«Studi Cassinati», anno 2024, n. 2
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di
Alberto Mangiante
La morte di Gioacchino Murat, avvenuta nel 1815 a Pizzo Calabro, segnò definitivamente la fine del Decennio francese nel Regno di Napoli e di lì a poco i Borboni avrebbero ripreso il controllo del regno con tutte le repressioni che si possono immaginare. Nello stesso anno un certo Farinole depositò nell’archivio dell’Abbazia di Montecassino – ormai ridotto da monastero a semplice deposito a causa delle leggi di soppressione delle corporazioni religiose promulgate da Giuseppe Buonaparte – un foglio redatto in lingua francese con notizie genealogiche riguardanti la famiglia dei Buonaparte. Il foglio porta la seguente intestazione: «Arbre gènéalogique -basè sur des titre certains qui produit -les grades de parente de la famille Imperiale de Napoleone empereur des Francais et Roi d’Italie- des celles de Salinieri de Bonifacio et Paravisino d’Aiaccio département du Liamone- avec les Familles Caineri et Farinole de Bastia departement Golo».
Ma chi era il personaggio che cercava con un documento alquanto pericoloso in quel momento di avvalorare la parentela con i Buonaparte? Si chiamava Domenico Farinole e in gioventù aveva frequentato, con il fratello Giuseppe, uno dei collegi più esclusivi della Toscana, il Cicognini di Prato retto dai Gesuiti. Apparteneva a una delle famiglie più in vista di Bastia (Corsica), riconosciuta nobile o nobilitata dalla Corona francese dopo l’annessione della Corsica alla Francia. Era figlio di Vincenzo Maria, un anziano membro del Consiglio Superiore della Corte reale d’Ajaccio sotto Luigi XVI, e di Angelica Santini, nipote di Dominique Maria Santini vescovo di Nebbio dal 1775. Ma per capire la presenza del Farinole nelle nostre zone dobbiamo riportarci alla presa di possesso del Regno di Napoli da parte di Giuseppe Buonaparte nel 1809.
Il 1° giugno del 1803 il Governo francese aveva decretato in Corsica la creazione di cinque battaglioni di fanteria leggera in cui erano arruolati i volontari che non presentavano obblighi di leva e tra i componenti del secondo battaglione vi era inserito il sottotenente Stefano Farinole, nato a Bastia nel 1780. Dopo le prime imprese con le armate napoleoniche, i cinque battaglioni furono impiegati per la conquista dell’Italia meridionale e, con la presa di potere di Giuseppe Buonaparte nel 1806, Napoleone dispose che l’intera Legione Corsa passasse al servizio del fratello.
Il 1° febbraio del 1807 il reggimento, al quale un Decreto Regio del 6 gennaio aveva assegnato il nome di Real Corso, era formato ancora da cinque battaglioni e ritroviamo il tenente Stefano Farinole nel primo e poi il sottotenente Domenico Farinole, nato a Bastia nel 1778.
Qualche anno dopo, nel 1813, nel 1° battaglione troviamo ancora il capitano Stefano Farinole e anche il capitano Giuseppe Farinole, nato a Bastia nel 1792. Manca, invece, Domenico che ormai si era ritirato dalla vita militare ed era rimasto nel Regno napoletano. Nel 1814 a seguito dell’alleanza di Murat con l’Austria e contro Napoleone, la Legione Corsa si ammutinò a Castellammare di Stabia contro il re pretendendo il rimpatrio in Corsica; dopo varie trattative la regina, reggente per il marito impegnato in Alta Italia, fu costretta a cedere alle richieste e i soldati della Legione Corsa ritornarono in patria; tra questi i fratelli Stefano e Giuseppe Farinole mentre Domenico rimase a San Germano. Ed è proprio lui che presentò il documento all’Archivio di Montecassino.
Domenico, che negli atti ufficiali si firma Gregorio Domenico Andrea De Farinole, si era stabilito a San Germano dopo aver lasciato la vita militare e forse nel 1808 (data incerta) aveva sposato Michelangela Belmonte, figlia orfana del ricco possidente Benedetto Belmonte e dell’altrettanto benestante Dorotea Riccardi. Qui erano nate le due figlie, Angela il 30 novembre 1809 e Luisa l’8 novembre 1811 (morta l’11 marzo 1812). Sempre a San Germano, il 6 novembre 1811 denunciò allo Stato Civile la nascita di Maria Caterina, figlia del fratello Stefano che in quel momento era lontano perché impegnato in operazioni militari in Calabria.
