L’edificio Gianvilla di Arce Datazione e ipotesi di utilizzo

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 1
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di Ferdinando Corradini


Nel centro storico di Arce, nel punto in cui la via Di Mezzo incontra la via Forno Vecchio, sorge un fabbricato riportato nel vigente catasto al foglio 8, particella n. 77. Tale fabbricato, che costituisce un isolato, presenta delle particolarità architettoniche che lo distinguono da tutti gli altri (fig. 1). In primo luogo, sulla facciata verso Est (sulla via Forno Vecchio), si aprono due portali in pietra a sesto acuto, che sono unici nel panorama architettonico arcese, dove dominano gli archi a tutto sesto oppure quelli del tipo ad arco ribassato (figg. 2-3). A sesto acuto è anche lo stretto arco di un’apertura a piano terra sulla facciata che prospetta sulla via Di Mezzo, dove si apre, altresì, una piccola bifora, che è l’unica del centro storico di Arce; non è facile identificarla come tale, in quanto ha perduto la colonnina centrale (figg. 4-5). Ma l’elemento più significativo del fabbricato è costituito da uno stemma, riprodotto nella chiave di volta di uno dei portali in pietra innanzi detti, per la precisione quello a monte, che dà accesso alla porzione di fabbricato oggi di proprietà del signor Carmine Fraioli. Tale stemma, a forma di scudo, è frutto del raffinato virtuosismo di uno scalpellino che lo ha realizzato in alto rilievo sulla pietra calcarea, simulando persino il chiodo al quale lo scudo riproducente lo stemma sarebbe affisso (fig. 6).
Durante le nostre ricerche, ci eravamo già posti il problema della attribuzione dello stemma, ritenendo, sia pure con qualche dubbio, che appartenesse alla famiglia Cantelmo, che ebbe in feudo Arce fra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento1. Un inaspettato quanto determinante ausilio alla risoluzione del problema ci è venuto dal pregevolissimo scritto di Carlo Ebanista, da non molto dato alle stampe, relativo alla torre di S. Eleuterio, nel quale lo studioso, citando il De Lellis, descrive sia lo stemma della famiglia Jamvilla o Gianvilla che quello della famiglia Cantelmo: “L’insegna della famiglia Jamvilla era costituita da uno scudo partito (in alto campo seminato di code d’ermellino con mezzo leone rampante, in basso sei barbazzali di cavallo), mentre quella dei Cantelmo da un leone rampante attraversato da un lambello a tre pendenti”2. La dettagliata descrizione dell’arma degli Jamvilla, o Gianvilla, oppure, nella loro lingua, Joinville, permette di identificare le sei figure riprodotte nella metà inferiore dello stemma, che noi – lo confessiamo – avevamo scambiato per degli elefanti: si tratta, in realtà, di barbazzali. Con l’ausilio di un buon dizionario si ha modo di apprendere che “barbazzale” sta per: “catenella che passa sotto la barbozza del cavallo e si fissa per i capi al morso”3.
Lo stemma di cui ci stiamo occupando coincide perfettamente con l’arma della famiglia Gianvilla: mezzo leone rampante nella metà superiore e sei barbazzali di cavallo in quella inferiore: a onor del vero, nella metà superiore non si individuano le code di ermellino, ma, con ogni probabilità, ciò è dovuto alla difficoltà di riprodurre le stesse sulla dura pietra (fig. 7).
