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Studi Cassinati, anno 2010, n. 4
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di Filippo Carcione
Premessa
Confesso di aver esitato prima di replicare alle “osservazioni critiche” di Angelo Nicosia al libro1, che ho curato per il primo numero della Collana “Percorsi di storia ecclesiastica in Provincia di Frosinone”, con il contributo del mio Dipartimento di afferenza (Scienze Umane e Sociali) presso l’Università di Cassino2 . Ho esitato perché, come ammette lo stesso Nicosia, egli ha letto il libro «in maniera non necessariamente approfondita» [NA, p. 131] e, quindi, non ha potuto assimilare il senso genuino delle argomentazioni esposte: tant’è che la sua critica, nettamente prevenuta in quanto frutto di riconosciuta lettura superficiale, sembra riferirsi ad un’opera completamente diversa, al punto da farmi propendere inizialmente per l’inutilità di un intervento. Tuttavia, il rispetto, che nutro per i lettori di “Studi Cassinati”, e la gratitudine, che suo malgrado debbo al Nicosia per aver di fatto provocato con la curiosità del pubblico una circolazione più ampia del prodotto inquisito, mi hanno indotto a rivisitare l’indugio e fare così chiarezza sui contenuti.
Le “osservazioni”, si accaniscono sui saggi del curatore, della topografa Sabrina Pietrobono e dell’arciprete Luigi Casatelli. Questi ultimi sono due validi interlocutori, che potrebbero scorgere un torto alla loro preparazione, se volessi interpormi come avvocato difensore: volendo, troveranno ciascuno tempo e modo di difendersi; altresì, li comprenderò, qualora scegliessero di non accordare con le loro risposte altra visibilità al Nicosia, nei cui toni il diritto di critica fa da alibi alla voglia di rissa. Ciò premesso, vengo alle “osservazioni”, che mi riguardano più da vicino e che mi danno modo di precisare: 1) la genesi del saggio; 2) i binari investigativi; 3) il primo documento sul titolo di S. Giovanni Appare.
La genesi del saggio
Secondo l’immaginaria ricostruzione del Nicosia, il mio saggio avrebbe preso le mosse da una maldestra intenzione, per quanto «sapientemente organizzata» [NA, p. 131], di potenziare la campagna aggressiva di mons. Luigi Casatelli contro la creatività popolare tradotta dalla giullaresca figura di Camele, per autentificare specularmente l’inventata Apparizione del Battista ad un contadino tentato dal diavolo (Giovanni Mele), così come ci viene trasmesso da un documento agiografico sponsorizzato dai Bollandisti tra XVII-XVIII secolo e avallante l’avvenimento straordinario a Pontecorvo, sulla sponda orientale del Liri, in contrada Melfi, all’anno 1137, quando per la testimonianza di S. Grimoaldo, il vescovo Guarino di Aquino avrebbe benedetto l’edificazione di un memoriale con un solenne pellegrinaggio annuale in loco. Con ciò avrei voluto ribattere alle contestazioni di «diversi studiosi e numerosi “appassionati cultori” nei confronti della gerarchia ecclesiastica pontecorvese che aveva modificato il rituale dei festeggiamenti annuali» [NA, pp. 130-131], fissati alla seconda domenica di maggio, nonché «alla specifica ricerca demo-etno-antropologica, che negli ultimi tempi è stata riproposta da Marcella Delle Donne dell’Università La Sapienza di Roma» [ NA, p. 131]3.
