«Studi Cassinati», anno 2024, n. 4
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di
Gaetano de Angelis-Curtis
[Seconda parte]*
I RAPPORTI CON GIUSEPPE VISOCCHI
L’unico componente della famiglia Visocchi con cui Fortunato sembra mantenere un normale rapporto familiare, fu il cugino Giuseppe21, colui che aveva provveduto a trasferire le spoglie di Giacinto nella cappella di famiglia. Lo testimonia la corrispondenza scambiata tra i due nel corso di qualche decennio in cui si ritrovano anche le questioni inerenti la tomba di famiglia ma, in particolare, i tentativi operati da Giuseppe di coinvolgere Fortunato nel rendersi disponibile a offrire concreti atti di solidarietà alla popolazione atinate22.
OPERE DI BENEFICENZA
Giuseppe, in qualità di sindaco aveva preso parte alla cerimonia di inaugurazione23 dell’«Asilo Infantile Beatrice», svoltasi il 30 settembre 1899. La struttura scolastica era stata fatto realizzare dallo zio Alfonso Visocchi il quale, dopo aver perso otto figli, volle che venisse intitolata all’ultima sua figlia morta ventitreenne di parto24. Nel suo intervento Giuseppe aveva ringraziato lo zio a nome dei cittadini di Atina per aver voluto dotare la città di un’«opera utile e commendevole» nella quale «provvedere all’assistenza ed ai bisogni dell’infanzia, a qualunque classe di cittadini» appartenesse. Spinto, evidentemente, da quell’esempio di filantropia e intendendo emulare lo zio e continuare quell’esempio di generosità dimostrata da alcuni componenti della famiglia Visocchi, anche Giuseppe iniziò a immaginare di dotare Atina di una struttura capace di favorire il progresso e lo sviluppo della società locale, nella speranza che i concittadini gliene sarebbero stati grati. Dalla constatazione che ad Atina l’istruzione elementare veniva impartiva «in locali angusti ed antigienici» e che il Comune non disponeva di sufficienti mezzi economici necessari per realizzare una nuova e specifica struttura, nel corso del tempo andò maturando l’«idea» di far costruire un edificio da adibire a sede delle Scuole elementari.
Vennero così avviati i lavori di costruzione del nuovo edificio che nel corso del 1927 erano a buon punto. Infatti quando il 9 luglio di quell’anno Giuseppe, tornando da Napoli, rispose alla lettera di Fortunato del 28 giugno precedente, oltre a informarlo di essere stato nominato podestà del Comune, gli comunicava di essere intento in un’occupazione «assai grave» cioè quella della costruzione, a sue spese, pur costando «parecchio», di un immobile da adibire a Edificio scolastico che aveva intenzione di donare al Comune.
Giuseppe colse l’occasione per cercare di convincere Fortunato, che si trovava nelle sue stesse condizioni di agiatezza economica e al pari suo era senza figli, a investire parte del suo patrimonio nella realizzazione di «opere di bene» a favore del paese natio anche perché tali iniziative erano capaci, scriveva, di far ricordare «per varie generazioni» le persone che le compivano e di dare «conforto e soddisfazione» soprattutto a chi era senza prole. Pur chiarendo comunque di non voler condizionare il cugino o fare «pressioni» sul suo animo, intese esortarlo a realizzare opere filantropiche a favore di Atina. A tal proposito gli suggeriva di provvedere ad aiutare e soccorrere, ad esempio, gli anziani. Poiché essi, negli ultimi anni della loro vita, finivano per rimanere «abbandonati» e privi di assistenza, proponeva la costruzione di un «ricovero per vecchi ed infermi». Un primo esempio era stato offerto da un certo Filippo Di Paolo, residente a Roma ma atinate d’origine, morto nel dicembre 1926, che aveva lasciato al Comune una «sua modesta proprietà», costituita da una «piccola casa», affinché fosse «adibita alla cura di infermi». Nella sua qualità di sindaco Giuseppe aveva provveduto a salvaguardare tale proprietà in modo da ottenere una «rendita annuale da destinarsi ad opere di beneficenza», tuttavia, specificava, si trattava di «piccola cosa». A suo giudizio, invece, Atina aveva bisogno di un «locale ben esposto» dotato di una «certa rendita pel mantenimento e funzionamento». Per tale motivo sollecitò più volte il cugino a farsene carico e intervenire. Forse a conoscenza dei diversi propositi di Fortunato, si mostrò decisamente contrario a che beni immobiliari potessero essere lasciati in eredità alle Amministrazioni comunali di grandi città sia perché lì i benefattori erano poco conosciuti, se non del tutto sconosciuti, sia perché non si poteva essere sicuri che i lasciti avrebbero avuto poi effettivamente la «destinazione voluta dal donatore». Sosteneva invece che le iniziative di beneficenza erano «meglio apprezzate e curate» nei piccoli centri per cui se Fortunato avesse fatto opere di bene ad Atina, la cittadina gli avrebbe conservato «gratitudine perpetua». Inoltre Fortunato avrebbe avuto la possibilità di continuare la tradizione filantropica e umanitaria della famiglia Visocchi e il suo nome sarebbe figurato tra i benefattori che, seppur lontani, nutrivano «pel paese natio tutta l’affezione».
