napoli e li affidava alle mamme che avevano perso il proprio bambino o che avevano latte a sufficienza per più bambini o a mamme senza figli o raramente a mamme con altri figli. Si dice che le famiglie affidatarie percepissero un contributo statale. Elisa Borea era nata a Napoli ed era stata data in affido a Dolorosa Pacitti e Antonio Matrundola. Dopo la guerra, un’altra bambina, Gerardina Capaldo nata a Napoli nel 1942, fu affidata a Maria Grazia Valente moglie di Vincenzo Recchia di «Prdsin o Mastaustino» che aveva perso il suo bimbo morto per soffocamento. Tuttavia Maria Grazia non riuscì a superare la perdita del proprio figlio e ad affezionarsi alla piccola Gerardina per cui la riportò a Filomena «Str-becchia» che la affidò a Dolorosa Pacitti e Antonio Matrundola.

2 La rivista «Studi Cassinati» si è già occupata delle vicende degli sfollati a Chiaramonte Gufi con un articolo intitolato 1943/45: la diaspora dei Cassinati nelle regioni d’Italia, a. X, n. 3, luglio-settembre 2010, pp. 201-203 (rintracciabile anche in https://www. cdsconlus.it/index.php/2016/09/24/194345-la-diaspora-dei-cassinati-nelle-regioni-ditalia/) sulla base di sollecitazioni dell’editore Giuseppe Bertucci e di una TV di Chiaramonte Gulfi. La breve ricerca svolta da Guido Vettese lo portò a individuare le famiglie d’origine, provenienti da Cervaro, delle due ragazze sposatesi nella cittadina siciliana.

Dai ricordi per testimonianza diretta di:

Mafalda e Amalia Pacitti – Maria Minchella (zia di Tonino Bianchi) – Lidia (detta Lidiuccia) Risi – Carmina (detta Carmela Marone) Minchella tramite il fratello Giovanni (detto Giannino Marone) – Clelia Capaldi – Vincenzina Pacitti.

Dai ricordi per testimonianza indiretta di:

Lisa Matrundola – Maria Marano – Pino Lanni – Ida e Ugo Minchella – Elisa e Olga Niro – Aldo Recchia – Anna Matrundola – Enza (detta Enzina) Margiotta – Luigi Matrundola – Rita Tomassi – Germino Tortolano e la figlia Claudia – Rossana Quagliozzi – Maria (detta Maria di zi Nannina) Valente.

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