«Studi Cassinati», anno 2024, n. 2
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di
Elena De Lucia*
In memoria dei protagonisti delle vicende: – papà Peppino, mamma Santuccia, mio fratello Mario e mia sorella Antonietta – zio Luigi, zia Antonietta e il cugino Antonio – zia Marietta e zio Antonio, nonché i cugini Tommasino e Roberto (morti nel bombardamento) – zio Stefano, zia Francesca e il cugino Antonio, nonché Giovannino (morto anch’esso nel bombardamento) – gli sposini Elvira e Carmine. |
Il mio nome è Elena (anno 1936) e vi trasmetto i miei ricordi inerenti la Seconda guerra mondiale negli anni 1943/45.
Io avevo solo sette anni quando il nostro paese Cervaro era in attesa della guerra, io e la mia famiglia vivevamo nella paura.
Mio padre Giuseppe aveva combattuto nella Prima guerra mondiale (1915/18) ed era stato richiamato anche nella guerra attuale. Lui era consapevole di ciò a cui andavamo incontro, da un giorno all’altro di cosa potesse accadere con l’arrivo dei tedeschi occupatori del nostro territorio.
Mio papà cercò di nascondere ciò che era possibile nascondere con l’aiuto di mia sorella Antonia di anni 20 e di mio fratello Mario di anni 18.
Mio padre con l’aiuto dei figli trovò uno spazio nel terreno per poter interrare una botte da 44 barili (circa 2000 litri) per poi riempire di vino. Tutto questo a poca distanza dalla casa. La botte fu fatta rotolare, fu calata nella fossa e poi fu riempita di vino. Il tutto fu ricoperto con legna e sterpaglie.
Qualche giorno dopo ci svegliammo e ci trovammo in mezzo ai tedeschi che ci imposero di lasciare casa. Il mio papà con il suo buon comportamento riuscì a portare via alcuni generi di prima necessità. Mia sorella Antonia anch’essa portò via una grossa cesta di generi alimentari, mio fratello Mario si fece carico di coperte, cuscini e un materasso. Mia mamma sulla testa portò un bagaglio di indumenti personali e in braccio la piccola Francesca di un anno.
Papà portava bevande e certamente non mancava il vino. La piccola Lucia di anni 4 ed io Elena di anni 7, con lo zaino sulle spalle, con panni e la piccola Francesca. Io portavo anche in braccio una gallina con le zampe legate per non farla scappare. Voi potete dire: perché una gallina in braccio ad una bimba di 7 anni? Io ero considerata grande perché dopo di me c’erano due bimbe più piccole di me, Lucia e Francesca.
La gallina, ogni giorno, faceva un uovo che mamma Santuccia divideva tra Lucia e Francesca. Per me niente uovo perché non mi piaceva crudo. Dopo alcuni giorni, per lo spavento, la gallina smise di fare uova. Dato che la gallina non era più utile, la mia mamma pensò bene di preparare una buona cena.
La cena non fu servita in sala da pranzo ma nel ricovero (una specie di tana per cani scavata nella roccia protetta da alberi e cespugli) dove noi credevamo essere al sicuro. I militari tedeschi, come veri cani da caccia, ci scovarono e ci buttarono fuori insieme ai nostri miseri bagagli.
Ci spostammo in una casa di campagna semidistrutta (masseria) ove trovammo rifugio sotto l’angusto forno. Durante la notte stemmo stretti l’uno con l’altro. Ci fu un bombardamento in tutta la zona e una potente cannonata demolì l’angolo della casa facendo crollare pietre, calcinacci e tanta polvere che ci impediva di respirare. A questo punto mio fratello Mario, giovane coraggioso, disse che ci voleva dell’acqua. Mia madre gli disse di stare molto attento e di camminare a testa bassa per non dare sospetti ai militari tedeschi. Mario si servì di una grande pentola per attingere alla fontana «Fistole».
Al ritorno un soldato tedesco chiese a Mario dove andava. Egli gli fece capire che i familiari stavano soffocando per la gran polvere e calcinacci del posto. Il soldato lo informò che ci trovavamo nel bel mezzo del fronte e, quindi, in zona di serio pericolo. Mario riferì a mio padre e, quindi, ci spostammo la sera stessa verso la montagna del «Colle Capraro».
