Sulla questione dell’Unità d’Italia

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Studi Cassinati, anno 2009, n. 4
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Riceviamo da Giovanni Salemi da Capua

Capua 3 novembre 2009

Egregio Direttore, il mio nome è Giovanni Salemi, vivo a Capua, ove sono nato, e pur essendo oriundo siciliano, lo dice il mio cognome, sono un campano di Terra di Lavoro. Come tale sono quindi molto vicino alla sua terra, quella che io definisco terra irredenta, ossia quella parte di Terra di Lavoro che, come lei ben sa, nel 1927 con decisione autoritaria andò ad arricchire il territorio della provincia di Frosinone e poi della provincia di Latina con il conseguente taglio di antiche radici che legavano quei territori al resto della grande provincia di Terra di Lavoro con capoluogo Caserta e prima ancora Capua. Con quella operazione si mostrò il dispregio per tutto un passato secolare che aveva dato a quei territori una impronta decisamente “napoletana” con usi, costumi, consuetudini e lingua riferiti a quella appartenenza. Essa fu un’altra manifestazione della volontà di cancellazione di ogni memoria di quello che era stato il grande Regno del Sud, Stato secolare che trovava la sua origine nel Regno di Sicilia creato dai Normanni nel 1130 e sempre rimasto unito come vera e propria nazione con il suo confine settentrionale al fiume Canneto sul Tirreno e al fiume Tronto sull’Adriatico.
Tutto quanto da me affermato non è certamente una novità: sono tutti concetti ben conosciuti e rappresentano una nota sicuramente dolorosa, e non poco, della nostra storia ed io sono partito dalle considerazioni di cui sopra per poter esprimere il mio pensiero su alcuni scritti che mi è capitato di leggere negli ultimi giorni.
Dirò innanzitutto di una notizia letta nella pagina della cultura del Corriere del Mezzogiorno, inserto del Corriere della Sera, del 18 ottobre u. s. in cui si riferisce della iniziativa di un Sindaco di un Comune della Provincia di Benevento (già appartenente al Molise quando Benevento era una enclave pontificia come Pontecorvo) ed esattamente del Comune di Pontelandolfo: il Sindaco in parola ha indirizzato una lettera al Presidente del Consiglio facendo riferimento ai fatti di Pontelandolfo del 14 agosto 1861: operazione di rappresaglia feroce conseguente a un attacco fatto da banda legittimista, io direi nazionalista, a un reparto del neonato esercito italiano
impegnato nel compito di occupazione militare, con l’uccisione di 45 soldati nel vicino comune di Casalduni. La rappresaglia messa in atto da un reparto di cinquecento bersaglieri al comando del colonnello Negri fu effettuata con un vero e proprio assalto del paese che fu dato letteralmente al fuoco con l’uccisione indiscriminata di giovani, vecchi, donne e bambini accompagnata da stupri e da rapina di ogni bene fino alla profanazione della Chiesa con il furto della corona aurea della Madonna.
Lo stesso Sindaco nella lettera in parola si appella al Presidente del Consiglio, affinché nel suo comune, per i festeggiamenti del 150° anniversario dell’unità nel 2011, si tenga un convegno storico per, dice il signor Sindaco, ricordare l’eccidio e analizzare il brigantaggio postunitario.
E dove sta la dignità di questo Sindaco che non chiede che venga ufficialmente condannata quella azione e, sia pure solo in memoria, vengano condannati quei criminali di guerra che la concepirono, la ordirono e la eseguirono, alla stregua di quanto si è fatto e si fa per le rappresaglie esercitate dai tedeschi durante l’ultimo conflitto o più recentemente dai serbi, dai kossovari o da altri eserciti, tenendo ben presente che le bande irregolari alzavano la vecchia Bandiera e combattevano la loro battaglia per opporsi alla occupazione violenta della loro terra?
No, il Sindaco vuole il convegno con l’arrivo dei personaggi politici, le note dei fratelli d’Italia, i carabinieri con il pennacchio; in ultimo la conclusione: sì ci dispiace, non doveva accadere, ma ormai è accaduto e poi bisognava (chi sa poi perché!) fare l’unità; e quindi – chi ha avuto, ha avuto, scordiamoci il passato – come recita una delle più infami canzoni scritte nell’immediato dopoguerra nell’ansia di di conquistarsi ancora una volta la benevolenza dei vincitori.
Ha avuto molta più dignità Muammar Gheddafi che sia pure rozzamente –l a foto sulla uniforme – ha onorato i suoi morti e ha ottenuto un compenso per quanto accaduto con l’occupazione militare italiana in Libia.
I morti di Pontelandolfo chi li ricorda, chi li onora?
E poi il brigantaggio, questa voglia di voler a tutti i costi definire delinquenti quelli che furono i nostri partigiani dell’epoca. Quanta diversità dalla grande considerazione e stima in cui vengono tenuti in Spagna gli insorgenti contro l’occupazione napoleonica! Noi dovremmo essere fieri di poter dire che ci furono personaggi che si batterono in una guerra sanguinosa e crudele per difendere comunque la propria terra, la propria Patria ricordando peraltro che briganti furono definiti, da parte dei rivoluzionari, i combattenti della Vandea, uomini fedeli alle antiche istituzioni e valorosi difensori della loro terra1.