Intanto ad Atina i lavori di costruzione dell’edificio scolastico giunsero a termine e il 18 marzo 1928 si svolse la cerimonia di inaugurazione della struttura, seppur inizialmente prevista per il primo ottobre 192725. Giuseppe inviò a Fortunato un «foglio unico illustrato stampato» per l’occasione. Si trattava del «Numero unico per l’inaugurazione del nuovo edificio scolastico, dovuto alla munificenza di Giuseppe Visocchi, podestà di Atina, 18 marzo 1928», pp. 62 e tav. ill., stampato dalla tip. Grafia di Roma, con testi a cura di Luigi Marrazza, fotografie di Michele Tortolani e Guglielmo Visocchi. Inoltre accluse una copia di un giornale nel quale era stata descritta la cerimonia e nella lettera di accompagnamento esprimeva la sua «grande soddisfazione» e il «grande piacere nel vedere tutti i fanciulli di Atina riuniti nel bel locale pieno di luce di aria e di sole dove po[tevano] respirare aria saluberrima». Anche la popolazione di Atina si era dimostrata «ben contenta» e «molto riconoscente» della donazione.
DISPOSIZIONI EREDITARIE REVOCATE E NUOVE PROPOSTE
Tuttavia all’epoca delle sollecitazioni del cugino, Fortunato aveva già provveduto a stilare testamento, anzi più di uno. Un primo lo aveva steso quando era a Fiume, parrebbe a favore della Croce Rossa Italiana. Il 6 marzo 1924 lo depositò, olografo e in busta chiusa, presso il notaio Federico Geletich che, interpellato dal Comune di Firenze nella primavera del 1933, confermò la consegna asserendo però di non essere in grado di fornire altre informazioni in quanto il testamento non era stato pubblicato, anzi si poneva il problema se pubblicarlo o meno. Altro testamento fu stilato da Fortunato il 15 novembre 1924 a favore del Touring Club Italiano. Pure il Tci nel 1933 non riuscì a fornire precise informazioni se non che era stato lasciato in deposito presso l’Associazione ma era stato «ritornato», cioè restituito, a Fortunato il 3 agosto 1927 su sua esplicita richiesta del 21 luglio precedente.
Fortunato, dunque, nel corso degli anni Venti aveva provveduto a stendere due diversi testamenti poi annullati. Probabilmente per effetto delle sollecitazioni pervenutegli dal cugino Giuseppe, cominciò a considerare anche altre ipotesi che coinvolgevano Atina. Infatti in alcune lettere sembra mostrarsi convinto di lasciare parte della sua eredità per «fondare un ricovero per vecchi» in quella sua città d’origine che a inizio Novecento aveva avuto modo di descrivere romanticamente come un «piccolo paese» adagiato «sul declivio di un colle ed a cavaliere di piccola valle coronata dalle vette dell’Appennino e de’ suoi contrafforti», dimora «amena e ridente» «laddove qua e là poche vestigia dell’antica grandezza sorgono a testimonianza di molte altre che nella terra giacciono sepolte, e che, di quando in quando, il ferro idiota di qualche lavoratore ritrova, distrugge ed annienta»26.