La montagna era lontana ed io restavo sempre indietro. Mario era quello che di tanto in tanto mi dava la mano per tirarmi avanti. La montagna mi faceva paura con i suoi sassi, pietre, cespugli, alberi grandi e piccoli e nessun viottolo da seguire. Io piangevo ma seguivo gli altri. Arrivati in un posto riparato, il mio papà e Mario costruirono una baracca (pagliaio) con rami di alberi e la ricoprirono con stramme e cespugli verdi per meglio nasconderci.
I tedeschi andavano alla ricerca di giovani per farsi aiutare nei lavori manuali e di signorine per loro compagnia. Mia mamma quando vedeva i soldati cercava sempre di nascondere mia sorella Antonia. I soldati erano di diverse nazionalità: tedeschi, marocchini e polacchi, nonché americani ed altri. Gli americani erano molto bravi e mi davano tante cose buone (cioccolato, formaggini, gallette, frutta sciroppata, ecc.) che io portavo alle mie sorelline.
Mentre siamo rimasti sulla montagna stavamo nel pagliaio per non farci vedere dagli aerei ricognitori. Infatti passava la “cicogna” (piccolo aereo italiano che volava a bassa quota per individuare insediamenti militari e gruppi di rifugiati).
Spesso passavano numerose formazioni di aerei che si dirigevano su Montecassino per bombardare il noto monastero (febbr. 1944). Dopo tanti giorni che quel fuoco non finiva mai, quella montagna era piena di cavalli e soldati morti. Un giorno ci fu un grande attacco a Montecassino, gli aerei passavano in formazione (forse 12xl2) l’una dopo l’altra tanto da sembrare stormi di rondini dirette verso il caldo. Noi dalla montagna vedevano solo fiamme e fumo insieme a botti fragorosi.
NB. I nomi e i riferimenti sono stati acquisiti nella mia maggiore età a seguito di precisazioni da parte di chi aveva vissuto quei momenti drammatici da adulto.
Vicino al nostro pagliaio c’erano altre due famiglie. Quella di zia Francesca (sorella di mia madre) con il marito Stefano e i figli Giovanni ed Antonio e quella di zia Antonietta con il marito Luigi e i figli Gaetano e Giovanni. C’era anche un altro uomo di cui non ricordo il nome.
Zia Antonietta aspettava un bimbo e stava per partorire (nov. 1943). Non c’era possibilità di contattare un’ostetrica e, quindi, la responsabilità del parto fu addossata a zia Francesca (esperta “mammana” del tempo).
I giovani dell’insediamento (i figli di zia Francesca e di zia Maria che si era aggregata da poco, nonché zio Stefano) si portarono sopra un piccolo pianoro per osservare gli effetti dei bombardamenti a Montecassino.
Fu Giovannino di zia Francesca ad invogliare i cugini dicendo loro: «Andiamo più sopra la montagna così vediamo bene la scena del bombardamento». In quel momento un aereo staccatosi dalla formazione tornò indietro e sganciò una bomba nel punto dove erano i ragazzi. Avvenne una catastrofe: due cugini morirono all’istante ed il terzo rimase gravemente ferito. Rimasero feriti anche zio Stefano con la perdita di un occhio e zio Luigi con lesioni ad un braccio e ad una gamba. Occorreva immediato soccorso, così mio padre e mio fratello Mario si avviarono per trovare un medico ed anche qualcosa da mangiare. Nel ricovero rimasi io con le sorelline, zia Antonietta in procinto di partorire, zia Francesca, e gli zii Luigi e Stefano feriti e i tre cugini morti (nel frattempo anche il terzo cugino spirava). Una vera catastrofe.
Non trovando nulla si decise di scendere a valle. Fu individuato un casolare ove si era rifugiato un dottore detto Barone e questi soccorse zio Luigi e zio Stefano entrambi fasciati con pezzi di stoffa.
