Giuseppe Micheli, autore del testo della nota canzone, era originario di Ripi Faccetta nera, bella ciociara …

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 4
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di Costantino Jadecola


La notizia, pubblicata sul calendario Ripi dei nonni del 1999 tra le curiosità del mese di maggio, riferiva che in quella cittadina il 12 novembre 1888 era nato Giuseppe Micheli, precisando che si trattava di un “illustre autore di testi di canzoni di successo”. Apprendere che fra di esse si annoverava Faccetta nera e, poi, tra le molte, La romanina (la ricordate? “Lasciatela passare/ la bella romanina / che tutti fa incantare / intanto che cammina…”) mi spinse ad approfondire l’argomento sul quale, però, a Ripi non se ne sapeva più di tanto e nemmeno più di tanto ne sapeva il mio compianto amico Nicola Persichilli che pur era una delle memorie storiche locali.
L’indagine, allora, si spostò a Roma. Attraverso l’elenco telefonico, tra i Micheli presenti, il caso volle che la mia scelta si orientasse su Enzo, Enzo Micheli, avendo così la fortuna di imbattermi proprio in uno dei figli, il più piccolo dei figli di Giuseppe, il quale fu ben lieto di quella telefonata tanto che nel giro di qualche giorno mi spedì diverse notizie su suo padre e, poi, in prosieguo di tempo, altro materiale ancora tra cui lo spartito musicale di Viva la Ciociaria, un lunghissimo brano, “testo alla romana e musica alla ciociara”, dedicato dall’autore “a tutti gli amici della Ciociaria”.
L’ultima volta che mi sentii con Enzo era l’autunno del 2004. Si stava cercando di programmare un ricordo del padre nella natia Ripi che doveva costituire anche l’occasione per la nostra conoscenza personale. Infatti, mi aveva detto, era ormai diventata una consuetudine dedicare una giornata alla canzone romana e specialmente a Giuseppe Micheli, cui, peraltro, Roma ha intitolato una strada, proprio nella ricorrenza della sua nascita. Quell’anno, allora, perché non farla a Ripi? L’ultima volta, nel 2003, si era svolta presso la biblioteca Rugantino, a Roma, ed era stata animata da alcuni degli amici di sempre tra cui, per citare i nomi più noti, il cantante e chitarrista Rino Salviati, il “romanista” Ugo Onorati, sindaco di Marino, e Giorgio Onorato, altrimenti noto come la “voce di Roma”, gli stessi che, molto probabilmente, sarebbero venuti a Ripi per la circostanza. Circostanza che, però, “sfumò” per via dei soliti bilanci comunali che diventano oltremodo deficitarii quando si tratta di investire in cultura, pur trattandosi di una cifra che, molto probabilmente, non avrebbe superato qualche decina di euro.
Alla telefonata successiva a quella con la quale gli avevo comunicato che quel suo desiderio purtroppo non poteva concretizzarsi, non vi fu risposta alcuna. Né risposta vi fu alle altre che seguirono nei giorni immediatamente successivi: era accaduto, infatti, come avrei saputo dopo un’indagine non semplice, che Enzo era morto agli inizi di dicembre.
Non essendosi così potuto concretizzare il ricordo di Giuseppe Micheli nel suo paese di nascita, sarà il caso, allora, di accennare alla sua figura ed alla sua opera utilizzando la documentazione inviatami dal figlio Enzo dalla quale emerge, innanzi tutto, che ci troviamo al cospetto di un personaggio poliedrico che, per di più, si è fatto da solo.
Quando nasce, la sua famiglia abita in via la Fossa, una strada di cui a Ripi non si ha più traccia. Il padre, come il figlio di nome Giuseppe, ha 26 anni e fa il calzolaio; la madre, Filomena Crescenzi, è casalinga. Insomma, come si legge in una sua biografia, “una famiglia proletaria, talmente proletaria da non riuscire a mandare a scuola il ragazzo oltre la quinta elementare.” Non a caso, “compiuti 11 anni i genitori si vedono costretti a impiegarlo in una tipografia romana”: anche lui, in buona sostanza, deve contribuire al sostentamento della famiglia che, intanto, si è trasferita nella capitale lasciando per sempre Ripi.