I timori Fortunato, che gli impedivano di prendere una decisione definitiva, scaturivano dalla difficoltà di «prevedere l’ammontare della spesa occorrente», ma soprattutto dalla preoccupazione di individuare la persona di fiducia che avrebbe dovuto gestire la questione seguendo le incombenze burocratiche e costruttive. Giuseppe aveva sommariamente quantificato la spesa complessiva necessaria alla realizzazione di tale «opera assai filantropica» in L. 500.000 di cui L. 250.000 necessarie per l’acquisto del terreno e per la costruzione del fabbricato e in L. 12-15.000 per la rendita annua necessaria per la gestione del «ricovero». Data la sua «avanzata età» si autoescludeva, però, dal gravoso compito di seguire le fasi realizzative. Proponeva, allora, di affidare la somma alla Congrega di carità di Atina sia perché tutta la cittadinanza avrebbe avuto interesse a reclamarne il completamento della struttura sia perché l’Ente sottostava al controllo di autorità tutorie nazionali che avrebbero vigilato e impedito una destinazione e un utilizzo diversi dei fondi. Giuseppe volle anche puntualizzare che nell’ipotesi in cui fosse stata la Congrega a interessarsi della costruzione si sarebbe evitato anche il rischio della possibile ingerenza da parte di «parenti sopravviventi» in caso di decesso del «testatore».
Quindi il 16 aprile 1930 Giuseppe Visocchi si spense e «tutti» ad Atina, «con lacrime roventi», rimpiansero la perdita.
In una lettera scritta il 17 aprile, Michele Tortolani27, insegnante di Atina in pensione che per un quindicennio aveva affiancato il compianto e benemerito «Don Peppino» nella gestione delle opere di beneficenza, informava Fortunato che il cugino lo aveva sempre menzionato «nelle sue conversazioni» e fino agli ultimi istanti di vita aveva cercato di convincerlo a «legare il suo nome e quello del suo illustre genitore» nella realizzazione di un’opera di cui si sentiva un «vivo bisogno» in paese. In sostanza scriveva che Giuseppe gli aveva affidato l’incarico di ricordare a Fortunato il «povero borgo natio». Tuttavia a differenza di Giuseppe, invece di realizzare un «ricovero» per anziani, gli palesò l’opportunità di sovvenzionare una scuola già funzionante ad Atina o, ancor meglio, di provvedere a istituire una «scuola di avviamento al lavoro» di cui la città risultava priva. Il primo maggio successivo Tortolani inviò a Fortunato una nuova lettera per informarlo dell’apertura del testamento di Giuseppe il quale aveva lasciato i suoi beni per la maggior parte ai familiari28 ma anche, sotto forma di rendite, in beneficenza: L. 12.000 annue all’«Asilo Infantile Beatrice» la «cui amministrazione andava malissimo tanto che i poveri bambini dovevano pagare una piccola retta mensile»; L. 3.000 annue per la cucina dei poveri e L. 5.000, «una volta tanto, da distribuirsi ai poveri». Tuttavia, continuava Tortolani nella sua lettera, Giuseppe aveva dimenticato di lasciare «qualche cosa» alla Scuola femminile di agricoltura ed economia domestica che era stata istituita ad Atina nel 1922. La scuola, che godeva di una rendita annua di L. 20.000 da parte del governo nazionale, di L. 3.000 da parte della provincia e di L. 2.000 da parte del Comune, era ubicata nello scantinato del «nuovo edificio scolastico» (quello fatto realizzare da Giuseppe) e disponeva di un piccolo terreno annesso di proprietà della famiglia Mancini alla quale veniva corrisposto un fitto. Giuseppe era stato il presidente del Consiglio di Amministrazione, per essere sostituito alla sua morte dal dott. Marrazza, segretario politico, mentre Tortolani fungeva da segretario. Quest’ultimo aveva provveduto a far installare nella Scuola varie attrezzature (una «modernissima cucina con apparecchi elettrici, a benzina, a legna, ecc.», un «piccolo laboratorio di sartoria»), ma anche una «bella sala da pranzo», una «minuscola biblioteca», un gabinetto scientifico e perfino una «sala di proiezioni». Tuttavia, per un più ottimale funzionamento, la scuola avrebbe avuto bisogno della sistemazione