Il 3 settembre 1812 la moglie Michelangela morì a Napoli e nel 1813 Domenico sposò Maria Giuseppa, sorella della moglie defunta, e dalla loro unione nacquero i figli Paola Maria (4 febbraio 1817), Vincenzo Maria (11 ottobre 1818), Adelaide (9 febbraio 1820) e Angelica (21 luglio 1821).
La sua presenza a San Germano è attestata sicuramente fino al 1820; non era presente alla nascita della figlia Angelica, perché si trovava a Bastia, e non era presente nemmeno ai funerali della primogenita Angela l’8 marzo 1831 perché per ordine del Re era stato assegnato come giudice, prima al tribunale di Marie-Galante e poi a quello di Point a Pitrè, capoluogo delle Basse-Terre nell’isola della Guadalupe. Era presente, invece, al matrimonio della figlia Paola con Raffaele de Luca nel 1837. Il 7 marzo 1845 la Gazzetta della Guadalupe dava l’annuncio della sua morte causata da dissenteria, malattia endemica presente sull’isola, e il successivo aprile i figli Vincenzo e Adelaide si recarono nella Guadalupe per risolvere le questioni inerenti all’eredità del padre. Purtroppo, tre mesi dopo, si registrò a San Germano la morte di Vincenzo forse dovuta alla stessa malattia del padre contratta durante il soggiorno nell’isola francese.
Raffaele de Luca proveniva da una delle famiglie più facoltose di Foggia. Il nonno Domenico de Luca, rappresentante di una delle più ricche famiglie della città pugliese, aveva iniziato la sua fortuna commerciando in lana e cacio, ma anche con qualche capatina nel contrabbando di sale. Nel 1797 ottenne, insieme ad altre famiglie agiate di Foggia, il titolo Marchionale in occasione delle feste organizzate per le nozze di Ferdinando IV celebrate nella Cattedrale di Foggia, per le quali con altri possidenti offrì al sovrano le migliori coppie di cavalli.
Tra i figli di Domenico ricordiamo il Marchese Giuseppe1, il giudice Nicola e Antonio, il quale abbracciò la carriera militare prestando servizio prima con le armate napoleoniche e poi con l’esercito borbonico durante la Restaurazione.
Tra le varie località a cui Antonio de Luca fu destinato troviamo Foggia e L’Aquila, mentre nel 1834 fu assegnato al comando della Gendarmeria di San Germano, città dove morì il 16 dicembre 1861 con il grado di generale. Dei sei figli avuti dalla moglie, che però viveva a Napoli, sembra che vivesse con lui solo il diciottenne Raffaele che proprio a San Germano incontrò Paola Farinole.
I due s’innamorano e convolare a nozze il 31 dicembre 1837 nella Collegiata della città. Dal matrimonio nacquero:
– Emilia Raffaella Gaetana nata il 6 novembre 1838 e morta il 25 dicembre 1838
– Emilia Antonia Rosa nata il 12 gennaio 1840 e coniugata con l’avv. Domenico Villa
– Domenico Nicola Antonio nato il 12 aprile 1842 e morto il 18 ottobre 1842
– Rosa Filomena Germana nata il 27 settembre 1843 e coniugata con il giudice Francesco Moscati il 24 febbraio 1868
– Antonio Domenico Vincenzo nato 23 maggio 1846 e coniugato con Emilia Pegazzani il 25 luglio 1877.
Francesco Moscati nacque a Santa Lucia di Serino il 17 ottobre 1836. Completò gli studi classici presso l’istituto dei P.P. Scolopi di Avellino, si laureò in Legge presso l’Università di Napoli e successivamente superò con successo il concorso in Magistratura. Dopo gli avvenimenti che portarono all’Unità d’Italia il 10 maggio 1861, ricevette un posto di ruolo al Tribunale di Napoli e nel frattempo superò un altro concorso bandito dal Consiglio di Stato come Relatore. Rinunciò al posto assegnatogli al Mandamento di Montecalvo, mentre come Relatore rimase fino al 6 aprile del 1862. Venne assegnato al Tribunale di Taranto, ma nell’ottobre dello stesso anno si trasferì presso il Tribunale di San Germano molto probabilmente per potersi trasferire in un secondo momento presso il Tribunale di Avellino o di Salerno in modo da avvicinarsi il più possibile al paese natale per accudire i genitori che definì molto anziani.