Ora, al Nicosia potrà non piacere il mio linguaggio «retorico» [NA, p. 131]. Se ciò è lecito, non gli è però consentito alterare i dati informativi. La mia ricerca parte da molto più lontano, inserendosi, come tante altre, in un progetto ormai ultradecennale, tramite cui sto coltivando lo studio dei culti patronali presenti dentro le confinazioni diocesane spalmate tra Lazio meridionale, Campania settentrionale e Abbruzzo sud-occidentale: “San Germano. Collana di storia e cultura religiosa medievale” (Edizioni EVA, Venafro), di cui sono direttore, è testimone inoppugnabile di un consolidato indirizzo in questa tabella di marcia. D’altro canto, il mio contributo «in occasione della presentazione di un opuscoletto dell’arciprete Luigi Casatelli» [NA, p. 130]4 è stato solo uno dei tanti dentro una serie di riflessioni pubbliche monotematiche (i modelli di santità), sviscerate volta per volta in questi anni secondo un compito particolareggiato, che, nella circostanza evocata dal Critico, era unicamente quello di spiegare le ragioni ecclesiali, in virtù delle quali, sin dal 1996, una Nota Pastorale del vescovo Luca Brandolini aveva preso ad incoraggiare una purificazione teologica della memoria, laddove il senso penitenziale del pellegrinaggio a Melfi veniva da tempo offuscato attraverso quello che lo stesso Nicosia definisce «un pittoresco rituale pseudopagano» [NA, p. 130]. In quel caso, lungi da uno scontro con le voci locali più conservatrici, cercai piuttosto di indicare un percorso per conciliare un duplice diritto: quello inalienabile della Gerarchia a rileggere le espressioni liturgiche, del cui canone è strutturalmente responsabile, pena la rinuncia coatta della Chiesa cattolica alla sua bimillenaria identità, con quello autoidentificativo di frange cittadine orgogliose nel mantenere viva la propria consolidata espressività, ben inteso cercando spazi urbani esterni al tessuto propriamente sacramentale. Il fine pedagogico, che si mobilitava intorno alla stabilizzazione di una coesistenza pacifica tra sensibilità diverse, nella piena logica di una civile distensione, evidentemente non fu colto dal Nicosia. Del che non posso fargli ammenda, mentre gliene faccio per il coinvolgimento arbitrario di Marcella Delle Donne, che allora, in quel contesto, dinanzi ad un folto pubblico non specializzato e poco interessato a nomi di studiosi, non avevo motivo di citare. Come pure senza nessuna probabilità fui chiamato in soccorso da un Casatelli chissà quanto spaurito «per le osservazioni critiche indirizzate alla sua opera da parte di Alessandra Broccolini docente di Etnologia della stessa Università romana (in “La Lucerna”, n. 8, ottobre 2008, p. 8)» [NA, p. 131]: posto che l’arciprete pontecorvese era ed è pienamente autosufficiente alla propria causa, giammai avrebbe potuto assumermi per una tale scorta, dal momento che, alla data della «presentazione» in parola (10 maggio 2008), non si poteva conoscere una pubblicazione destinata a comparire cinque mesi dopo.
All’opera di Marcella delle Donne faccio invece riferimento – e questo è vero – nel mio saggio, ove, però, chi legge bene non trova traccia dell’attacco rendicontato dal Nicosia, anzi puó addirittura scorgere una certa curiosità per la nozione di “intimo eroe” applicata dalla studiosa a Camele e sottolineata nella Postfazione di Pietro Clemente [CF. pp. 17. 43]. Credo, dunque, che il disimpegno di Marcella Delle Donne, sollecitata dal Nicosia come fiancheggiatrice di comodo «con l’occasione» [NA, p. 137], sia stato dettato dalla sana cautela di non essere strumentalizzata. Ma, al di là del fantomatico castello accusatorio a mio danno, ciò che inquieta davvero nella mentalità del Nicosia esplode allorché divergenze d’opinione tra ricercatori universitari (vere o presunte che siano) vengono scandalosamente riprovate come manifestazioni di «agonismo istituzionale e relazionale» [NA, p. 137]. Tale chiave di lettura, tradisce fastidiosamente la reazionaria voglia politica di un’Università di Stato dal pensiero unico, normalizzata intorno ad un’ortodossia scientifica ufficiale ed incontestabile, militarmente riluttante ad ogni obiezione di coscienza, insomma la rete d’Ateneo in voga nei regimi totalitari. Al contrario, nell’Italia liberal-democratica, ove ci vantiamo di vivere nonostante i mala tempora, il pluralismo delle letture intellettuali, per quanto incontro/scontro di fermezze ideali, è un valore assoluto.