del terreno annesso (impiantando un frutteto, collocando vasche, pollai, conigliere, stalla, apiario ecc.), di migliorare le proprie attrezzature e di esserne dotata di nuove («apparecchi per l’insegnamento dell’economia, per quello dell’igiene, per l’allevamento del bambino»), di prevedere un servizio di proiezioni di cineteca nonché di provvedere all’installazione di un convitto. Purtroppo l’Istituto rischiava la chiusura per penuria di fondi. Tortolani chiedeva dunque a Fortunato di farsi carico di parte dei bisogni economici della Scuola offrendo una rendita annua. In alternativa suggeriva a Fortunato di occuparsi di un’«impresa grandiosa», come egli stesso la definì, istituendo ad Atina una Scuola di avviamento al lavoro. Gli prospettò, in sostanza, la costruzione di un immobile formato complessivamente da «12 o 15 ambienti», nel cui pianterreno avrebbero dovuto essere collocate le varie officine per «meccanici, tipografi, elettricisti, ebanisti, decoratori» e quello superiore avrebbe dovuto essere adibito a «scuola, biblioteca, gabinetto di scienze». L’importo necessario per la realizzazione dell’edificio veniva quantificato da Tortolani in L. 500.000, cui andava aggiunta la somma di L. 600.000 per l’impianto delle officine. Quindi occorreva una rendita annua di L. 60.000 per gli stipendi del personale scolastico («direttore, insegnante gruppo scienze, insegnante gruppo lettere; capi-officina»), e un’altra pari a L. 10-15.000 annue per il materiale di consumo. Precisava che la realizzazione di tale importante opera avrebbe consentito di far ricadere la «sua grande ricchezza sui poveri artigiani» del paese d’origine procurando a Fortunato la «gioia di vivere, cancellando i dolori e le persecuzioni di cui [era] stato vittima nel passato».
Il 18 aprile 1930, nel giorno dei «solenni» funerali di Giuseppe che erano stati l’«apoteosi del popolo grato al suo benefattore», anche Pietro Vassalli29 indirizzò una lettera a Fortunato nella quale, oltre a ripromettersi di inviargli a parte una copia de «Il Giornale d’Italia» contenente una breve biografia del cugino e a comunicargli che ad Atina si era sul punto di costituire un Comitato allo scopo di «bene onorare il grande discepolo del Puoti e suo genitore», cioè Giacinto, ardiva a ricordare i poveri della Congrega di Carità, associazione umanitaria di cui era presidente da vari anni e che «quantunque bene amministrata [aveva] poche rendite».
L’ULTIMO TESTAMENTO
Tuttavia quando gli giunsero le lettere da Atina, Fortunato aveva deciso da tempo di agire diversamente. Infatti in data 9 maggio 1928, con atto depositato presso il notaio Augusto Rovai, revocando ogni altro testamento precedente, aveva provveduto a nominare erede universale del suo patrimonio, «quasi interamente mobiliare», il Comune di Firenze. Specificava che con la metà dell’eredità si doveva giungere all’istituzione nel capoluogo toscano, possibilmente in un «sito elevato», di un’«opera simile a quella fondata in Milano dal Touring Club Italiano sotto la denominazione di Villaggio Alpino» dove provvedere a «curare ed irrobustire i fanciulli di ambo i sessi gracili e predisposti alla tubercolosi», mentre l’altra metà andava investita in modo da produrre delle rendite sufficienti a pagare le spese annuali di gestione della nuova istituzione di cura. Fortunato nel testamento intese espressamente specificare che in base alla sentenza di divorzio non esisteva più alcun legame con Teresa Panfilia e di conseguenza non era possibile avanzare «pretese patrimoniali» da parte della ex moglie. Chiariva che non avrebbe voluto far «menzione» della sua situazione coniugale «se la petulante femmina non intrigasse continuamente assumendo fra gli estranei la perduta qualifica di moglie». Si mostrava assolutamente risoluto sulla questione tanto da imporre al Comune di Firenze che «nessuna elargizione» sarebbe dovuta esser «fatta alla donna da cui [era] divorziato … a pena di decadenza» e tutta l’eredità avrebbe dovuta essere devoluta alla Croce Rossa Italiana.