Proprio in questa tipografia, dove tra l’altro si stampa Il Rugantino, giornale diretto da un illustre romanista, Gigi Zanazzo, che annovera tra gli altri suoi collaboratori Trilussa, Giuseppe comincia ad appassionarsi alla poesia ed al dialetto romano tant’è che nel 1906, quando ha appena 18 anni, pubblica la sua prima raccolta in versi, Spasimi, ed anche la sua prima canzone, Festa de rose, che si mette in evidenza nella festa di S. Giovanni di quell’anno. Poi, nel giro di qualche anno, il 4 dicembre 1910, convola a giuste nozze con Bice Diociaiuti che, oltre ad essere sua valida “collaboratrice nell’evocazione di vecchie canzoni romane” gli darà quattro figli: Renato, Corrado, e Trieste, tutti più o meno impegnati nel campo della poesia e della canzone romana, e poi Enzo, il più piccolo.
Gli interessi di Giuseppe Micheli, infatti, oscilleranno tra la poesia e la canzone in vernacolo – nel 1935 fonderà anche una casa editrice, la “Edizioni musicali Micheli” con sede in largo Chigi – oltre a svolgere, beninteso, incarichi operativi e di responsabilità in ambito tipografico ed una intensa attività sindacale sia prima che dopo la seconda guerra mondiale, meritando addirittura l’attenzione di Giuseppe Di Vittorio.
Ma è naturalmente l’attività culturale a dargli notorietà.
La sua produzione è a dir poco notevole e spazia tra volumi in versi, poemetti, testi di canzoni, riviste musicali saggi ed altro ancora. Sarà il caso di ricordare, tra gli altri lavori, Qui Rugantino fu, una Storia della Canzone Romana, ripubblicata or è qualche anno, che costituisce ormai un classico e per la quale nel 1966 ottenne il premio della cultura dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Romana, un’antologia cronologica delle canzoni di Roma dal 1268 al 1950, e poi un saggio su Beatrice Cenci, una Vita di Cola di Rienzo, pubblicato postumo, una biografia di Ettore Petrolini, poi trasposta in commedia musicale con il titolo L’uomo che faceva ridere, il romanzo L’uomo che non ricorda; la commedia Letizia; la commedia satirico-musicale È arrivato Woronof, La piccola storia del Sor Capanna. Ma sarà anche il caso di aggiungere che Giuseppe Micheli fondò periodici come il settimanale Ghetanaccio, diretto insieme a Leone Ciprelli ed al quale collaborarono i più illustri romanisti dell’epoca, tra cui Ettore Petrolini, e Ponentino romano.
“Fondamentale prodotto micheliano”, fu, però, si legge in un’altra biografia, “la poetizzazione musicale dell’impresa etiopica” sia con Soldato del Lavoro ma soprattutto con Faccetta nera, ambedue musicate da Mario Ruccione.
Ritenuta dai più come un prodotto fatto confezionare dal regime, la storia di Faccetta nera ha, invece, tutt’altra origine e tutt’altra storia: nasce, infatti, come canzone tipicamente romana ed è lo stesso Giuseppe Micheli, a dirci come andarono le cose.
“In una domenica dell’aprile 1935, mentre oziavo in casa attendendo la visita di un amico, mi tornò alla mente il sunto di un articolo che avevo letto il giorno prima su un quotidiano di Roma: in esso, con tutta la cautela possibile, si sparlava della Società delle Nazioni riguardo ad una nostra eventuale espansione e, nello stesso tempo, si auspicava un nostro intervento in terra d’Africa per porre fine alla schiavitù di intere famiglie, di cui sembra si vendessero sul mercato le giovani figliole.
“Mi raffigurai allora una di queste povere fanciulle che i nostri soldati avrebbero dovuto liberare ed affidare, idealmente, insieme a tutte le altre, all’Italia, divenuta patria comune, e quasi sospintovi da una forza interna, sebbene da parecchio fossi uscito dall’agone letterario dialettale, mi posi a coscrivere una canzone su quel soggetto; una canzone popolare, dico, anzi una canzone romanesca nel cui settore qualche cosa di buono (credo) avevo fatto nel passato.