In sottofondo, c’è poi, nel Nicosia, un mortificante provincialismo gregario della Capitale. Il nostro libro, patrocinato dalla minuscola Università di Cassino, manifesta «umane debolezze “di posizione”» [NA, p. 137], solo perché, in una sedimentazione tutta del Critico, oserebbe essere in dissonanza con le conclusioni di elementi appartenenti alla grande Università La Sapienza di Roma: un vero reato di lesa maestà! Non mi sembrano note «territorialmente ed affettivamente sensibili all’immagine della locale Università di Cassino» [NA, p. 137].
2) Binari investigativi
A giudizio del Nicosia, avrei impostato quella che egli spaccia per una «confutazione», «secondo un principio propriamente dogmatico» [NA, p. 131], laddove darei per verità indiscutibile che l’Apparitio, documento sicuro del XII secolo e fondante la verità storica dell’evento soprannaturale, sia precisamente l’opera certa di «un vescovo di Aquino (un Guarino o un Reginaldo/Rainaldo)» [NA, p. 131]. Il Nicosia ovviamente non indica le pagine, in cui impongo un simile diktat (né potrebbe mai indicarle, perché non scriverei mai nulla di così semplicistico e perentorio), come ignora laddove scrivo, invece, che in ricerche simili ci troviamo «in un orizzonte epistemologico, che per sua natura né squalifica né certifica le Apparizioni» [CF, p. 35]. È evidente che questo principio inalienabile, che fonda la laicità della ricerca, non orienta la critica del Nicosia votata alla liquidazione preconcetta del trascendente. Il fondamentalismo ideologico ierofobo del Nicosia si scioglie patologicamente quando chiude: «In generale, nessuno ai nostri tempi puó più credere alle apparizioni di santi e demoni» [NA, p. 132]. E a riprova di un tal catechismo giacobino, che scivola sul facile equivoco tra laicità (sistema competitivo tra esercizi razionali diversi con il dubbio metodico permanente sulla bontà del contrario) e laicismo (emarginazione predeterminata del trascendente e patente di irrazionalità a chi lo contempla come possibilità ontologica), il Critico arriva alla farsa, aggiungendo che delle Apparizioni «non ne parla più neanche la Chiesa ufficiale» [NA, p. 132]. Non mi risultano provvedimenti della Santa Sede che abbiano smantellato Lourdes, Fatima o quant’altro. In ogni caso, l’accusa di dogmatismo a mio carico va rispeditata tutta ad un mittente ossessionato di canonizzare con un atto di fede nell’immanentismo assoluto la genesi dell’Apparitio Johannis Baptistae come fabulazione incentivata dai traffici clericali «nell’ ultimo ventennio del XVI secolo» [NA, p. 133].
Questo suo integralismo di fondo, che censura ogni lezione alternativa, è tale che Nicosia spaccia per «ambiguità» [NA, p. 133] la mia onesta messa a punto di una problematica, che, se da un lato si confronta con la rivendicazione tradizionale di un fenomeno ascritto al XII secolo, dall’altro offre un autorevole ed indiscusso carteggio agiografico a far tempo dall’età post-tridentina. Chi fa coscienziosa ricerca e non è mosso da espansionismi dottrinali prende gli elementi posseduti con i loro limiti e risponde umilmente solo a interrogativi possibili. Al momento non è ponibile che una domanda: l’Apparitio trascritta nella collezione bollandista come documentazione di un evento affiliato al XII secolo è del tutto anacronistica o puó avere margini di contiguità con il tempo che rivendica come proprio?