ULTERIORI AZIONI GIUDIZIARIE
Il 18 maggio 1932, i fratelli Orazio e Achille Visocchi, nella loro qualità di parenti più prossimi di quarto grado (considerando il divorzio con Teresa Panfilia), citarono in giudizio il Comune di Firenze, nonché la Croce Rossa Italiana, chiedendo al Tribunale di Firenze di dichiarare la nullità del testamento di Fortunato per «incapacità giuridica del testatore» e «vizio di mente». Il podestà di Firenze (conte Giuseppe della Gherardesca) il 7 giugno 1932 deliberò di accettare con beneficio di inventario la successione di Fortunato Visocchi e il 13 settembre 1932 di resistere in giudizio per «ottenere il completo rigetto delle istanze». Anche Teresa Panfilia promosse causa civile il 26 gennaio 1933 nei confronti del Comune di Firenze, di Achille e Orazio Visocchi. Chiese la «nullità di sentenza di divorzio» per vizi insanabili di forma e di sostanza30 e reclamò il «riconoscimento di diritti sull’eredità» di Fortunato come coniuge superstite cui spettava la «quota di riserva» (pari a metà della eredità, mentre l’altra metà andava al Comune di Firenze nel caso la successione fosse stata ritenuta aperta in base a testamento) o la «quota ereditaria» (per successione legittima nel caso il testamento fosse stato riconosciuto nullo), così come la cancellazione delle «parole ingiuriose» contenute nel testamento31.
Gli avvocati difensori del Comune di Firenze nelle loro note misero in evidenza che quando Fortunato aveva lasciato Atina, differentemente dai suoi cugini, non era ricco, ma «colla sua attività, intelligenza e parsimonia riuscì a costituirsi un cospicuo patrimonio». Nonostante l’«infelicità coniugale» e la «credenza di essere osteggiato dal cugino Achille e da altri, accudì intellettualmente ai propri affari e a quelli della sorella Rachele» di cui era tutore. Così amministrò proficuamente e «con oculatezza» i propri beni, vendendo «in più volte e a buone condizione gl’immobili che possedeva ad Atina ed a Ceccano, acquistando e rivendendo altri immobili a Roma, Fiume, Firenze etc.», negoziando valori pubblici e industriali, concedendo prestiti con molta accortezza e profitto, promuovendo anche azioni giudiziarie per tutelare il suo patrimonio tanto la lasciare alla sua morte un’eredità valutata in circa tre milioni e mezzo di lire32. Condusse «vita ritirata» e sebbene avesse un «carattere sospettoso e nutrisse una spiccata avversione per il cugino Achille» fu tuttavia «aperto ai sentimenti di famiglia e di amicizia», così come era pervaso da «umanità e pietà per gli infelici» come stavano a dimostrare le elargizioni e le donazioni fatte a organizzazioni assistenziali o a enti come la Croce Rossa Italiana, di cui era socio perpetuo, o il Touring Club Italiano, di cui era parimenti socio.
Il Tribunale Civile e Penale di Firenze, sulla base della documentazione prodotta (cinque certificati medici redatti dopo la morte di Fortunato, le carte relative a una vicenda con un ufficiale medico originario di Cervaro, la querela fatta nei confronti di Achille Visocchi e l’esposto prodotto l’anno successivo) ritenne che «non si [poteva] dubitare che il Fortunato Visocchi negli indicati anni (1925-1929), nei quali resta[va] compresa la data del testamento, fosse affetto da paranoia con specifiche rivelazione di mania persecutoria». Anche per i giudici del Tribunale l’atinate «ogni volta che cadeva malato per disturbi gastrici, per catarri e bronchiti cui andava sovente soggetto, egli subito correva ad attribuire i fenomeni all’effetto del veleno», una «fobia» che «sboccò anche in due denunzie». Tuttavia alla domanda se quella infermità lo avesse portato a uno «stato di giuridica incapacità» concludevano che Fortunato Visocchi non aveva mai perduto in concreto la facoltà di intendere e di volere per cui «non era un soggetto in condizioni tali da dover essere interdetto». Al di là, quindi, dell’«esagerato timore di essere perseguitato dal cugino Achille (non dagli altri parenti) e specialmente di essere avvelenato, il testatore era in tutto un uomo normale».
Il Tribunale di Firenze con sentenza del 30 giugno 1933 (pubblicata il 10 luglio e registrata il 18 luglio) pur riconoscendo che Fortunato fosse «affetto da paranoia con specifiche rivelazioni di mania persecutoria» escluse che da ciò potesse essere derivata una «generica incapacità di testare» tale da rendere «nullo il suo testamento» per cui rigettò le «domande proposte da Visocchi senatore Achille e Orazio», così come, con sentenza del 14-23 febbraio 1934, furono respinte le istanze di Teresa Panfilia.
Poi il 14 settembre 1933 i fratelli Achille e Orazio proposero appello basato sulla mancata ammissione della prove testimoniali e delle perizie da parte del Tribunale, mentre, a sua volta, Teresa Panfilia ne presentò uno il 2 maggio 1934.