La sicura attribuzione dello stemma ci permette di datare con una certa precisione la realizzazione del fabbricato. Apprendiamo, infatti, dal Grossi che il re Carlo II d’Angiò “nel 1307 diede in feudo Arce colla sua fortezza a Giovanni Gianvilla suo Consigliere, e Maresciallo4 del Regno”. Il medesimo autore ci informa che “non si sa quanti anni avesse la famiglia Gianvilla posseduto Arce e quando poi, e con qual titolo, fosse passata alla famiglia Cantelmo”, facendoci, però, contemporaneamente sapere come, nel volgere di pochi decenni, “Arce colla sua rocca dalla famiglia Gianvilla fosse passata a’ Conti di Aquino: indi alla famiglia Stendardo […] e da questa alla Cantelmo”5. La prima volta che si rinviene un componente di quest’ultima associato ad Arce è nel 1381, allorché veniamo a sapere dell’esistenza di Giacomo Cantelmo, “Conte di Arce”, il quale era figlio di Giovanni, anch’ egli titolare del medesimo feudo6. Riepilogando, “Arce colla sua rocca” fu concessa in feudo alla famiglia Gianvilla nel 1307, mentre nel 1381 ne rinveniamo Signore Giacomo Cantelmo, figlio ed erede di Giovanni, anch’egli conte di Arce. Ma, come già visto, fra i Gianvilla e i Cantelmo si inseriscono i d’Aquino e gli Stendardo. Pensiamo di non essere molto lontani dal vero se ipotizziamo che il possesso di Arce in capo alla famiglia Gianvilla si sia protratto dal 1307 fin verso la metà del quarto decennio del XIV secolo, vale a dire fino al 1335 circa. E’ questo, quindi, l’arco di tempo in cui è da posizionare la costruzione (o la ristrutturazione) del fabbricato di cui ci stiamo occupando.
Una volta accertatane la “data di nascita”, non poche sono le considerazioni che possono farsi relativamente allo stesso. In primo luogo viene spontaneo chiedersi quale fosse la sua destinazione. Escluderei quella di residenza del feudatario, che essendo, come abbiamo visto, “Consigliere del Re e Maresciallo del Regno”, avrà avuto con ogni probabilità la propria dimora in Napoli. Opterei piuttosto per quella di sede del rappresentante del signore feudale. Sappiamo, infatti, che ogni conte, barone, principe o marchese che fosse, manteneva in ciascuno dei centri a lui soggetti un proprio rappresentante, che, a seconda dei tempi e dei luoghi, ha preso il nome di Capitano, Governatore, Uditore, Luogotenente, ecc. Costui aveva, in buona sostanza, il compito di reggere il paese e amministrare la giustizia. In precedenza, con ogni probabilità, tale importante funzionario aveva la propria sede nel castello posto alla sommità del monte alle cui falde si trovano i centri di Arce (verso Ovest, a 250 metri di altezza) e Rocca d’Arce (verso Est, a circa 500 metri s.l.m.). Molto probabilmente, però, dagli inizi del XIV secolo, lo stesso avrà avuto la propria sede in Arce. Vi è da aggiungere, a questo proposito, come, dopo la conquista di Carlo d’Angiò, avvenuta nel 1265, il castello di Rocca d’Arce non risulta essere stato teatro di importanti fatti d’arme, e come, in un documento del 1579, lo stesso risulta trovarsi già da tempo in stato di completo abbandono7. Del fatto che il Governatore o Capitano avesse la propria sede in Arce si trova, peraltro, conferma in un documento del 1545 in cui sono riportati i nomi delle strade del centro del paese: una di queste viene indicata come “strata de Corte”8. La Corte era appunto il luogo in cui il rappresentante del feudatario aveva la propria sede e amministrava la giustizia. Il fatto che tale importante ufficio fosse posizionato in Arce, induce a riflettere sull’importanza che tale centro aveva assunto già agli inizi del Trecento.
Non sarà fuor di luogo, poi, ricordare come, con la concessione di Arce alla famiglia Cantelmo, nel 1307, ebbe inizio per la stessa il regime feudale, che si protrarrà, salve brevi parentesi, fino al 17969. Il trasferimento della sede del Governatore o Capitano dal castello posto in cima al monte alla nuova, posta nel centro di Arce, potrebbe essere stata una scelta della nuova amministrazione.
