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Studi Cassinati, anno 2009, n. 2
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di Giovanni Petrucci
Il 18 aprile 2009, in concomitanza con la festa della Liberazione Nazionale, c’è stata, a Valleluce, la commemorazione con lo scoprimento di una lapide per ricordare il sacrificio del concittadino Liberantonio Soave.
La cerimonia è stata organizzata dalla dinamica presidente del Centro Diurno di Valleluce, dott.ssa Angela Di Cicco, e si è svolta in un mesto e partecipato raccoglimento nel luogo dove il giovane venne barbaramente trucidato.
Erano presenti Mons. Igino Bonanotte, il Sindaco, dott. Fabio Violi, gli Assessori, il Maresciallo dei Carabinieri, Alfonso Zona, il Viceprefetto di Frosinone, il Preside della Scuola Media, Graziuccio Di Traglia con alcune scolaresche e molto concorso di anziani della frazione.
Dopo il saluto del Sindaco e del Viceprefetto, che hanno indicato a monito l’eroico sacrificio del giovane, Monsignor d. Bonanotte ha ricordato che Valleluce è stata non solo terra di Santi, ma anche “di gente valorosa che, durante le due guerre mondiali, ha donato la vita per la nostra patria e per la nostra libertà”; ha poi sinteticamente espresso nobili considerazioni sulla guerra che “porta morte e disperazione sempre e dappertutto”.
Infine ha preso la parola Sabatino di Cicco, che era presente in quel lontano giorno del 24 ottobre 1943 durante la fuga per le montagne. Con parola commossa ha rievocato tanti particolari dell’episodio.
A metà del mese di ottobre 1943 Liberantonio scorgeva quattro giovanotti, che si aggiravano guardinghi nel suo podere cercando di non farsi notare; insospettito si avvicinò e dalla loro parlata comprese che erano soldati dell’esercito inglese che, fuggiti dal campo di prigionia di Viterbo in seguito ai disordini verificatisi dopo l’8 settembre, volevano passare la linea del fronte e tentavano di sfuggire ai Tedeschi; ma erano capitati proprio a Valleluce dove essi si erano acquartierati numerosi, per creare le fortificazioni di monte Cifalco.
Liberantonio Soave, coraggioso come sono gli uomini di tale terra, li rassicurò e, sprezzante del pericolo, chiese alla moglie, Francesca Pacitto, di preparare loro un frugale pasto, come poteva essere a quei tempi. Li sistemò nel fienile, sopra una grande stalla; Francesca, facendo finta di andare ad accudire gli animali, due volte al giorno portava loro qualcosa da mangiare e da bere. I quattro, che si fecero conoscere come ufficiali dell’Aeronautica inglese, rimasero al sicuro per una settimana circa, ma poi ritenendo che la loro presenza poteva venire scoperta generando certamente una fiera reazione da parte delle “SS” non solo contro la famiglia ospitante, ma contro tutti gli abitanti del villaggio, comunicarono che volevano andar via, attraversando la linea alle Serre di Acquafondata per ricongiungersi al loro esercito.
Ad accompagnarli sulle lontane montagne si offerse con audacia non comune Loreto, fratello di Liberantonio, in quanto era più anziano ed esperto delle scorciatoie nascoste e non conosciute dai più. I quattro militari si salvarono e Loreto lo stesso giorno tornò a casa esausto, ma lieto per aver compiuto una impresa rischiosa.
La mattina del 24 ottobre, continua Sabatino, “allo spuntar del sole, come di nostra abitudine, ci accingevamo a lasciare la nostra capanna, quando sentimmo una raffica di mitra proveniente dalla cima della collina lungo la via per Atina. Invece di scendere in paese, ci incamminammo per un tratturo seminascosto dalla boscaglia e quando fummo nei pressi degli oliveti della Campata, ci fermammo per renderci conto di ciò che stava succedendo. Udimmo una seconda raffica e questa volta molto più vicina: era partita da due Tedeschi che, seguendo dei fuggiaschi, avevano imboccato lo stesso sentiero percorso da noi. Ad un certo momento i Tedeschi avvistarono il nostro gruppo”. Giuseppe, arrivato la sera da Capua, non aveva avuto nemmeno il tempo di spogliarsi degli abiti militari ed esausto per il lungo correre per le montagne e strade nascoste per rientrare a casa, si era addormentato. All’alba scappò insieme con i fratelli portandosi il moschetto come difesa. Così – prosegue Sabatino Di Cicco – “fummo malauguratamente scambiati per partigiani e attaccati. Una pallottola della prima raffica, che ci sorprese in piedi e allo scoperto, raggiunse in pieno petto il povero Liberantonio, il quale si afflosciò al suolo senza emettere il minimo lamento, mentre il figlioletto di circa un anno e mezzo, che portava in braccio, rimase illeso”.
Il giovane restò steso a terra in mezzo alla traccia del bosco; gli uomini se ne erano fuggiti temendo altre rappresaglie. La notizia si sparse per il caseggiato ed accorsero immediatamente Maria, la fidanzata di Loreto, ed altre ragazze sue amiche, che si diedero animo e lo riportarono a casa su una scala a pioli.
“Una pallottola della seconda raffica raggiunse la mia gamba sinistra. Sebbene ferito, mi calai nei cespugli sottostanti, raggiunsi un viottolo che si inoltrava nel folto degli uliveti; seguirono altre raffiche di cui sentivo il sibilo passare sulla testa. Dopo un po’ tutto tacque e quando mi ritenni più sicuro con un fazzoletto legai strettamente la ferita per impedire altra perdita di sangue e altre tracce troppo visibili.
Mentre facevo questa prima medicazione, fui riconosciuto da due amici che mi aiutarono a raggiungere la macchia dove trovai un gruppo di fuggiaschi.
Nel frattempo i due Tedeschi […] seguendo le mie tracce erano finiti in una vecchia calcara, nella zona Campo, imbattendosi in una ventina di uomini ivi rifugiati in seguito alla sparatoria. Essi riuscirono a disarmare i militari, ma, per evitare immancabili rappresaglie, riconsegnarono loro le armi, scaricandole e buttando nel fiume i caricatori, e li lasciarono andar via.
La sera, clandestinamente, nella baracca dove mi ero rifugiato, mi venne a medicare il dott. Arpino e continuò a farlo fino alla guarigione.”1
Finita la guerra il Comandante Capo dello Stato Maggiore, generale Alexander, operante nel Mediterraneo, inviò un attestato di riconoscimento e di ringraziamento per quanto Liberantonio aveva fatto.
Ma l’ardimentoso giovane era morto da uomo libero, come dice il suo nome, poco dopo aver messo in salvo i quattro soldati inglesi.
Di lui oggi non resta che il cippo con l’iscrizione del suo olocausto e la memoria imperitura nei Valleluciani.
1 Lo stesso racconto è riportato in: Sabatino Di Cicco, Diario a più voci, Cassino 1984, pag. 54
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