Piemontesi a caccia di… tonache

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 2
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di Fernando Riccardi


Che il Risorgimento sia stato contraddistinto da una fortissima matrice anticattolica non lo dice soltanto Angela Pellicciari in un bellissimo saggio di qualche anno fa1, ma si evince chiaramente dall’evolversi delle vicende che contraddistinsero in lungo e in largo il decennio post-unitario.
Ci fu in quel periodo un attacco violentissimo all’istituzione ecclesiastica che non si limitò soltanto alla emanazione delle cosiddette leggi anticlericali.
La situazione nelle diocesi dell’ex Regno delle Due Sicilie assunse toni drammatici e sconfinò, spesso e volentieri, in una vera e propria “caccia alla tonaca”.
D’altro canto, come affermava Garibaldi, “noi siamo la religione del vero e la sostituiremo a quella del prete che è la menzogna”2.
Di qui l’esigenza di combattere “contro le tonache che hanno infangato, beffato, contaminato, fatto cloaca”3 e contro quel “mostro che si chiama Papato le cui emanazioni pestilenziali inondano il mondo”4.
I vescovi, considerati pericolosi sobillatori di plebe e profondamente avversi al disegno unitario, erano il bersaglio preferito dei Piemontesi. Contro di loro fu indirizzata una durissima campagna di odio e di persecuzione.
Il vescovo di Amalfi, mons. Domenico Ventura, morì a Napoli dopo aver subìto indicibili patimenti. Il cardinale Carafa, vescovo di Benevento, fu costretto ad abbandonare la sede diocesana e a rifugiarsi a Roma.
La stessa cosa fece mons. Filippo Cammarota, vescovo di Gaeta. A Napoli il cardinale Riario Sforza fu espluso per ben due volte ed andò esule a Roma.
Il vescovo di Reggio Calabria, mons. Mariano Ricciardi, si rifugiò prima in Francia e poi a Roma.
Mons. Salomone, vescovo di Salerno, “per non aver voluto secondare le pretenzioni dei rivoluzionari, questi gli aizzarono contro il popolaccio, e la notte seguente all’arrivo di Garibaldi in Napoli dovette fuggire travestito. Riparò in Napoli. Qui fu assalito da 30 ladri che, simulando essere guardie di pubblica sicurezza, preceduti da tamburi, invasero il suo alloggio, e legati l’arcivescovo, col fratello sacerdote e cameriere, rapinarono tutto che v’era di prezioso, fino la biancheria. Di là dovette riparare in luoghi diversi per aver salva la vita”5.
Il vescovo di Sorrento, mons. Saverio Apuzzo, fu prima incarcerato, poi esiliato in Francia e quindi a Roma.
Mons. Bianchi-Dottola, vescovo di Trani, espulso dalla sua diocesi, fu costretto a vivere in clandestinità perché minacciato d’arresto.
Il vescovo di Avellino, mons. Francesco Gallo, venne arrestato e deportato dai Carabinieri a Torino.
Mons. Luigi Riccio, vescovo di Caiazzo, venne aggredito e cacciato dalla diocesi.
Medesima sorte subì il vescovo di Caserta, mons. De Rossi.
Il vescovo di Foggia, mons. Bernardino Maria Frascolla, fu cacciato dalla diocesi, imprigionato e poi inviato in domicilio coatto a Como.
Mons. Michelangelo Pieramico, vescovo di Potenza, espulso dalla diocesi, morì di stenti e di crepacuore.
Il vescovo di Vallo, mons. Giovanni Siciliani, allontanato dalla diocesi, fu trattenuto per molti mesi in prigione a Napoli.
“Il rigore un tempo usato contro i malviventi venne riservato ai cattolici; monaci e monache, frati e suore gettati sul lastrico; sacerdoti sbeffeggiati, incarcerati, uccisi; il patrimonio artistico e culturale della nazione finito nelle case dei liberali o semplicemente distrutto; smantellato il tessuto di sicurezza sociale rappresentato dalle opere pie; irrise la fede, la cultura e la tradizione della popolazione. Con tutto ciò ai preti si impone di cantare il Te Deum in onore della nuova civiltà e della nuova moralità”6.
Anche mons. Giuseppe Maria Montieri, vescovo di Sora, Aquino e Pontecorvo, nell’alta Terra di Lavoro, a confine con lo Stato Pontificio, non volle piegarsi al nuovo ordine di cose e “quando le truppe garibaldine entrarono a Napoli … non volle permettere nelle sue diocesi il canto del Te Deum reclamato come nel ‘48 dai liberali e talvolta imposto al clero con la forza; preferì allontanarsi da Sora e incominciare la s. visita. Ma distolto dagli avvenimenti che incalzavano, fu costretto a fuggire a Casamari, indi a Veroli. Irreconciliabile col nuovo regime che andava instaurandosi, non degnò neppure di risposta l’abate di Montecassino, D. Simplicio Pappalettere che esortavalo di adattarsi ai nuovi tempi. L’8 settembre 1860 veniva intanto inalberata a Sora, in piazza S. Restituta, la bandiera di Vittorio Emanuele. Il vescovo era fatto segno a mandato di cattura; si ricercava da per tutto come un capo-brigante e si paragonava al reazionario Chiavone nato a Sora in contrada Selva. Il seminario, l’episcopio, la Cattedrale furono invasi dalle truppe piemontesi, gli archivi della Curia furono depredati dalle soldatesche”7.