C’è da precisare che subito dopo la catastrofe avvenne quanto segue: zia Marietta lasciò il figlio Tommaso morto per soccorrere Roberto gravemente ferito che il giorno dopo anche lui morì; io e Gaetano atterriti cercavamo di calmare Lucia e Francesca: zia Antonietta nel frattempo aveva partorito un bimbo a cui fu imposto il nome di Antonio (24 nov. 43) e fu assistita dalla sorella Francesca che aveva vicino il figlio Giovannino deceduto. Insomma furono giorni di grande dolore, sofferenza, paura e massima incertezza di salvezza.
Mio padre nonostante il “macello di quei momenti” mi raccomandò che in occasione dei bombardamenti dovevo aggrapparmi al palo di sostegno del pagliaio per non venir sbattuta lontano dallo spostamento d’aria. Ed io pensai: «e gli altri cosa avrebbero dovuto fare? Non c’erano pali per tutti».
Mio padre e Mario che erano gli unici validi pensarono di comporre i morti e portarli al cimitero. Furono allestite tre casse con pezzi di legno e portate al cimitero.
Non si sapeva cosa fare. Papà volle lasciare il posto di dolore, così scendemmo verso valle dall’altra parte della montagna e raggiungere la frazione «Radicosa» del Comune di S. Vittore del L[azio]. Lì c’era un gruppo di case con i pastori e le loro famiglie. Così ci eravamo allontanati dal fronte e da Montecassino. Avemmo modo di sapere che Cervaro e dintorni era pieno di militari tedeschi in disordinata fuga, mucchi di munizioni, mezzi meccanici abbandonati, macerie e tante altre cose spiacevoli.
Mentre si procedeva per la Radicosa mio padre udì grida e pianti miste a voci conosciute. Quando ci siamo avvicinati ad una grande casa fatta di tavole in legno abbiamo riconosciuto lo zio Angelo e due figli piccoli che erano morti. Questo zio era il fratello di papà. Tutti questi avvenimenti negativi, avvenuti nel giro di due o tre giorni, mi lasciarono imbambolata perché ero troppo piccola, ma considerata grande.
Siamo arrivati alla Radicosa ed abbiamo trovato un ricovero che aveva in precedenza accolto i soldati tedeschi che pensavano di restare per molto tempo. Le cose, purtroppo per loro, non andarono così.
Nonostante la nuova sistemazione per tutta la notte Francesca aveva pianto a dirotto e non ci aveva fatto dormire. Appena svegli, di prima mattina, mia madre spogliò Francesca e con grande stupore e dispiacere ci accorgemmo che era piena di pidocchi. Papà si diede da fare e informatosi da un signore si diresse a valle presso una cucina militare tedesca dove potevano avere prodotti da disinfestazione.
Comunque i “pidocchi” erano nostri sgraditi ospiti.
Così raccogliemmo le nostre cose e ci trasferimmo più a valle, nei pressi della cucina tedesca. Nei pressi alloggiava anche lo zio Pasquale. Fummo accolti con piacere. Mamma disse: «Non possiamo entrare in casa in queste condizioni». Infatti fu preparata una grande caldaia di acqua bollente e furono lavati tutti gli indumenti. Siamo rimasti lì e il giorno dopo ci siamo riunite cinque bambine ed abbiamo giocato tutta la giornata (girotondo, campana, mosca cieca, nascondino, ecc.).
Nei giorni successivi mi si avvicinò un soldato che mi accarezzava i miei capelli lunghi con le trecce e mi diede un pezzo di cioccolata. Questo si ripeté per alcuni giorni. Un giorno mi diede tante altre cose per tutti (formaggini, gallette, cioccolata e biscotti) e ci disse: «domani io vado a fare bum-bum al monastero e se non torno vuol dire che sono morto, ma se sarò vivo vi verrò a trovare e salutare mamma e papà».
Il soldato di cui non conosco il nome, di animo ottimo, non l’ho più rivisto ed ho pianto molto insieme alle mie sorelline.