Quindi la Corte di Appello di Firenze, con sua pronunzia interlocutoria del 16-30 giugno 1934, giunse a riformare parzialmente la sentenza del Tribunale Civile ammettendo sia la prova testimoniale che la perizia medica sulle condizioni mentali di Fortunato e nominando, a tal fine, un collegio di periti formato da tre specialisti incaricati di redigere una relazione da presentare nell’arco di due mesi.
LA «FONDAZIONE FORTUNATO VISOCCHI»
Nel frattempo il Comune di Firenze aveva provveduto a costituire la «Fondazione Fortunato Visocchi», riconosciuta come ente morale con R.D. 28 giugno 1934.
Alla luce della sentenza di riforma parziale pronunciata dalla Corte di Appello, una delle prime preoccupazioni della neonata Fondazione fu quella di giungere a «troncare la lite» con i Visocchi in modo che l’istituzione potesse iniziare a operare concretamente. Si giunse così a intavolare con i ricorrenti delle «laboriose trattative per addivenire a una transazione». Trattative che dettero buon esito. Infatti il 13 giugno 1935 la Fondazione elaborò una proposta che fu accettata poco dopo da tutti i Visocchi. Conseguentemente il Consiglio di Amministrazione33 della «Fondazione Fortunato Visocchi», in data 20 settembre 1935, autorizzò il presidente, marchese Niccolò Antinori, a stipulare l’atto di transazione con Achille e gli eredi di Orazio34, nel frattempo deceduto, che fu stipulato presso il notaio Alberto Persico di Firenze il 2 dicembre 1935 alla presenza del podestà del capoluogo toscano (Paolo Venerosi Pesciolini) e del rappresentante della Cri (col. Luigi Marzucchelli). Con tale transazione i Visocchi garantivano la rinuncia a qualsiasi impugnativa sul testamento redatto da Fortunato accettandone la «piena validità» e riconoscendo all’«Ente la completa ed assoluta qualità di erede», così come Teresa Panfilia si dichiarava «pronta a rinunciare all’appello»35. Dal canto suo la Fondazione, considerando che il suo patrimonio composto di «titoli di Stato ed industriali aumentatosi nelle more delle cause per interessi, dividendi ed altri proventi», era pari a «circa L. 4.700.000 e quindi nonostante la transazione proposta [sarebbe rimasto] disponibile un fondo press’a poco simile a quello originariamente lasciato dal fondatore», si impegnava a corrispondere complessivamente la somma netta di L. 1.300.000 in contanti, di cui la metà versata ad Achille Visocchi e l’altra metà agli eredi di Orazio36.
Presumibilmente negli anni successivi iniziò l’attività della Fondazione a favore di bambini, interrotta poi dagli eventi bellici. Nel secondo dopoguerra la Fondazione riprese a svolgere le sue funzioni d’intesa con il Comune di Firenze. Ad esempio il 21 maggio 1953 fu stipulata una convenzione di «casa-scuola» in base alla quale la Fondazione si impegnava a fornire «assistenza» e «ricovero» a sessanta bambini scelti dallo stesso Comune di Firenze «fra i poveri e i predisposti alla tubercolosi, di età fra i sei e i dodici anni» riconosciuti «bisognevoli di cure da una Commissione sanitaria» ma non soggetti a «forme tubercolari in atto, da malattie infettive contagiose». La Fondazione provvedeva alla loro istruzione elementare (inclusa la fornitura di libri scolastici, quaderni, cancelleria), all’educazione morale e religiosa, garantiva la somministrazione del vitto e la distribuzione di biancheria, scarpe e altri indumenti. I bambini venivano alloggiati presso una struttura di proprietà della Fondazione ubicata in località Ristonchi appartenente al Comune di Pelago (oggi facente parte della città metropolitana di Firenze) per un periodo di tempo compreso tra il primo gennaio e il 15 giugno 1953 e tra il 16 novembre e il 31 dicembre 1953. Dal canto suo il Comune, oltre a dotare il doposcuola di una unità di personale, si impegnava a pagare una retta giornaliera di L. 650 per ogni bambino più la somma di L. 350 pro capite, pari a L. 450.000 per ciascuno di essi (per scarpe, pantofole, grembiuli, quaderni, libri, cancelleria), per un importo complessivo di L. 8.718.000. La convenzione fu reiterata almeno per i due anni successivi (1954 e 1955).