È pertanto quella di brigante una definizione altamente onorevole. Lo stesso Sindaco, anche questo va detto, il 14 agosto del corrente anno, al fine di contrastare un raduno di appartenenti o semplici simpatizzanti di associazioni che rivendicano i valori dell’antico Regno e che si erano recati a Pontelandolfo per ricordare con S. Messa e con un pensiero quei morti del 1861, ha chiesto l’intervento dei Carabinieri sostenendo, tra l’altro, essere una offesa per la Repubblica Italiana l’esibizione della antica Bandiera del Regno, quella, per intenderci, con le armi di Casa Borbone che, mi sia perdonata questa citazione personale, sventola per 365 giorni all’anno su casa mia a Capua.
È chiaro che l’accoglimento della richiesta fatta al Presidente del consiglio porterebbe al comune un po’ di soldi per aggiustare qualche strada, dipingere il palazzo comunale o cose del genere, ma non credo assolutamente che ci sia un qualsiasi motivo valido e pulito che giustifichi la vendita della memoria dei propri morti.
È una tristezza, gentile Direttore, ed è una tristezza troppo grande!
Ma una tristezza forse ancora maggiore, se è mai possibile, ho provato leggendo un articolo pubblicato sull’ultimo numero della sua rivista “Studi Cassinati”: luglio/settembre 2009.
Si tratta dello scritto dal titolo “Difesa del Risorgimento e dell’Unità d’Italia “del prof. Dino Cofrancesco docente di Storia del pensiero politico nella Università di Genova.
Ora io sono certamente in svantaggio nel mettermi a contraddire persona che svolge compito di insegnamento universitario ed è quindi molto più allenato di me a illustrare e sostenere il suo pensiero, le sue idee, i suoi pareri. Ciononostante voglio esprimere il mio pensiero, la mia idea, il mio parere in proposito e lo farò impegnando nel mio dire anche il cuore e il sentimento di amore che mi lega alla mia terra, al mio, al nostro Sud, anzi sperando di essere più chiaro, ripeterò quanto affermava uno dei capi vandeani più famosi, per definire molto semplicemente il concetto di Patria:
“Essi (i soldati della repubblica) la loro Patria ce l’hanno nella testa, noi invece ce l’abbiamo sotto i piedi poiché Essa è la nostra terra, quella terra su cui siamo nati, su cui lavoriamo e in cui sono sepolti i nostri morti”.
In altre parole, ove fosse necessaria maggior chiarezza, dico che il nostro rapporto con la Patria è un rapporto diretto, concreto e semplice come tra madre e figlio senza necessità di spiegazioni, di giustificazioni o comunque di filosofismi difficili.
Non è con i sottili ragionamenti basati su affermazioni preconcette come quella della “efferatezza” dei Borbone nel 1799 o della indegnità (sic!) del governo borbonico a far parte del consorzio delle nazioni civili, che si puó affermare e proclamare la giusta e opportuna necessità di abbattere nazioni da secoli costituite per includerle in un organismo politico del tutto diverso. Né si puó affermare che lo stato centrosettentrionale che andava formandosi con le occupazioni militari delle regioni corrispondenti avrebbe avuto un processo di modernizzazione industriale e sociale superiore alle Due Sicilie, essendo ben noto che in tale Stato questo processo era stato iniziato da tempo e ben portato avanti con ottime previsioni.
Altro che parlare di avanzi di ancien régime o di caratteristiche di tipo centro-sudamericano.
E poi ricordiamoci che lo stato centrosettentrionale che si andava formando, si allargava sempre violando i legittimi governi e la volontà popolare (erano infatti i carabinieri che il Piemonte faceva infiltrare che con i rivoluzionari del luogo orchestravano sommosse utili a offrire il destro della necessità dell’intervento ).
Ricordare poi che Boccaccio aveva soggiornato a Napoli non dimostra niente di più che evidentemente la permanenza in tale città gli risultava comoda o addirittura utile, né ricordare che tutte le classi alte parlassero l’italiano puó essere determinante a stabilire che bisognava stare per forza tutti insieme anche perché le classi alte del Regno di Sardegna (il vincitore) parlavano non l’italiano ma il francese. E poi anche tedeschi di Germania e austriaci parlano la stessa lingua ma non per questo sono stati mai un unico stato, tranne che in un breve tragico periodo .
Ed ancora l’emigrazione e gli elenchi telefonici del Nord con tanti nomi di meridionali: è vero tanti sono quelli che sono stati costretti a trasferirsi e se ci sono stati quelli che si sono trasferiti per libera scelta e intima convinzione, la maggior parte è stata costretta a farlo essendosi spostato verso Nord il baricentro di tutto, dall’industria agli istituti militari, alle istituzioni, ai commerci per la spinta data in tale senso dai nuovi reggitori e loro valletti del nuovo artificioso Stato.
Il professore conclude dicendosi sicuro che nessun revisionismo che egli gentilmente definisce tribale, potrà più cancellare la casa comune.
Noi ostinati innamorati del Sud ci auguriamo di poter vedere qualcosa di meglio di questa casa comune, di cui peraltro ci sono state assegnate le cantine e le soffitte.
Termino qui, gentile Direttore, questo mio scritto e lo sottopongo alla Sua attenzione di cui La ringrazio, sperando che possa essere pubblicato.