Il Nicosia, qualora ignorassimo la pista battuta da Lorenzo Valla per il Constitutum Constantini, ci ricorda che un esame obiettivo e completo richiede «un corretto, studio semantico ed etimologico del testo» [NA, p. 132]. Peccato che noi non abbiamo le stesse condizioni dell’Umanista per emularlo: a) non c’è una tradizione manoscritta su cui esercitare un lavoro di critica testuale, ma solo la tardiva trascrizione bollandista operata a mezzo stampa su un testo in beneventana peraltro in continuo movimento per le fruizioni liturgiche; b) i testimoni agiografici, non avendo l’autorità canonica di un documento pontificio (vero o presunto che sia), spesso non impegnano al dettaglio la conservazione puntuale di chi li trasmette, ricevendo plausibilmente aggiornamenti formali e lessicali per l’efficace ricaduta nella devozione popolare contemporanea. A ciò si aggiunga che eventuali tracce di un remoto assetto filologico nella trascrizione bollandista rimarrebbero per i pregiudizi avversi l’abile mistificazione di eruditi incapaci di dare alcuna «garanzia», tanto che «non è necessario spendere parole per ricordarlo» [NA, p. 133], così come si sbriga il Nicosia in un grossolano slogan anticlericale esteso pure al Baronio e alla sua «infornata» di Santi all’interno del Martyrologium Romanum.
Dall’impossibilità di fondare lo studio sull’auspicata «analisi testuale» per l’attuale mancanza di un patrimonio documentario risolutivo (sia per l’assenza di manoscritti che per l’insicurezza letteraria) e non dalla volontà di disertare pretestuosamente «un requisito assolutamente necessario» [NA, p. 132] deriva, dunque, come unica approntabile la mia opzione strategica di investigare sul «Sitz im Leben» [NA, p. 131], ovvero l’ambiente/contesto nel quale il messaggio agiografico, al di là della lievitazione formale pervenutaci (scarsamente indicativa), potrebbe aver avuto sostanzialmente il motore d’avvio. Il Nicosia ha obiettato che anche «la storia narrata nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni è perfettamente ambientata nell’età del Seicento, senza tener conto che è stata scritta ben due secoli dopo» [NA, p. 132]. C’è un doppio particolare: i Bollandisti, ove fossero loro gli spregiudicati artefici, avrebbero dovuto padroneggiare perfettamente le lontane dinamiche di un agro periferico e certo non così noto ai circuiti internazionali; e quel Cinzio Pellegrini, additato dal Nicosia come pista privilegiata, non era un romanziere, ma un notaio votato per deontologia professionale alla certificazione degli atti, uno storico serio dunque, così serio che lo stesso Nicosia riconosce come «accurata», e quindi non frutto di raggiri, la ricerca condotta da quello a Montecassino nel 1578, «riportando riassunti e trascrizioni di tutti gli antichi documenti relativi a Pontecorvo» [NA, p. 134]. D’altronde, in questa tormentata rincorsa al falsario come caccia alle streghe, il nostro Critico, per fare breccia, dovrebbe essere più perspicace nelle sue insinuazioni: così anche quando allarga il mirino sul vescovo Flaminio Filonardi, dopo aver evidenziato che nell’importante Sinodo del 1581 costui «non parla affatto dell’Apparitio» [NA, p. 133], a riprova che la leggenda doveva ancora essere romanzata. Ma perché il Filonardi avrebbe preso carta e calamaio solo dopo il Sinodo? Poteva farlo più efficacemente prima, affinché fosse proprio il Sinodo, con il suo più forte ascendente collegiale, ad accrediatare meglio nel tessuto urbano l’esordio di un dato così precario.
Il primo documento sul titolo di S. Giovanni Appare
Venendo, pertanto, all’unica domanda ponibile con i pochi elementi sul tappeto, delucido effettivamente nel mio saggio come il contenuto della narrazione trasmessa indichi potenzialmente «l’aderenza piuttosto immediata con gli eventi annunciati» [[CF, p. 36]], lasciando «la forte sensazione che l’arcaicità dichiarata sia autentica» [NA, p. 132]. Rinvio ovviamente alla lettura completa del discorso per le motivazioni, che mi inducono ad interpretare la gestazione agiografica dell’Apparitio come propaganda locale della riforma gregoriana, in cui si ode l’eco della tensione epocale tra Aquino e Montecassino e per il cui tramite si prepara un riconoscimento romano del Santuario di S. Giovanni Appare.