La situazione si era fatta pericolosa oltre che insostenibile e così il prelato decise, sia pure a malincuore, di abbandonare Sora e la sua diocesi.
“Il vescovo Montieri, dopo essere stato alcun tempo nascosto nel convento dei francescani a Ferentino, vedendo di non poter più comunicare con le sue diocesi, si recò a Roma presso i Padri Liguorini, dove era stato invitato dal Provinciale Edoardo Douglas. Travagliato nell’anima da amarezze, sospinto come nella tempesta in alto mare, si sentì più che mai affranto nel corpo e venir meno la vita. Nel salire le scale del Vaticano, dove si recava ad un’udienza pontificia, fu preso da un affanno insolito, gli vacillarono le ginocchia e cadde facendo un nuovo sbocco di sangue. Raccolto da alcuni pietosi fu portato per consiglio dei medici al monastero di S. Alessio presso i Padri Somaschi. Quivi, il 12 novembre 1862, moriva povero e solo, anelando una visione di pace e raggiungendo finalmente quella vita beata che in terra non poté mai conseguire. Riposa nella chiesa di S. Alfonso, sull’Esquilino, dove una lapide ne ricorda il nome e le virtù”8.
Dopo la morte di Montieri la diocesi rimase vacante per ben dieci anni. Solo nel 1872, infatti, mons. Paolo De Niquesa poté insediarsi nella sua sede sorana. Ma fu soprattutto nella seconda metà del decennio post-unitario che il governo sabaudo assestò il vero colpo di grazia.
La legge n. 3036 del 7 luglio 1866 negava il riconoscimento e la capacità patrimoniale a tutti gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose: i cospicui beni di tali enti furono incamerati sic et simpliciter dal demanio statale.
Venne altresì sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico, ad eccezione delle parrocchie, di possedere beni immobili.
Nello stesso anno il primo ministro Giovanni Lanza estese l’esproprio dei beni ecclesiastici all’intero territorio nazionale.
Con un’altra legge, la 2848 del 15 agosto 1867, fu varata la definitiva soppressione di tutti gli enti secolari considerati inutili per la vita religiosa del paese.
Il perverso meccanismo si era messo in moto e niente e nessuno poteva arrestarne il poderoso incedere. Basti pensare che nel 1873, con una legge datata 19 giugno, il provvedimento di esproprio dei beni ecclesiastici veniva esteso anche alla città di Roma entrata ormai a far parte del nuovo Regno d’Italia.
C’è quanto basta, ed anche di più, affinché quell’assunto di cui sopra potesse trovare piena conferma.
Liberali e massoni, stretti in un fraterno ed indissolubile abbraccio, combatterono contro la Chiesa cattolica una vera e propria guerra di religione.
Si voleva colpire il suo enorme potere temporale per metterci sopra, come effettivamente avvenne, le mani avide e fameliche.
Ma, forse, lo scopo era anche un altro, ben più subdolo e raffinato: distruggere, accanto al potere temporale, anche quello spirituale.
Solo così puó trovare spiegazione la spietata attività di persecuzione che colpì il clero nell’intero decennio post-unitario.
Se i beni dell’asse ecclesiastico facevano molto comodo ad un governo con le casse perennemente vuote e, in quanto tali, andavano assolutamente incamerati, quello che bisognava abbattere con forza era il potere di persuasione e di convincimento che la Chiesa continuava ad esercitare sul suo immenso gregge.
Ma tale piano, alla fine, fu davvero coronato da successo?
Franco Cardini, al riguardo, non ha dubbi: “Il disegno fallì o ebbe molto più limitato successo per quel che riguarda i ceti subalterni specie contadini. E non incise se non molto poco nei mondi rurali profondi del Sud, del Nord-Est, delle grandi isole”9. E per fortuna, aggiungiamo noi.
Se oggi la nazione italiana è riuscita a conservare radici profondamente ancorate alla Chiesa e alla tradizione cattolica, è anche merito di quei preti e di quei vescovi perseguitati ed oltraggiati che in quel drammatico frangente seppero resistere con coraggio alla buriana e non vollero piegarsi alla forza bruta, alla violenza e alle intimidazioni. Eppure le tristi e pietose vicissitudini di quei prelati restano in gran parte sconosciute. Ecco un’altra colossale ingiustizia della nostra storia patria.ontrocorrente del Risorgimento, Edizioni Piemme, Farigliano 2003, p. 237.


1 Angela Pellicciari, Risorgimento anticattolico, Edizioni Piemme, Asti 2004.
2 Lorenzo Del Boca, Indietro Savoia. Storia controcorrente del Risorgimento, Edizioni Piemme, Farigliano 2003, p. 237.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 Angela Pellicciari, op. cit., p. 198.
6 AA. VV., La storia proibita. Quando i Piemontesi invasero il Sud, Controcorrente, Napoli 2001, p. 155.
7 Crescenzo Marsella, I Vescovi di Sora, Tipografia Vincenzo D’Amico, Sora 1935, pp. 250/251.
8 Crescenzo Marsella, op. cit., pp. 252/253.
9 Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa, Edizioni Ares, Città di Castello 2000, p. 220.

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