Nel catasto murattiano di Arce, redatto nel 1815 e conservato presso l’Archivio di Stato di Frosinone, alla sezione G, nn. 246 e 247, rinveniamo riportato alla località “Forno” un fabbricato della consistenza di dieci vani, di cui otto “soprani” e due “sottani”. Tale fabbricato risulta essere di proprietà di “Casa Reale”. Come già detto, nel 1796, per volontà della Corte borbonica, Arce tornò al Regio Demanio insieme con tutti gli altri feudi del duca Boncompagni-Ludovisi10. È assai probabile che, in tale occasione, il fabbricato che ne occupa sia passato dall’amministrazione feudale a quella dello Stato, all’epoca identificata con la “Casa Reale”. Tale sarà rimasto il suo status giuridico anche nel 1806, allorché, con la nota legge del 2 agosto voluta dal re Giuseppe Bonaparte, il Feudalesimo fu abolito in tutto il regno di Napoli. La località in precedenza indicata come “Forno” ha successivamente preso il nome di “Forno Vecchio”. Tuttavia la circostanza che il catasto murattiano sia soltanto descrittivo, e quindi non corredato di mappe, non ci permette di identificare con certezza il nostro fabbricato nell’ambito dello stesso.
Circa le dimensioni del fabbricato vi è da dire che all’ultimo piano sono visibili delle murature listate. Tale tecnica venne utilizzata nel nostro territorio successivamente al terremoto del 1915, in occasione del quale alcuni edifici del centro di Arce riportarono dei danni, in conseguenza dei quali fu necessario abbatterne gli ultimi piani, provvedendo a rinforzare quanto restava del fabbricato con la detta muratura listata. Tale trattamento potrebbe essere stato riservato anche al nostro fabbricato, del quale potrebbe essere stato abbattuto l’ultimo piano, rinforzando quello sottostante rimasto danneggiato.
Qualche considerazione è da farsi circa la posizione dell’edificio nel tessuto urbano. Il centro di Arce si è aggregato all’incrocio fra due vie, poco più che mulattiere. Una, proveniente dall’Abruzzo, Arpino, Santopadre vi entrava alla via Pier delle Vigne, nel passato detta “di Porta Carosa”; ne usciva, quindi, per le odierne vie Corradino e Porta Germani dirigendosi verso Pontecorvo, ove era un ponte sul Liri, che ha dato il nome alla città e che permetteva di raggiungere la costa tirrenica. A giudicare dalla quantità e qualità delle costruzioni che si rinvengono, nel centro di Arce, lungo questa strada, dobbiamo ritenere che la stessa fosse meno importante dell’altra che proveniva da Roma e Ceprano, dove superava il Liri su un antico ponte ivi esistente11. Giunta in prossimità della chiesa di San Pietro, questa via riceveva alla sua sinistra un tracciato che, venendo da Veroli e Monte San Giovanni, superava il Liri utilizzando il ponte posto alla località S. Eleuterio di Arce e proseguiva, quindi, per il monte San Martino, che deve il suo nome ad un antico monastero benedettino nel passato ivi esistente12. Tali due strade, una volta unitesi, entravano nel centro di Arce attraverso un sopportico posto lungo l’odierna via Manfredi. Tale sopportico non era altro che una porta, di cui si scorgono ancora oggi, verso l’interno, i resti di tre delle quattro pietre nelle quali ruotavano i cardini dei due battenti13(fig. 8). Il percorso, poi, lungo le odierne vie Di Mezzo e Forno Vecchio, raggiungeva la chiesa di Santa Maria, dove incrociava l’altro già descritto, proveniente da Arpino. Superata la detta chiesa, attraverso l’ odierna via Manfredi, usciva dal centro di Arce e grazie a una mulattiera, di cui ancora si individuano i resti sia a monte che a valle della odierna strada rotabile realizzata nella seconda metà dell’Ottocento, raggiungeva l’abitato di Rocca d’Arce, passando di fianco alla chiesa di San Rocco. Da questo centro, attraverso il passo dei Fraioli, raggiungeva l’antico ponte detto dello Spirito Santo, grazie al quale superava il fiume Melfa per poi raggiungere i tre centri storici di Roccasecca: Valle, Castello e Caprile; quindi, per Palazzolo, odierna Castrocielo, raggiungeva San Germano, odierna Cassino. Nel tratto da Ceprano a San Germano questo percorso rappresentava un diverticolo dell’antica via Latina. A Sud di Ceprano, infatti, successivamente alla caduta dell’impero romano, erano venuti a mancare i ponti che permettevano a chi percorreva la via Latina di superare agevolmente i corsi d’acqua che affluiscono nel Liri da sinistra (rio Proibito, rio Sottile, fiume Melfa, ecc.) per raggiungere Aquinum. Ma c’era anche un altro valido motivo che sconsigliava a chi voleva portarsi da Ceprano a San Germano di percorrere la piana di Aquino: la malaria, la cui ultima epidemia ha interessato questo territorio nel 1944/45.