Non posso, però, evitare, con il rischio di ripetermi, una rapida insistenza su quest’ultimo punto, che si vorrebbe legare ad un dibattito riguardante il rapporto causa-effetto tra l’evento soprannaturale e l’insediamento dei Gersolimitani in loco, cioè se l’Apparizione sia intervenuta come strumento di contestazione popolare all’egemonia dell’Ordine intitolato a S. Giovanni Battista, oppure se sia stata proprio l’Apparizione a richiamare l’attenzione cavalleresca. Ho già detto che «non intendo entrare in un dibattito circa il primato di un fenomeno sull’altro (l’insediamento o l’Apparizione?), che rischia di impaludarsi in derive ideologiche» [CF, p. 35], laddove l’apologia del sacro e il suo diniego finiscono per infrangersi in opposti confessionalismi. Al contrario, il Nicosia vi s’impaluda volentieri, plaudendo scontatamente al primato dell’insediamento; e s’illude di vedere come prova della sua scelta ideologica «la fondazione della nuova chiesa (quella della leggenda dell’Apparizione)» [NA, p. 134], a due passi dalla chiesa precedentemente costruita dai Gerosolimitani. Per cui, a questa, «ancora esistente e officiata, e non a quella» sarebbe stata diretta la bolla pontificia (1291), con la quale Niccolò IV accordava l’indulgenza alla «ecclesia … Sancti Johannis Appari in Galdo Jerosolimitani» [NA, p. 134].
Il titolo giovanneo «Appari», che incontriamo qui per la prima volta (senza attendere la Relatio ad limina del 1592 enfatizzata dal nostro Critico [NA, p. 133]), mette in grande crisi il Nicosia, che rinuncia «a discutere del dubbio che solleva il termine» [NA, p. 135] in un simile contesto, semplicemente perché non sa come uscirne. Il nostro Critico si limita a chiedere se si tratta realmente di una forma linguistica collegabile all’Apparizione, ma sa bene di non poter fornire alternative credibili all’investigazione. Stando così le cose, torno a ritenere «abbastanza scontato» [CF, p. 33] che, sul finire del XIII secolo, la tradizione dell’Apparitio doveva ormai aver conosciuto un primitivo fissaggio semantico, che era giunto alla Santa Sede, con il patrocinio dell’Ordine cavalleresco interessato ad una promozione religiosa dell’area occupata, su cui non è dato sapere, senza adeguate campagne archeologiche di scavo, come all’epoca si fosse realmente sviluppata l’articolazione del Santuario, laddove il memoriale dell’Apparizione e la struttura residenziale avrebbero potuto costituire parti integranti, sia pur differenziate, di uno stesso più ampio complesso con una stagione ospedaliera ormai solida all’anno 12695 .
Nemmeno giova più di tanto invocare che «l’esame autoptico delle murature della chiesa dell’Apparizione = S. Giovanni Appare (eseguito durante un prosciugamento temporaneo delle acque) ha permesso di datarle ad una fase post-medievale» [NA, p. 135]. Ebbene, la chiesa sommersa, i cui ruderi sono riproposti in foto dal Nicosia, non esclude che essa fosse stata preceduta da altro/i monumenti votivi dell’Apparizione (li si chiami come si vuole: «domus, ecclesia, arcus …» [NA, p. 133, n. 2]) analogamente dispersi in un territorio soggetto ad aggiustamenti idro-geologici. Pretendere ciecamente che l’inizio della narrazione sia parallelo alla chiesa sommersa (che tra l’altro richiederebbe un riesame più approfondito) è come dire ad un osservatore, che nei secoli futuri non dovesse casualmente averne più notizia e si confrontasse solo con la cappella oggi visibile, che quell’inizio ha avuto corso dopo la metà del XX secolo, allorché quest’ultima è stata eretta.