Dopo alcuni giorni che eravamo lì (ospiti dello zio Pasquale che era stato in America) vennero dei camion militari (Americani) per portarci via dalla zona del fronte anche se le cose stavano affievolendosi. Ancora c’era pericolo anche per le troppe munizioni sparse sul territorio e per i “campi minati”. Per questi motivi ci portarono via senza sapere dove. Nel corso dello “sfollamento” conoscemmo un uomo che volle aggregarsi a noi dicendo: «Giuseppe io vengo con te e vado dove tu vai». Si aggregò anche una giovane coppia di Cervaro (Elvira e Carmine).
Sullo stesso camion presero posto anche la famiglia di zia Antonietta con il marito Luigi e i figli Gaetano, Giovanni ed il neonato Antonio (nato in montagna il giorno della strage).
Il viaggio in camion non finiva mai. Ci fu una tappa intermedia presso un collegio dove spogliarono tutti (uomini e donne) per lavarli, disinfettarli e insulfarli con polvere di solfo. I bambini furono usati per coprire le nudità femminili e al piccolo Gaetano gli spettò mia sorella Antonietta. Il giorno dopo si proseguì fino a Cassano Jonico dove fummo ammassati in una Chiesa. In giornata furono fatti gli smistamenti in base ai carichi familiari. Mio padre fece presente che erano in sette, zio Luigi in cinque, i fidanzatini e l’uomo solo il quale ripeté a mio padre: «Peppino io vengo solo con te, nel bene e nel male».
Per rimanere uniti ci dovemmo arrangiare. Fummo sistemati tutti in una casa munita di un solo gabinetto e tenevamo più letti (anche tre o quattro) in ogni stanza.
L’uomo solo dormiva in un sottoscala. Eravamo veramente messi male. Zia Antonietta e mamma erano addette alla cucina ed alle altre incombenze. Io a badare a Francesca ed Antonio. Gaetano e Lucia uscivano la mattina e tornavano la sera (ormai conoscevano ogni pietra di Cassano). Il cibo a disposizione era pochissimo e ci dovevamo accontentare della “tessera annonaria”.
Qualche giorno dopo zio Luigi, papà e l’ospite si misero alla ricerca di un lavoro che purtroppo non c’era. Nel girovagare si imbatterono nei pressi di una villa signorile e ben tenuta. Bussarono e furono aperti da una gentile signora. Gli prospettarono la loro condizione di sfollati e i loro carichi familiari. La signora gli disse chiaramente che a Cassano non c’era lavoro e che si poteva provare al paese vicino dove c’era una grande azienda («L’azienda agricola Toscano»).
La decisione fu quella di tentare: partirono zio Luigi, papà, Mario, Antonietta, l’ospite e i due fidanzati. Dopo aver percorso il tragitto a piedi, con la lettera di raccomandazione della signora di Cassano, trovarono lavoro.
Toscano era un gran riccone ed aveva un’azienda enorme. Produceva ogni sorta di “vegetabile”, raccoglievano e ripiantavano.
Gli operai erano tantissimi come i militari in guerra. Il cibo veniva dato tutto a crudo, solo il pane era cotto. Riso e pasta a volontà. Nella grande masseria c’era una casa per dormire e cucinare. La paga non era granché, ma a noi stava benissimo. Mia sorella Antonietta faceva la cuoca, zio Luigi il capoccetto (stesso lavoro di casa Garofalo a Cervaro). Il sabato tutti a Cassano per stare un giorno in famiglia.
All’epoca non si poteva comunicare, quindi quelli che stavano a Cassano erano in pensiero. Il sabato della prima settimana tornarono con diversi sacchi pieni di cicoria (il padrone ne consentiva la raccolta). Mia madre la lavò, ci diede una scelta ed il giorno dopo (domenica) l’andò a vendere al mercato e fece i “soldini” per comprare gli spaghetti. La domenica sera si ripartiva.
Mia mamma e mia zia riscuotevano in paese anche le tessere dei lavoratori. Quindi il cibo non mancava. Mia mamma dava anche qualcosa a chi ne aveva di bisogno. La sera si ringraziava il Signore per la buona soluzione dei problemi e per aver dato il piacere di aiutare chi ne aveva bisogno.