In conclusione, nel corso della cattiva stagione il tratto Ceprano/Aquino/San Germano diveniva una sorta di Camel Trophy da percorrere (a piedi) su percorsi resi poco praticabili dal fango, superando a guado i corsi d’acqua in piena; nella bella stagione, invece, si correva il serio rischio di essere punti dalla zanzara anofele. Meglio starne alla larga e passare per Arce, Roccasecca e Palazzolo14. Probabilmente non a caso, il fabbricato di cui ci stiamo occupando fu costruito su questo tracciato, a poche decine di metri di distanza dal punto in cui la via proveniente da Ceprano entrava nel centro di Arce attraverso la porta sita sulla via Manfredi (fig. 9). Questa ubicazione suggerisce un utilizzo militare del fabbricato, che nel muro esterno a valle presenta un tratto a scarpa. Attraverso la porta della via Manfredi, infatti, non molti anni prima della realizzazione del nostro fabbricato era passato, proveniente dalla Francia, l’esercito di Carlo d’Angiò, diretto alla conquista “della rocca d’Arce” e, quindi, di Napoli.
Probabilmente, però, l’ubicazione sulla detta strada più che a una finalità militare fu dovuta ad una di carattere fiscale. In altri termini, nel nostro edificio, posto sulla importante descritta via, a poca distanza dalla porta di accesso al centro di Arce, potrebbe aver avuto sede una Dogana, dove riscuotere i diritti di passo, che costituivano una importante fonte di entrata del fisco nel periodo medievale e feudale. A questo proposito, non sarà fuor di luogo ricordare come, nel medioevo, fra Ceprano e Arce passava il confine fra il Patrimonio di San Pietro ed il regno di Sicilia e come, ancora nell’Ottocento, allorché si definì il confine fra lo Stato pontificio e il regno delle Due Sicilie, le Dogane fra i due Stati vennero posizionate non a ridosso della frontiera, bensì nei centri abitati15. Vi è un’altra circostanza che sembrerebbe confermare la presenza della Dogana nel fabbricato di cui discorriamo. Il muro, in cui si aprono i due portali a sesto acuto innanzi descritti, non è posto a filo di quello del piano superiore, ma si presenta “rientrante” rispetto allo stesso, in modo da formare una sorta di porticato. Doveva essere proprio questo il luogo dove si provvedeva ad eseguire le transazioni doganali.