Giovanni Salemi

Al di là delle questioni storiche che Lei solleva – delle quali si puó ragionevolmente discutere e che, in buona parte, si possono anche condividere –, ciò che traspare dalla Sua lettera è la passione, che, nel senso etimologico del termine, è sofferenza. Sappiamo tutti, però, che quanto è più alta la passione tanto più bassa è la ragione. Personalmente credo che ragione e passione non debbano mai essere disgiunte: “Ragione e passione sono timone e vela della nostra anima navigante” diceva Gibran.
Allora mettiamola così: l’amore/passione per la nostra terra e la sua storia (che, poi, è la nostra storia) ci induce a studiarne eventi, retroscena, verità nascoste, documenti ignorati, ecc., per giungere ad una conoscenza il più vicina possibile alla verità storica; tuttavia, razionalmente, dobbiamo anche prendere atto della realtà attuale: il Paese Uno e Indivisibile (quello cui fa riferimento, opportunamente, credo, il prof. Cofrancesco nel suo ricordato articolo); il Paese che ci hanno lasciato i nostri padri, quello per il quale hanno combattuto e sono morti – al di là delle opposte motivazioni – partigiani e fascisti; quello che, volendo o no, lasceremo ai nostri figli.
Rileggiamo il nostro passato, recriminiamo per i soprusi e le ingiustizie, gridiamo al mondo la nostra verità, ma non fuggiamo dal presente: indietro non si torna; sarebbe come mettersi al centro del fiume e cercare di fermarne la corrente con le sole braccia: finiremmo per essere travolti.
Aggiungo: questo è il Nostro presente, questa è la Nostra Italia e guai a chi ce li tocca.
Chiudo con una domanda: cosa prova quando ci sentiamo denigrare come Italiani all’estero?
Vista la sua genuina passionalità credo di conoscere già la risposta.
e. p.

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