A San Germano, divenuta nel frattempo Cassino, conobbe Rosa de Luca; i due si fidanzarono e convolarono a nozze il 24 febbraio1868. Nel 1869 fu nominato Giudice Applicato, nel 1871 diventò Giudice di II categoria mentre nel 1872 fu incaricato d’istruire processi penali. Fu in questi anni che venne messa a rischio la sopravvivenza del Tribunale di Cassino per il processo intentato contro Domenico Coja, detto Centrillo, arrestato a Roma dalla Gendarmeria francese, consegnato al Governo italiano e poi processato a Cassino dove, con sentenza del 20 ottobre 1865, fu assolto insieme ad altri suoi compagni. Questa sentenza scatenò l’ira della stampa nazionale che chiese la chiusura del Tribunale di Cassino accusato di venir meno ai suoi compiti per aver assolto briganti e criminali, ma per fortuna l’incidente non ebbe seguito.
Nel frattempo, l’appartamento in via Roma dove abitavano i coniugi Moscati cominciò a popolarsi di bambini. Per primo nacque Gennaro nel 1869, poi Alberto il 13 ottobre 1870, le due gemelline Maria e Anna che morirono in tenera età e infine Marianna, l’ultima nata a Cassino e che morì a soli 4 anni di difterite.
Nel 1873 venne accolta la sua richiesta di poter scegliere una sede che fosse vicina al suo paese natio e gli venne assegnata quella di Salerno. Negli anni a seguire fu un susseguirsi di spostamenti tra varie sedi. Dopo Salerno andò a Santa Maria Capua Vetere, poi Melfi che però rifiutò per Isernia, finché ad un certo punto chiese di ritornare a Cassino. Le autorità superiori espressero parere negativo poiché a Cassino aveva già esercitato la funzione di giudice e poi perché pensavano che il suo giudizio non potesse essere equo, avendo sposato una signora del posto (altri tempi!). Accettò così la sede di Benevento dove rimase tre anni che furono allietati dalla nascita di Anna Maria 19 luglio 1878 e Giuseppe il 25 luglio 1880.
Con la nomina a Cavaliere del Re si prospettò un altro trasferimento ad un’altra sede e, dopo vari tentennamenti dovuti anche alla malattia e alla morte della figliola Marianna, venne trasferito al Tribunale di Ancona, città dove il 17 agosto 1882 nacque il figlio Eugenio, ma anche l’anno in cui avvenne la tragedia di Casamicciola in cui persero la vita Domenico e Alfonso, fratelli di Francesco. Nel febbraio 1884 ci fu un altro trasferimento questa volta presso la sede di Napoli e qui il 12 dicembre 1884 nacque Domenico che fu sindaco di Napoli dal marzo 1948 a luglio 1952.
Ma la lunga serie di trasferimenti, la tragedia delle figlie Anna, Maria, Marianna e soprattutto quella di Alberto, che durante una parata militare venne disarcionato dal cavallo e ridotto ad una vita quasi vegetativa, e infine anche la salute malferma della moglie, ne avevano logorato la forte fibra tanto che Francesco Moscati si spense la mattina del 21 dicembre 1897 alle ore 11 dopo un malore.
Il 25 novembre 1914 Rosa de Luca morì a Napoli a causa del diabete, una malattia all’epoca incurabile e di cui lei soffriva da tempo. Il figlio Giuseppe ne fece una sua battaglia personale e fu il primo medico a sperimentare l’insulina a Napoli. Rosa fu ricordata dal figlio Giuseppe come «Donna veramente forte, completamente presa dalla sua missione di madre cristiana sempre ligia al suo dovere e al maggior bene dei suoi figli».
Alberto, dopo le cure riabilitative a Torino che non portarono ad alcun giovamento, venne riportato in famiglia a Napoli, dove morì il 2 giugno 1904. All’epoca Giuseppe Moscati, mentre frequentava il Liceo curava il fratello e forse, proprio seguendone da vicino le sofferenze, si convinse ad abbracciare la professione medica.
A Cassino che cosa rimane di quello che abbiamo appena ricordato? Quasi niente.
La distruzione totale della città e la perdita degli archivi civili e religiosi ne ha favorita la dimenticanza. La famiglia Belmonte è scomparsa, mentre della famiglia Farinole sono scomparse le ultime eredi: le signorine Rosa e Antonietta Golini Petrarcone, nipoti dirette di Adelaide Farinole tramite la madre Beatrice Fusco. Invece, Angelica morì nubile a Cassino il 24 gennaio 1916.