L’«ASP FIRENZE MONTEDOMINI»
Oggigiorno la «Fondazione Fortunato Visocchi» non è più direttamente operante. Infatti il suo patrimonio e i suoi compiti, assieme a quelli della «Fondazione Fiorentina Principe Leone Strozzi», sono stati rilevati nel 1993 dall’Ipab (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) «Istituto San Silvestro» creato nel 1868, a sua volta incorporato poi nell’Ipab «Centro di servizi per anziani Montedomini» trasformato, con altre associazioni, nell’«Azienda pubblica di servizi alla persona Montedomini-Sant’Ambrogio-Fuligno-Bigallo», brevemente «Asp Firenze Montedomini» che opera in campo socio-assistenziale di servizi rivolti alla cittadinanza fiorentina.
[Fine]
* La prima parte è in «Studi Cassinati», a. XXIV, n. 3 luglio-settembre 2024, pp. 183-195. [Errata corrige: la presentazione del volume Giacinto Visocchi e aspetti di vita politica ad Atina tra il 1848 e il 1860 è stata tenuta il 7 luglio 2018 ad Atina dalla prof.ssa Silvana Casmirri e dalla prof.ssa Paola Visocchi e non Giuliana come erroneamente riportato nella Prima parte].
21 Giuseppe Visocchi nota n. 11 della Prima parte.
22 La corrispondenza entrò anche nei procedimenti giudiziari in quanto gli avvocati difensori del Comune di Firenze facevano rilevare che Giuseppe scrivendo al cugino, informandolo sulla vita di Atina ed esternandogli i propositi di beneficenza, lo riteneva «ben compus sui».
23 Intervennero alla manifestazione l’abate di Montecassino, d. Bonifacio Krüg, il sottoprefetto di Sora, cav. Masi, l’on. Federico Grossi, deputato di Arce, il cav. Pasquale Grosso, ex sindaco di Cassino e presidente della Congrega di carità. Tennero discorsi anche gli atinati prof. Antonio de Antiquis, avv. Andrea Albero, Luigi Marrazza e Giuseppe Caira, vice presidente della locale Società Operaia.
24 Alfonso e la moglie Angelina Vecchiarelli, con il concorso del genero Vincenzo Alesi e l’approvazione dei fratelli Pasquale e Francescantonio Visocchi, avevano voluto dotare l’asilo di una sede «stabile e perpetua» per favorire il «miglioramento morale e materiale» della popolazione locale (Ricordo della solenne inaugurazione dell’Asilo Infantile Beatrice, Stab. Lito-tip. Salvatore Marino, Caserta 1899).
25 Per una più approfondita disamina relativamente all’istituzione dell’«Edificio Scolastico Giuseppe Visocchi» (con pubblicazione di delibere comunali, documentazione emessa da istituzioni nazionali, riproduzione di progetti costruttivi originali, ampia rassegna di giornali e periodici del tempo, fotografie di scolaresche e docenti) cfr. L. Caira, V. Orlandi, Atina. Cronache del XX secolo 1900-1950, Comune di Atina, Cassino 1995, pp. 51-88.
26 F. Visocchi, Cenni sulla vita … cit., p. 1.
27 Michele Tortolani (1875-1956), «giornalista, conferenziere», direttore didattico, ispettore scolastico, coadiutore e assistente di corsi all’Università di Roma, autore di numerosi libri scolastici (di cultura generale, grammatica e lingua italiana, letture, disegno spontaneo, scienze fisiche e naturali, geografia), collaborò con Giuseppe Visocchi il quale gli trasmise l’amore per l’agricoltura confluito nella «sua più importante pubblicazione che ebbe larga risonanza ed il maggior successo» intitolata I primi Elementi di Agricoltura con 400 illustrazioni per le scuole rurali (L. Caira, V. Orlandi, Atina. Cronache del XX secolo … cit., pp. 85-86).
28 Giuseppe lasciò alla moglie CelestinaDe Clemente l’usufrutto e altri beni, ma destinò le proprietà Visocchi più importanti (la Cartiera con i terreni intorno, la ferriera, Castellone con le Officine idroelettriche, Chiusanuova e la casa Fasoli) al cugino Orazio. Conoscendo evidentemente i dissapori familiari, Tortolani puntualizzava che Giuseppe non aveva lasciato nulla all’altro cugino Achille, precisando pure che il senatore, il quale in quei momenti si trovava in viaggio in Palestina, «non aveva mai fatto visita» al cugino Giuseppe mentre era in vita.