Ora torniamo indietro parlando della bella e brava signora (Petracciante di cognome) conosciuta quando si cercava lavoro.
La signora aveva capito che zio Luigi aveva tre bambini e il piccolo Antonio era nato sulla montagna tra morti e feriti. La zia andò a trovare la signora con Antonio in braccio. Anche la signora aveva un bambino piccolo ma non aveva latte sufficiente e, con tanta tenerezza, chiese se zia potesse dare almeno una poppata al giorno al suo piccolo. Zia disse subito di sì perché di latte ne aveva in abbondanza. La signora fu molto generosa. Quando zia si assentava io dovevo badare ad Antonio il quale piangeva sempre ed io dovevo tenerlo in braccio. Antonio pesava e c’erano altri quattro da badare. Tutti mi consideravano grande, ma io avevo solo sette anni. Quando la mattina mi svegliavano i pianti di Antonio, piangevo anch’io. Mia mamma mi ripeteva: «Dai che la zia deve andare ad allattare il bimbo della signora, non fare la “bambina”, sei “grande”». Io sono stata sempre considerata “grande”, anche da piccola.
Dopo quasi tre mesi che stavamo a Cassano, la coppia di giovani che erano con noi volle sposarsi. Mia mamma e zia prepararono un bel pranzo: fettuccine all’uovo, carne e insalata, torta e confetti che aveva offerto la bella signora. Per sederci tutti insieme furono allestiti due tavoli con sedie ed usate due lenzuola bianche per tovaglia. Il banchetto fu allestito all’aperto. Quello fu il più bel giorno vissuto in Calabria.
Successivamente sono sorti alcuni problemi. Avendo ceduto una camera agli sposi, Mario e Antonietta rimasero senza posto per dormire. Non fu possibile fittare una camera nei pressi perché non disponibile. Eravamo in pieno disastro.
Allora papà disse: «In questo modo non si può andare avanti. Io torno a Cervaro per vedere qual è la situazione». Mia mamma gli disse che non poteva partire in quanto la ferrovia era rotta ed altri mezzi non c’erano. Non era legale viaggiare in quel modo. Papà fu irremovibile. Prese lo zaino che io avevo portato con me dall’inizio dell’avventura, lo riempi e partì. Intanto quell’uomo di cui non ricordo il nome, disse: «Peppino io vengo con te». Mio padre rispose: «Se vuoi venire vieni però nel male e nel bene». L’uomo come al solito: «Sì Peppino, nel male e nel bene». I due partirono.
Tutti restammo più tranquilli perché un viaggio così incerto in due si affronta meglio.
Anche l’uomo portò con sé un bagaglio. In quei tempi non c’era possibilità di usare il telefono e tutto diventava incerto.
Il viaggio durò sette giorni. Viaggiarono di notte e quando passavano i camion militari si nascondevano. Fu un viaggio lungo e faticoso. Al mio papà all’improvviso si ruppero le scarpe e i piedi erano doloranti. Non potendo camminare pensò di strappare le maniche della giacca e fasciarsi i piedi. Povero papà quanto dolore e quanti sacrifici per riportarci a casa nostra. Durante il viaggio, per fortuna una macchina diede loro un passaggio. Questa brava persona li portò fino a «Montelungo» del Comune di Mignano. Non fu possibile oltre perché la Casilina era interrotta.
Quando arrivarono a casa videro che era tutto un disastro: muri demoliti, pietre, calcinacci, munizioni e piante abbattute.
Non riuscivano nemmeno a camminare.
Tutto il sotterrato era stato rubato, si era salvata soltanto la botte di vino.
Papà e l’amico diedero una sistemata alla meglio.
Papà tornò in Calabria per prendere la famiglia.
Prima di partire prese accordi con un amico che aveva un carro trainato dai buoi. Questo amico viveva a Pastenelle. Gli accordi prevedevano che l’amico lo aspettasse a Montelungo con il carro per il giorno approssimativo del loro arrivo. Costui rimase ad aspettare per un paio di giorni. Poverino!
Come Dio volle finalmente arrivammo a casa. Le cose non si presentavano facili e dovemmo stare molto attenti perché c’erano ancora soldati e [s]minatori addetti a bonificare i suoli (raccogliere munizioni, proiettili, bombe a mano e bombe mimetizzate).