La famiglia de Luca, riparata a Roma dopo la distruzione della città, non è più tornata e ha venduto anche il suolo dove sorgeva il palazzo de Luca in via Fontana Rosa. Stessa sorte per i Pegazzani e i Villa. Nel cimitero di Cassino sono scomparse le tombe della famiglia de Luca fagocitate da un’inopportuna e discutibile ripulitura. È rimasta solo quella padronale della famiglia Villa con la tomba di Emilia de Luca, moglie di Domenico Villa, ma è così mal ridotta che prima o poi crollerà.
Giuseppe Moscati venne beatificato il 16 novembre 1975 a Roma da papa Paolo VI e nel novembre 1977 nella Chiesa del Gesù a Napoli, in occasione del Cinquantenario della sua morte, il corpo del beato fu traslato dal vecchio sepolcro al nuovo posto sotto l’altare della Visitazione.
Alla cerimonia erano presenti tutte le Diocesi del napoletano e dell’alto-casertano, ma era assente la Diocesi di Montecassino, anche se il beato veniva spesso a Cassino per visitare i parenti e i vari conventi in città, come mi testimoniava Donna Angela Varone, badessa del monastero di Santa Scolastica che lo aveva conosciuto in visita al monastero quando era novizia.
Allora mi chiedo, con le nostre chiese piene di statue e quadri, non era possibile dedicare un piccolo altare o un quadro a San Giuseppe Moscati? Anzi sarebbe stato molto più opportuno dedicargli la cappella del nuovo ospedale nella speranza che con la sua intercessione la sua funzionalità potesse migliorare. Nell’Aprile del 2027 ricorreranno cento anni dalla morte di San Giuseppe Moscati e sarebbe opportuno cominciare già da adesso a programmare al meglio questa ricorrenza.
Avevo da poco chiuso l’articolo quando mi è arrivato da parte della signora Anna Maria Pegazzani Park, che vive negli Stati Uniti, copia di una lettera che Giuseppe Moscati inviò ad Emilia Pegazzani, moglie di Antonio de Luca e parente della signora Anna Maria, la quale mi ha concesso altresì il permesso di pubblicarla. Per questo e per le piacevoli conversazioni via e-mail la ringrazio di cuore.
La lettera non è datata. Moscati era stato a Cassino per curare lo zio Antonio, fratello della madre e marito di Emilia, trattenendosi ospite per molto tempo. Dal suo tono e da quello espresso in poche righe dalla madre, traspare tutto il dolore e l’apprensione per la malattia di Alberto.
Nel testo, trascritto fedelmente, sono riportate espressioni un po’ ostiche per il linguaggio odierno, ma molto usato per l’epoca.
«Carissima zia
Quando volentieri sarei rimasto altri giorni a Cassino con voi e la vostra famiglia, ma l’essere ormai inutile presso zio Totonno, quasi rimesso e l’aver letto nella cartolina speditami da mamma la frase seguente “Alberto non vede la ragione di rimanere alla casa di salute” mi fecero risolvere a tornare.
Comunque io ricordo sempre le cure affettuose e le attenzioni addimostratomi nel non breve soggiorno tra voi e sono grato della ospitalità offertami di vero cuore. Io ho notato tutte le vostre piccole cortesie, tutti i numerosi pensieri gentili avuti a mio riguardo e la deferenza davvero immeritata con cui mi avete trattato facendomi trascorrere alcuni giorni di amena vita.
Riporto della vostra Cassino una dolce impressione tanto più cara e nel perché ho rivisto tante piccole cose, che mi rammentavano la infanzia felice, perché ho visto la culla della mia famiglia, quando diverso il mio tempo bambino; voglia Iddio che venga un giorno felice da passare assieme senza alcuna preoccupazione.
Stamattina con Eugenio sono stato da Alberto era la prima volta che egli vedeva delle persone della sua famiglia, l’effetto è stato dei più sconfortanti, egli si è agitato molto, da far paura mostrando l’assoluto desiderio di uscire da quel luogo. Ove (diceva) era ben trattato ma che non si confaceva al suo carattere.
Intanto è assolutamente impossibile ritirarlo in casa, che il Signore gli dia almeno la rassegnazione a rimanere in un luogo di salute.
Sono stato oggi da Raffaele (de luca), e l’ho trovato scherzando nel giardino, gli ho detto le migliorie di zio Totonno, l’ho riassicurato sullo stato dei suoi, ed ho saputo che studia e che farà gli esami verso il 6-7 di ottobre si potrà disbrigare per la metà di ottobre. Egli vi saluta e mi ha detto di avervi indirizzato una lettera con alcuni righi diretti a me.