Concludendo, il nostro edificio, costruito agl’inizi del Trecento, potrebbe aver avuto una duplice originaria destinazione: sede del Capitano/Governatore e sede della Dogana. Di ciò sembrerebbe trovarsi conferma nei due portali innanzi descritti, che, con ogni probabilità, avranno dato accesso ai due distinti uffici. Forse, a voler sottolineare tali differenti e, per dir così, gerarchicamente subordinati utilizzi, il portale a destra per chi guarda, che è l’unico ad essere dotato di stemma, è di poco rialzato rispetto all’altro e presenta delle dimensioni leggermente superiori: ha, infatti, una luce di 146 centimetri a fronte dei 140 dell’altro. Ancora oggi, peraltro, attraverso gli stessi si accede alle due distinte porzioni in cui è suddivisa la proprietà del fabbricato: una, come già detto, del signor Carmine Fraioli e l’altra della famiglia Di Pede.
Da sottolineare, poi, come, quasi ai vertici del triangolo costituente il centro storico di Arce, vi erano tre chiese: S. Pietro (oggi SS. Pietro e Paolo) S. Maria dello Sperone (oggi S. Maria) e S. Nicola. Quest’ultima, posta nella zona Nord-Est del paese, sulle particelle catastali 188 e 189, quasi alla confluenza fra le vie Porta Germani e Corradino, oggi non è più esistente, avendo il Comune, sul finire degli anni Novanta, provveduto a bonificare la zona in cui se ne vedevano i ruderi, sistemandola ad area pubblica. Tali chiese, fino al Settecento, hanno dato il nome ai quartieri, forse sarebbe più corretto chiamarli “terzieri”, in cui si divedeva l’abitato. L’edificio Gianvilla occupa un’area centrale e quasi equidistante rispetto ai tre edifici sacri. Potrebbe essere stata, questa, una precisa scelta urbanistica tendente ad attribuire una valenza unificante all’edificio di cui ci stiamo occupando (fig. 10).
Vi è da notare, inoltre, come nelle Rationes decimarum Italiae, relativamente ad Arce, non rinveniamo, per la decima degli anni 1308-1310, l’esistenza della chiesa di San Pietro, che troviamo, poi, iscritta nella decima dell’anno 1325 come arcipretale16. Riteniamo, quindi, di poter affermare che la chiesa di San Pietro e il fabbricato Gianvilla siano stati costruiti (o ristrutturati) nel medesimo torno di tempo, lungo la detta, importante via che andava da Ceprano a Rocca d’Arce. Tali edifici avranno costituito, nelle intenzioni di chi li fece realizzare, i due poli di aggregazione di una zona dell’abitato di Arce, quella a Sud-Ovest, che, fino al Settecento inoltrato, è stata quella di maggior sviluppo edilizio del paese. L’artefice di tale progetto volle apporre la sua firma allo stesso, facendo riprodurre il proprio stemma nell’edificio che abbiamo studiato.


1 G.B. G. Grossi, Lettere istorico-filologiche-epigrafiche e scientifiche illustrative delle antiche città dei Volsci indi Lazio nuovo, vol. II, riguardante Arce, Napoli 1816. Rist. anast. a cura della Sezione di Arce dell’Associazione Nazionale Carabinieri, Frosinone 1996, pp. 42-51 e 141-143. P. Cayro, Storia sacra, e profana d’Aquino e sua diocesi, vol. I, Napoli 1808. Rist. anast. a cura dell’Associazione Archeologica di Pontecorvo, Sora 1981, p. 244.
2 C. Ebanista, La torre di Sant’Eleuterio ad Arce: fonti documentarie e archeologia dell’architettura, in AA.VV., Suavis terra, inexpugnabile castrum L’Alta Terra di Lavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, Arce 2007, p. 65, nota 152.
3 l’Enciclopedia, vol. 21, Dizionario di Italiano, Novara 2004, ad vocem.
4 G.B. G. Grossi, Lettere, cit., p.40.
5 Ivi, pp.141-142. Vi è da dire che il Grossi sembra confondere il primo Giovanni Gianvilla, venuto nel regno di Sicilia con Carlo I d’Angiò nel 1265 e deceduto nel 1269, con il di lui omonimo nipote ex filio primogenito Goffredo, deceduto nel 1315; cfr. C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del regno di Napoli, parte prima, Napoli 1654. Rist. anast., Bologna 1968, pp. 35-43.
