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Studi Cassinati, anno 2010, n. 2
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di Sergio Macioce
La storia è fatta di grandi eventi che tramandano nel tempo le vicende di popoli, monarchie, condottieri, ovvero di coloro che hanno determinato il cammino dell’umanità. I grandi eventi racchiudono tanti piccoli avvenimenti che aiutano a comprenderli. Se in una grande battaglia intervengono centomila uomini, abbiamo centomila microstorie diverse.
Le vicende che mi propongo di raccontare vogliono prendere in considerazione proprio queste ultime.
Inizio con la storia del tenente medico Arturo Iadecola, che faceva parte della divisione Acqui di stanza a Cefalonia, Divisione di fanteria Acqui (33°) – reggimenti 17°, 18°, 317°, 33° reggimento artiglieria, comandante gen. Antonio Gandin.
Il 29 settembre del 1943 da Malta Eisenhower, capo si stato maggiore delle forze alleate, chiede a Badoglio: “il governo italiano è a conoscenza delle condizioni che i tedeschi riservano ai prigionieri italiani in questo intervallo di tempo in cui l’Italia combatte la Germania senza averle dichiarato guerra?”
Risponde il capo di stato maggiore gen. Ambrosio, fuggito con il re e Badoglio: “È possibile che i tedeschi li considerino partigiani”.
Eisenhower: “quindi passibili di fucilazione; dal punto di vista alleato la situazione puó restare così; ma per difendere quegli uomini, nel senso di farli diventare combattenti regolari, non sarebbe consigliabile che l’Italia dichiarasse guerra formalmente alla Germania?” (Bruno Moschetti – I Grandi Enigmi degli anni terribili – Vol. I).
In queste parole sta la motivazione della fine della divisione Acqui; i presupposti erano nello strano armistizio dell’8 settembre quando l’esercito italiano, lasciato senza ordini precisi dal governo, si trovò nel caos.
La divisione Acqui a Cefalonia, rimasta isolata, scelse la via dell’onore e della distruzione, fu abbandonata anche dagli alleati che pure avevano ricevuto da essa quattrocento prigionieri tedeschi.
Il comandante della divisione, il gen. Gandin, che in Russia era stato decorato di una croce al merito dai tedeschi, temeva due cose: l’attacco sterminatore degli Stukas, che aveva visto in azione in Russia, e l’indifferenza del anglo-americani, infatti questi non fecero intervenire la loro aviazione in difesa degli Italiani.
Complessivamente fra caduti e trucidati le perdite del nostro esercito furono novemila, nove mila eroi e martiri.
A Cefalonia c’era anche il ten. medico dott. Arturo Iadecola di Aquino.
Il dott. Iadecola, oltre ai soldati italiani, aveva curato anche i tedeschi e molti civili greci. In prigionia espletò umanamente e cristianamente la sua missione; tra gli altri, in condizioni proibitive, operò e salvò il capitano Unia, aereosiluratore italiano.
Dopo l’8 settembre fu catturato dai tedeschi e con la scorta di due soldati fu avviato verso il punto di raccolta dei prigionieri. Giunti presso un bar, dove egli sapeva di trovare amicizia e riconoscenza per le cure prestate gratuitamente alla popolazione civile, sferrò due pugni ai soldati di scorta e li stese a terra. Si infilò nel bar e subito uscì dalla porta posteriore, gli avventori e i proprietari si mantennero calmi ed indifferenti, quando i due soldati, che si erano ripresi, entrarono notarono tale calma e se ne andarono.
Il tenente medico si diede alla macchia e un giorno fu avvicinato da due greci che con furbizia e malafede gli dissero che in cambio di denaro lo avrebbero accompagnato in un luogo sicuro e fatto espatriare. Accettò la proposta, ma fu sempre vigile, i due greci lo accompagnarono su una montagna verso il luogo prestabilito. I due cercavano sempre di rimanere indietro, evidentemente volevano colpirlo alle spalle, ma il ten. disse loro: “Siete voi che dovete guidarmi, quindi dovete andare avanti”. Ad un certo punto vide un gruppetto di cinque o sei persone dal fare sospetto, l’istinto gli suggerì di fuggire; riservò ai due perfidi levantini lo stesso trattamento fatto ai due tedeschi, li atterrò con due pugni e si diede alla fuga. Dopo varie peripezie fu preso dai partigiani greci, malmenato, ricoperto di sputi e depredato (avevano dimenticato il bene ricevuto), riuscì solo a farsi restituire una medaglietta con l’effigie della Madonna che la signora Arturina, sua moglie, ancora conserva. Sfuggito ai partigiani, fu catturato dai tedeschi che gli risparmiarono la vita perché avevano bisogno della sua opera di medico.
Trasportato in un campo di concentramento in Polonia, patì fame e stenti, rimase pure senza scarpe. Una mattina costretto ad uscire dalla baracca per l’ora d’aria, corse il pericolo di avere i piedi congelati, quando sentì un grido più che un richiamo “don Arturo!”, si volse e vide un soldato originario di Aquino, Rocco Di Folco, si abbracciarono come fratelli ed ebbe da lui in dono un paio di calze di lana ed un paio di scarpe.
Era partito da tenente il primo maggio del 1943 (si era sposato il marzo dello stesso anno), tornò a casa da capitano nell’ottobre del 1945.
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