Mi riprometto tornare tra voi in un tempo migliore lungi dai malati e dalle malattie, e vorrò fare col braccio forte dei fratelli e di Raffaele, un fracasso di inferno, vorrò fare il ragazzo e mi vendicherò crudelmente di tutto il latte ammannitomi sotto forma di maccheroni alla grattè.
Vi seguito a raccomandare la massima calma e lungi da voi ogni preoccupazione! A zio Totonno auguro di lasciare una volta per sempre il letto. Continui a far la cura, non dimentichi purè.
Scrivetemi il suo stato, perché ne voglio essere sempre informato, ma scrivetemi la verità senza esagerare.
Ringrazio zio Totonno di tutte le cortesie che ha ordinato di prodigarmi, e che egli stesso malgrado il suo stato mi ha fatto.
Prometto alla sua affezionata Gilli di non darle più chinino di portarle da Napoli dello zucchero sopraffino, mi dispiace che l’estrazione sia stato contrario alle brame della carissima nonna, che bacio e abbraccio, le sono grato delle affezioni avute per me e ditele che io le voglio bene e la venero qual madre di mia madre.
Possa tra breve essere propizia l’urna e che una quintina fortunata la ricolmi di ricchezza, che dire a zia Angelica ebbi la fortuna di conoscerla un po’ tardi veramente e ho impresso nella memoria le parole affettuose, che sempre mi rivolgeva e le sono tantissimo per il bene che vuole a mamma e che voleva a mio padre. La ringrazio dei manicaretti che ella confezionava, degna d’ogni vostra coaditrice in cucina e che il Signore la perdoni quel latte che versò famosi maccheroni.
Si stessero in guardia le signorine figlie questa volta un birbante di carrozzelle le destò dal sonno e le porte furono miracolosamente ribadite.
Ma quando accadrà quel fracasso d’inferno suddetto non sarà così? Del resto, quali scuse mettere immagini per gli scherzi fatti?
Io me ne pento ma come ogni peccatore ricomincerò da capo, sempre coi bracci forti sullodati che si muovano, si divertano e facessero inimicizia col pomodoro e coi medici, e acquisteranno le vigorie delle Amazzoni. Le ringrazio assai di essersi seccate appresso a me, ma possano consolarsi colle compagnie di altri signori molto più tenero.
A Livietta come stanno “glie cosce”? si muova anch’essa faccia la contadina, e legga “il castello rosso” il tempo necessario.
Anche a lei riconosco l’amicizia e la benevolenza per zia Rosina e cugini, il Signore gliela renda merito.
A zia Emilia Villa, alle figliole e ai figlioli le proteste di vera devozione e di servitù perfetta.
Anche loro sono stati con me cordiali e gentili. Rabbrividisco ancora d’essere stato capace sotto le suggestioni della Sig.ra Amalia di tracannare quattro bicchieri di marsala e altrettanti grappoli d’uva fragola
(non mai la madre con la figlia), al simpaticissimo Ernesto speciali saluti per la bella compagnia fattami e per il ciceronato di zio Mincuccio Villa, anche fresca conoscenza riporto l’impressione come di un uomo franco, aperto, leale e sento che mi sarei trovato molto bene con lui, se avessi dimorato a Cassino. Non so se sbaglio!
Ossequi al dottor Del Foco, e ripetetegli che sono davvero fortunato d’essermi incontrato con lui.
Seguendo la mia indole democratica, sento anche il dovere di salutare le vostre cameriere, e di raccomandare più che mai la cura al Mandrillo ringraziandolo del pensiero che aveva per le mie scarpe.
Saluti a zio Mincuccio Fusco.
A rivederci dunque presto e in buone condizioni: Compatitemi se forse non ho fatto o non ho saputo fare per zio Totonno quando era necessario, e rimando tutti in un solo saluto forse voglio dire abbraccio, mi dico sempre dev.mo unico gallo tra le galline.
Giuseppe Moscati
Comandatemi sempre senza cerimonie in quelle scarsissime cose, ove si possa essere utile, una aggiunta alla lettera consigliatemi da mammà.
Carissima Emilia
Grazie dell’affezioni mostrate al mio Peppino a tutti voi miei cari. Il mio stato per Alberto è crudele non trova pace. Iddio mi assista di salute a tutti mando la (illegibile)».
1 Il titolo nobiliare era stato confermato da Vittorio Emanuele II con R.D. del 14 aprile 1869, e successivo 26 giugno, e fu ereditato dal primogenito Pietro. Il figlio di quest’ultimo, Giuseppe, con RR. LL. PP. del 27 giugno 1897 affiancò a questo titolo quello del marchesato di Roseto di Valfortore ereditato dalla madre Lucia Saggese.
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