6 G.B. G. Grossi, Lettere, cit., pp. 42 e 143; P. Cayro, Storia, cit., vol. I, p. 205.
7 “gl’edifici dentro di essa [rocca, n.d.r.] a mano a mano sono tutti per terra e non vi stantia altri che gufi e civette”, S.M. Pagano, Fonti per la storia del ducato di Sora nell’archivio Boncompagni Ludovisi, Appendice 5, Descritione dello stato di Sora e suoi confini, in Latium, 2 – 1985, p. 233.
8 F. Corradini, … di Arce in Terra di Lavoro …, vol. II, Arce 2004, pp. 67-70. Circa le diverse ubicazioni della Corte nel corso del tempo, v. ivi, pp. 74-84 nonché IDEM, … di Arce, cit., vol. III, pp. 243-244.
9 G.B. G. Grossi, Lettere, cit., pp. 40 e 67. F. Corradini, … di Arce, cit., vol. II, pp. 55-60.
10 Sull’argomento, v. F. De Negri, La “reintegra” al Demanio dello Stato di Sora: un momento del dibattito sulla Feudalità nel regno di Napoli alla fine del ‘700, in AA.VV. Viabilità e Territorio nel Lazio meridionale. Persistenze e mutamenti fra ‘700 e ‘800, Frosinone 1992, pp. 73-93.
11 Per le antiche viabilità e toponomastica del centro storico di Arce, v. F. Corradini, … di Arce, cit., vol. II, cap. IV.1, pp. 32-44 e cap. VII.1, pp. 67-84. Per il ponte sul Liri a Ceprano, v. G. Colasanti, Il passo di Ceprano sotto gli ultimi Hohenstaufen, in Archivio della Regia Società Romana di Storia Patria, 35, Roma 1912. Rist. anast. a cura del Museo Archeologico di Fregellae, Ceprano 2003.
12 Per il ponte di S. Eleuterio sul Liri, v. F. Corradini, … di Arce, cit., vol. II, cap. IV.2, pp. 44-46. Per il monastero di S. Martino, v. P. Cayro, Storia sacra, cit., vol. II, Napoli 1811, pp. 43-44.
13 Per tale porta e per il fabbricato di cui ci stiamo occupando, v. F. Corradini, … di Arce, cit., vol. III, pp. 249-250, 252-253.
14 Quest’ultimo tracciato, di media collina, fu abbandonato a partire dagli inizi dell’Ottocento, allorché, a iniziativa della corte borbonica, venne realizzata la strada rotabile, detta Consolare, il cui tracciato coincide con l’odierna strada regionale Casilina. Per la Consolare, v. A. Di Biasio, Territorio e viabilità nel Lazio meridionale. La rete stradale degli antichi distretti di Sora e di Gaeta dal tardo Settecento all’Unità in Rassegna Storica Pontina, 1, gennaio-aprile 1993, pp. 28-38.
15 Devo questa notizia alla cortesia del signor Argentino Tommaso D’Arpino, che, dopo aver dato alle stampe una preziosa monografia sui cippi di confine fra i due Stati (A. Farinelli-A.T. D’Arpino, Testimoni di pietra. Storia del confine tra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio, Luco dei Marsi 2000), sta ora conducendo una ricerca sulle Dogane.
16 M. Inguanez, L. Mattei-Cerasoli, P. Sella (a cura di), Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Campania, Città del Vaticano 1942, p. 27 e p. 35, n. 412. Per le due distinte, quanto prossime, ubicazioni della chiesa di S. Pietro nel corso del tempo, v. F. Corradini, … di Arce, cit., vol. III, pp. 4-5. Per le chiese di S. Maria dello Sperone e S. Nicola, v. Ivi, pp. 49-52.

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