29 Pietro Vassalli (1874-1960) «ebbe particolare predilezione per il campo storico» pubblicando varie opere sulla storia di Atina, su alcuni importati personaggi del territorio, sul «periodo di amarezza, di privazioni e di sofferenze infinite cui andarono soggette le popolazioni delle Valli del Melfa e di Comino» nel corso degli eventi bellici della Seconda guerra mondiale. Fu anche amministratore comunale (consigliere e assessore) e di enti benefici (T. Vizzaccaro, Atina e Val di Comino, Lamberti editore, Cassino 1982, pp. 253-254).
30 Secondo i legali di Teresa Panfilia la sentenza fiumana non era «mai passata in giudicato» ma era «radicalmente nulla» in quanto la pronuncia era avvenuta «in assenza della istante» ed ella non aveva, «neppure momentaneamente, residenza a Fiume» né aveva mai perso la cittadinanza italiana. I legali del Comune di Firenze reclamavano invece il R.D.L. 20 marzo 1924 n. 352, art. 4 e il R.D.L. 15 agosto 1924 n. 1286 sulla esecutività delle sentenze pronunciate a Fiume.
31 Per i legali del Comune di Firenze più che ingiuria si sarebbe trattato di diffamazione ma comunque inesistente in quanto il testamento non poteva essere giudicato alla stregua di uno scritto capace di offendere la reputazione e neanche la parola «petulante» poteva risultare offensiva.
32 Secondo l’inventario redatto il 16 marzo 1932 dal cancelliere della Pretura di Firenze risultava che l’«asse ereditario netto, consistente per la massima parte in titoli di rendita, azioni industriali, ecc. [depositati in cassette di custodia presso la sedi locali del Credito Italiano e del Monte dei Paschi di Siena] ascende[va] a L. 3.208.042,85, oltre il valore di due quartieri posti a Firenze rispettivamente in Piazza Oberdan, n. 13 p.p. ed in Via de’ Macci, n. 66, piano 2° [valutati circa L. 60.000], e ciò che [avrebbe potuto] essere realizzato di un credito di L. 945.000,00 verso il fallimento del Comm. Odoardo Tabanelli». Poiché alcuni giornali occupatisi della vicenda, avevano scritto che il patrimonio si aggirava sugli 8-10 milioni il Comune di Firenze si pose alla ricerca di altri beni di proprietà di Fortunato. Affinché l’«opera altamente benefica voluta dal munifico testatore» potesse avere «piena esecuzione» vennero chieste informazioni anche al notaio Vincenzo Tutinelli di Atina. Quest’ultimo, nel chiedere che la posta indirizzatagli dal Comune di Firenze viaggiasse in «busta senza alcuna indicazione di provenienza» perché, scriveva, si sarebbero potuti «creare dei sospetti infondati», si rese disponibile a concordare un appuntamento con il legale del Comune di Firenze a Roma presso l’albergo Massimo d’Azeglio dove nel marzo 1932 probabilmente si svolse l’incontro.
33 Nominato il 4 dicembre 1934 e l’8 febbraio 1935 dal Comune di Firenze risultava composto da Niccolò Antinori, in funzione di presidente, e dai consiglieri prof. Saverio Aloisi Lussi, prof. Giannantonio Dotti, avv. Vincenzo Malenchimi, prof. Angelo Caroti, ing. Mario Piazzesi, conte Mario Rosselli Del Turco.
34 Orazio Visocchi era nel frattempo morto a Napoli il 3 febbraio 1935.
35 Con accordo separato i Visocchi riconoscevano a Teresa Panfilia il pagamento di una somma in contanti e la corresponsione di un compenso mensile «vita sua natural durante».
36 La transazione fu stipulata da Guglielmo Visocchi, figlio di Orazio, intervenuto anche su mandato delle sorelle Beatrice (coniugata Bartolomucci), Virginia (coniugata Tronconi), Bianca e Lisa, della cognata Maddalena Rossi vedova di Alfredo Visocchi (il primogenito, ingegnere, ufficiale del Genio morto il 4 novembre 1918) la cui unica figlia Maria Laura, nata a Pavia, aveva diritto a una quota pari a 1/12.
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