Ciò detto, il Nicosia puó tranquilizzarsi, in quanto l’accostamento cronologico tra l’insorgenza del testo agiografico e la data dell’evento raccontato, al pari di un’inversa soluzione, resta ininfluente sulle opzioni religiose, che passano nell’intimità delle coscienze per più profonde esperienze, laddove, invece, il nostro Critico spende con inutile affanno un impegno missionario teso a dilazionare l’arco cronologico per paura di assistere al trionfo di un partito cattolico-visionario: un impegno missionario, miope quanto disperato nel proselitismo, fino ad arruolare alla propria causa Pasquale Cayro [NA, p. 133, n. 1]6 , cui è burlesco assegnare, scomodando persino la benedizione del Mommsen e prescindendo dal contesto polemico con il dottrinario Pietro Pellissieri, un’autorità negazionista ex cathedra pari all’infallibilità pontificia, quando ritiene l’Apparitio come uno degli antichi racconti «frutto della fantasia o della suggestione o dell’artificio» [NA, p. 132]. Non serve istruirci sul valore dello storico, che ben conosciamo7 , se poi lo si affoga in una parodia del genere.
Conclusione
Il Nicosia, autocertificandosi come campione di affettività territoriale all’Università di Cassino, dà la scusante etica alle sue “osservazioni”, perché non puó «“chiudere gli occhi” davanti ad un inopportuno invito al gioco di coloro con i quali vorremmo condividere idee e confrontarci con pari dignità» [NA, p. 137]. Per questa via, il nostro libro emergerebbe tra le righe come il prodotto di un certo snobbismo universitario, presuntuoso quanto impreparato, verso le risorse intellettuali del territorio esterne al mondo accademico. Chi ne sfoglia solo la prima pagina s’accorgerà immediatamente come i sei autori, che mi hanno affiancato nell’impresa, siano tutti non strutturati nell’Università ma espressioni di realtà sparse nella Provincia di Frosinone. Li ripropongo nell’ordine di citazione: Angelo Molle (Istituto Teologico Leoniano di Anagni); Luigi Casatelli (Basilica Cattedrale di Pontecorvo), Luigi Gulia (Centro Studi Sorani “Vincenzo Patriarca”); Andrea La Starza (Dirigente Scolastico in Cervaro); Sabrina Pietrobono (Museo Civico di Castro dei Volsci); Marco Sbardella (Dirigente nell’Amministrazione Provinciale). Pensa il Nicosia che una tale squadra non sia legittimata ad iconizzare qualitativamente il territorio nel dialogo con l’Università? Forse che tutti costoro siano implicitamente esclusi da quella che il nostro Critico chiama «letteratura locale seria» [NA, p. 138]? Probabilmente sì, visto che un «invito al gioco» è «inopportuno» se manca il Nicosia a «condividere idee e confrontarci» [NA, p. 137]. Lo stesso arbitrio autoreferenziale lo induce poi a bacchettare con luoghi comuni quegli autori «finanziati dagli enti pubblici, spesso conseguenza di amicizie personali o affinità politiche» [NA, p. 138]: ci vorrebbe un «prudente controllo» [NA, p. 138]. Il suggerimento trova facile breccia nella sua spicciola demagogia; più difficile sarà rispondere alla domanda: a chi attribuire l’esercizio del «controllo»? Di sicuro, le illazioni qualunquiste del Nicosia, solo distruttive, boicottano l’individuazione di agenzie credibili, visto che, se i gestori della cosa pubblica possono agire «per amicizie personali o affinità politiche», i professori universitari non risulterebbero più affidabili, poiché avallano tante pubblicazioni «banali» con la loro «esaltante prefazione» [NA, p. 138].