A Montecassino stavano raccogliendo tutti i morti semisepolti sul lato sud della montagna. I polacchi, invece, stavano costruendo un cimitero monumentale ed erigendo una grossa stele sulla montagna posta di fronte al monastero. Il cimitero comprendeva anche una grossa croce in pietra (forse 40×40) con cespugli/siepe di rifinitura. Anche i tedeschi costruirono poi a Caira, i francesi a Venafro, gli inglesi alla Folcara di Cassino e gli americani ad Anzio. Tutti cimiteri di architettura eccezionale. Il cimitero italiano a Montelungo di Mignano ove l’otto dicembre si celebra una suggestiva cerimonia, evocativa. La Seconda guerra mondiale per il cassinate è stata molto crudele per i tantissimi morti civili e militari, e le immani distruzioni.
Rincominciare è stato durissimo. Non c’era danaro, non c’erano negozi, non c’erano trasporti e non funzionavano le comunicazioni.
Noi eravamo dei migliori perché il vino si era salvato e lo usavamo per scambio merce.
Intanto rientrava anche zio Luigi e i due sposini seguendo le orme di mio padre.
A proposito della permanenza a Cassano, Gaetano racconta:
«Gaetano e Lucia (anni 5 ciascuno), come già detto, stavano tutto il giorno insieme e girovagavano per il paese. Un sabato sera il papà e zio Luigi raccontarono dell’azienda Toscano e di un grosso aranceto di arance alla vaniglia e sanguinelle, frutta apprezzata da tutta la compagnia. I due piccini ascoltavano e fantasticavano. Ben presto decisero di combinare una grossa bricconata. I lavoratori partirono la domenica sera. I due discoli qualche giorno dopo si alzarono per tempo e senza dire nulla ad alcuno si incamminarono per raggiungere il “campo delle meraviglie” (aranceto) posto a circa otto chilometri da Cassano. Attenzione: parliamo di due piccoli di 5 anni! Dopo aver camminato molto Gaetano e Lucia ottennero un passaggio da una “carretta” condotta da una coppia di contadini che provvidero anche a rifocillarli. Nel primo pomeriggio si giunse in azienda. Fu difficile farsi capire dal guardiano il quale intuita la situazione, li accompagnò sul terreno ove stavano i congiunti. Papà Luigi e papà Peppino increduli chiedevano di far uscire dal nascondiglio le rispettive madri. Il tutto fu chiarito con l’intervento di meraviglia di molte persone e dello stesso Toscano. Fu organizzata una bella festa e prima di sera con il lussuoso calesse del Sig. Toscano i fuggitivi furono riaccompagnati a casa.
Arrivati a casa ci furono abbondanti sculaccioni e tantissimi baci».
Torniamo a Cervaro.
Zia Santuccia consapevole che mancavano i vestiti si diresse presso due anziani che non erano sfollati e barattò una “cannata di vino” (11 litri) con una coperta militare.
La coperta, presa da una certa Antonetta, servì per fare un giubbotto a Mario ed una veste per mia sorella Antonietta. Mia madre di nascosto (il daziario era vigile per riscuotere l’imposta) portò ancora del vino ad un negoziante in cambio di farina, sale, riso, pasta e zucchero. Altro vino veniva venduto al mercato. Quindi il vino sotterrato ci fu di grande aiuto. Così cominciammo a sistemarci. Ricordo che al posto delle sedie utilizzavamo le cassette militari.
Così volge al termine l’anno 1944.
* La “bambina” Elena privata della spensieratezza dell’adolescenza e subito divenuta “grande” a causa della guerra, dopo le vicissitudini patite con la sua famiglia è emigrata oltreoceano dove si è affermata, continuando però a mantenere uno stretto legame affettivo con i suoi luoghi di origine. La versione riprodotta qui, scritta a Cervaro il 30 agosto 2021, è stata riveduta dal cugino Gaetano, redatta con macchina da scrivere Olivetti 22 in lodevole servizio dal 1954.
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