“Quindi: pura e semplice aspirazione ideale di recare un dono inestimabile e cioè la libertà a quelle giovani; e non il più lontano pensiero di ‘unificazione’ razziale (che più tardi – ma a guerra vittoriosa – vi si volle notare) sulla quale s’erano invece ispirate talune canzoni e massimamente talune caricature del tempo della prima guerra d’Africa”.
Il testo di Faccetta nera, dunque, Giuseppe Micheli lo scrive in romanesco. Sarà poi suo figlio Renato, anche lui autore di poesie e canzoni romane, ad interessarsi a far musicare quei versi, incombenza in cui si cimenterà Mario Ruccione. Carlo Buti, invece, la canterà per la prima volta al Cinema-Teatro Capranica il 24 giugno del 1935 nel corso delle audizioni per la festa del San Giovanni.
Il successo è immediato e clamoroso: la musica è orecchiabile e le parole sono accattivanti. Quanto basta, insomma, per darle un’impensata notorietà e suscitare l’“interesse” delle autorità che in più di una circostanza impongono il divieto di esecuzione della canzone con l’unico effetto, però, di accrescerne la popolarità.
“Faccetta nera”, infatti, scrive Gianni Borgna, “alle autorità non piacque, vuoi perché scritta in dialetto, vuoi, soprattutto, perché piena di ammirazione e di simpatia per la ‘bella abissina’. Cosicché un anno più tardi l’autore dovette ampiamente rimaneggiarla. Ma anche questo non fu sufficiente.”
Intanto era iniziata l’avventura in Africa Orientale. Per Giuseppe Micheli l’evento costituì lo spunto per una quarta strofa, che “per la nequizia degli uomini del regime non fu mai pubblicata”, in cui esprimere “quella conclusione che, pieni di entusiasmo e di fede, tutti si aspettavano”. Dice: “Faccetta nera, il sogno s’è avverato / si adempie il voto sacro degli eroi / non sei più schiava ma sorella a noi; / l’Italia nostra è madre pure a te. // Faccetta nera bella italiana! / Eri straniera e adesso l’Africa è romana / Faccetta nera anche per te / c’è una bandiera, c’è una Patria, un Duce e un Re”.
“Con il successo della canzone, la vendita degli spartiti musicali e dei dischi andava a gonfie vele. Ma, confessa Micheli, a tutto profitto di editori sconosciuti o improvvisati e di altri profittatori”. Lui, infatti, ci guadagnò poco o niente.
“Faccetta nera”, insomma, scrive con rammarico l’autore, “fu detta la canzone di tutti perché chiunque si sentì autorizzato ad usarne, anzi ad abusarne, servendosene negli spettacoli musicali, nei romanzi, nelle parodie e persino nella fabbricazione di dolciumi, di giocattoli, di carillon e di cianfrusaglie di vario genere. Il che significa – scriverà nella sua Storia della canzone romana – che questa canzone era particolarmente sentita dal popolo, checché se ne dica.
“Eppure fu ripudiata, allora come oggi, sebbene i nostri figli, i nostri soldati la cantassero entusiasticamente partendo per l’Africa Orientale ove, circa quarant’anni prima anche altri soldati italiani avevano epicamente ma sfortunatamente combattuto.
“E la cantavano non soltanto per liberare le faccette nere dalla schiavitù ma anche per vendicare i morti d’Adua: ‘…Vendicheremo noi, camicie nere / i morti d’Adua e libberamo te…’
“[…] Le variazioni e le traduzioni che vennero dopo [la stesura originale – ndr], (d’ordine del regime di quel tempo e per le ripercussioni che se ne ebbero a Ginevra presso la Società delle Nazioni) non fecero che deturparla.
“Quando le Alte Autorità decisero di ignorarla tutti trovarono qualche cosa da ridirvi. Lasciateli cantare, ci disse un vecchio professionista che ci aveva invano difeso da attacchi di ogni genere. Il loro livore passerà, ma Faccetta nera resterà. E fu così”.
Giuseppe Micheli muore a Roma il 16 giugno 1972.

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