Rimanendo ai finanziamenti pubblici, è possibile che talora la spesa segua logiche clientelari, dando corpo alla domanda: «che importa ad un pubblico amministratore o ad un politico?» [NA, p. 138]. Tuttavia, pure il Nicosia per le sue pubblicazioni riceve continui finanziamenti dagli enti pubblici. Che potrebbe concludere un malpensante? Che certe generalizzazioni indiscriminate potrebbero ritorcersi anche sulla «dignità» di chi le lancia? Per quale diritto celeste egli, a differenza degli altri, dovrebbe esserne immune? Di sicuro, la mia cultura garantista non permette l’inseguimento a simili battute di caccia, tutelando, senza il verdetto di un equo processo, la presunzione d’innocenza per tutti, compreso certamente il Nicosia, il quale, a differenza della sua lamentela per una mia latitanza a «condividere idee e confrontarci» [NA, p. 137], di appuntamenti del genere ne ha avuti e ne ha tanti: costituisce con me (e con Angelo Molle, Ferdinando Corradini, Costantino Jadecola, Fernando Riccardi) il Consiglio Direttivo della giovane Collana “Terre Aquinati” e mi siede spesso accanto come relatore negli stessi Convegni, di cui cito, per la cronaca, solo l’ultimo, celebrato ad Arpino, lo scorso 27 febbraio, sul “Martirologio dell’Assunta”. Il Critico, come ogni comune mortale, non puó pretendere l’onnipresenza: per cui, alla fine, mi viene l’amaro sospetto che pago fatalmente un’iscrizione all’albo di quella che egli definisce «letteratura universitaria mediocre» [NA, p. 138], non avendogli dato parte per un libro collettaneo su Pontecorvo, sua città ed intoccabile feudo d’indagine.
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1 Nicosia A., L’ultimo libro di Filippo Carcione sulla storia religiosa di Pontecorvo: osservazioni critiche, in “Studi Cassinati”, X/2 (2010), pp. 130-138 [richiamato d’ora in poi tra parentesi quadra con la sigla NA].
2 Carcione F. (cur.), Culto, pastorale e uomini di Chiesa nella storia religiosa di Pontecorvo, Arte Stampa Editore, Roccasecca 2009, 160 pp. [richiamato d’ora in poi tra parentesi quadra con la sigla CF].
3 Cfr. Delle Donne M., Camele, il Diavolo, il Santo. Uno sguardo antropologico, Liguori Editore, Napoli 2008.
4 Cfr. Casatelli L., Camele non esiste. Due cittadini pontecorvesi, un Messaggero Celeste e un abitante degli abissi nella storia di un’Apparizione, Arte Stampa Editore, Roccasecca 2008.
5 Per cui trovo che abbia forza la sicurezza riscontrabile nel recentissimo volume di Carrocci M.C., Pontecorvo sacra. Ricerche storiche, Archivio Storico di Montecassino, (=Studi e documenti sul Lazio Meridionale, 10), Montecassino 2010, p. 96: «È certo perciò che il nome della chiesa dell’apparizione di S. Giovanni Battista già nel 1291 risultava legato a quello di un ospedale dei Cavalieri di S. Giovanni Battista di Gerusalemme (in seguito Ordine di Malta)».
6 Il testo evocato dal Nicosia, con caricaturale deferenza biblica, è desunto da Cayro P., Replica ad un opuscolo contraddicente il vero, ed incontrastabile sito di Fregelli, Napoli 1816, pp. 74-88.
7 Cfr. Carcione F. (cur.), Magno di Trani. Memoria e culto di un martire paleocristiano nelle Valli del Liri e del Sacco, Edizioni Eva, Venafro 2004, pp. 17-25.
Chiudiamo qui la polemica iniziata nel precedente nunero di Studi Cassinati tra l’archeologo Angelo Nicosia ed il prof. Filippo Carcione dell’Università di Cassino, avendo entrambi avuto spazio più che sufficiente per esporre le porprie tesi. Naturalmente la redazione si dissocia dai toni talvolta aspri e virulenti usati dagli autori, anche se riconosciamo che qualche volta possono essere il sale delle dispute culturali.
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