Karl Schonauer il “Guerriero Solitario” di Montecassino

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Studi Cassinati, anno 2009, n. 2
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di Guido Vettese

Ogni anno che passa, dai terribili nove mesi che dall’autunno del 1943 alla primavera del 1944 segnarono il triste destino della città di Cassino e della celebre Abbazia che la sovrasta, si assottiglia sempre più il numero dei reduci che presero parte alle vicende del secondo conflitto mondiale e diventa sempre più difficile raccogliere le loro preziose testimonianze. Io ho avuto più volte occasione di conoscere i reduci di alcuni dei diversi eserciti che sulle nostre colline videro scorrere il sangue dei loro commilitoni e mi piace raccontare sulle pagine di questo Bollettino alcuni ricordi del Caporal-maggiore tedesco (Obergefreiter) Karl Schonauer. Nato il 14 maggio del 1924 ad Hohenwart, in Baviera, a pochi chilometri da Monaco ed ivi residente, Karl diventò paracadutista nel 1941 e combatté in Russia fino a metà del 1942. Di questa campagna conserva diverse ferite e ricorda alcuni episodi significativi, come l’impossibilità di servirsi delle armi che non funzionavano per il freddo eccessivo e il fatto che i soldati russi utilizzavano delle rudimentali mine fatte con le scatolette vuote del lucido per le scarpe. Tornato dalla Russia combatté per tre mesi in Francia e il 15 luglio del 1943 fece parte dei paracadutisti lanciati su Catania. Da febbraio a maggio del 1944 Karl fece parte dei paracadutisti tedeschi che combatterono la sanguinosa ed estenuante battaglia di Cassino e Montecassino, operando anche nelle zone di S. Angelo in Theodice e Terelle. A Montecassino operò agli ordini del Maggiore Bohleim (prima compagnia paracadutisti, croce d’oro tedesca per i combattimenti a Quota 435 e croce di Cavaliere per quelli di Monte Grande) e nel periodo in cui fu utilizzato intorno al Monastero, alloggiò nell’ultima grotta esistente sul lato sinistro della strada che sale sul sacro monte, prima del bivio del cimitero polacco. Ogni notte scendeva due volte a Cassino per prelevare alimenti e munizioni e quando il 16 maggio del 1944 lui e i suoi commilitoni ebbero l’ordine di ritirarsi, nessuno voleva crederci. Il suo diretto superiore, che era rimasto ferito, lo incaricò di curare l’operazione di sganciamento perché Karl conosceva molto bene la zona e all’ultimo momento cercò anche di disinnescare una riserva di bombe a mano accatastate in un ripostiglio vicino, ma una esplose ferendolo alla testa e uccidendo un suo commilitone. L’impresa fu quindi abbandonata; l’entrata della grotta in seguito crollò sotto il cannoneggiamento e, per quanto ne sa lui, le bombe a mano sarebbero ancora sepolte in quel posto. Dopo il bombardamento dell’Abbazia Karl fu il primo ad entrare in essa arrampicandosi su una finestra posta a circa tre metri di altezza, poco lontano dalla Cella di San Benedetto. In questa cella durante il bombardamento si salvarono 16 persone tra cui Antonio Velardo che all’epoca aveva due anni e sua madre Annunziata Viola, mentre sullo scalone all’entrata se ne salvarono un centinaio, tra cui Antonio Forlino che ha raccontato di recente nel suo libro “Memorie di guerra” quella vicenda.
Il bombardamento alleato del 15 febbraio 1944 costò la vita a più di 500 persone e solo nella falegnameria furono rinvenute 142 salme. L’abate Diamare, proprio all’alba di quel giorno, aveva cercato di comunicare al Vaticano che nell’Abbazia non c’erano tedeschi, impensierito dai volantini che annunciavano il bombardamento di Montecassino e preoccupato dal fatto che i rifugiati nell’Abbazia credevano che i volantini fossero opera sua e di tutti gli altri monaci per costringerli a lasciare quel rifugio. È da ricordare che l’Abate con altri monaci (don Martino Matronola, don Nicola Clemente, don Eusebio, don Oderisio, don Agostino Saccomanno, fra Giacomo Ciaraldi, fra Carlomanno Pelagalli, fra Zaccaria e fra Pietro) rimase sepolto sotto le macerie, ma, quando ormai sembrava che non ci fosse più nessuna speranza, sentendo sopra di loro delle voci e aiutati dal più giovane di essi, fra Zaccaria, riuscirono a mettersi in salvo. Per buona fortuna i numerosi seminaristi avevano già fatto ritorno alle loro case già dall’ottobre del 1943 e tra essi anche don Germano che fece ritorno a Terelle attraverso una mulattiera. In seguito ospitò nella casa paterna l’archivista di Montecassino don Mauro Iguanez e 25 suore di Cassino. L’abate e i monaci abbandonarono le macerie dell’abbazia il 17 febbraio ma fra Carlomanno Pelagalli, ormai ottantenne, si smarrì e ritornò indietro per vegliare la tomba di San Benedetto. A lui, viste le precarie condizioni in cui si trovava, Karl diede una coperta e questo episodio lo ha raccontato a don Germano durante la sua recente visita a Montecassino. Proprio nel corridoio in cui essi erano rimasti momentaneamente sepolti, nei locali in cui era sistemato il Laboratorio scientifico, i tedeschi impiantarono l’infermeria, dove i polacchi, primi ad entrare nell’Abbazia, trovarono 17 soldati tedeschi malati e feriti. Fu un a vera fortuna, visti i danni causati dal bombardamento, l’intervento del capitano medico Maximilian J. Becher e del Colonnello Julius Schegel, che misero in salvo i tesori conservati nell’Abbazia, anche se alcune casse finirono in Germania, si dice in casa di Goering, come bottino di guerra insieme alla statua di San Benedetto, conservata nella Cripta. Dopo il bombardamento del 15 febbraio 1944, alla finestra dell’aula in cui prima della guerra seguivano le lezioni gli alunni del terzo ginnasio fu sistemata una mitragliatrice affidata al caporale Voelch Hermann, il quale durante quei terribili giorni fece il voto che se si fosse salvato avrebbe fatto il sacerdote. Oggi infatti Hermann è Monsignore e il 19 maggio ha celebrato la messa sul cimitero germanico di Caira e, nonostante il peso dei suoi 90 anni, è salito a piedi fino al monumento di Colle Abate a Terelle. Dopo l’abbandono di Montecassino Karl con i superstiti e il suo Maggiore arretrarono prima a Roccasecca e poi ad Arce ed in seguito finì a Rimini dove, in una trincea, due soldati canadesi, non ostante l’opposizione di un soldato di colore, lo spogliarono della piastrina, delle carte geografiche e topografiche, delle fotografie, di due film su Cassino, dell’anello, della bussola e delle medaglie. Anche Matthew Parker, nel suo libro “Montecassino” scrive che gli anglo americani quando catturavano un tedesco o ne trovavano uno morto, lo saccheggiavano. In seguito a questi atti, che si racconta venivano effettuati anche sui resti di soldati morti, è stato impossibile dare un nome agli stessi per mancanza delle piastrine e dei documenti presi come souvenir. Preso prigioniero, Karl fu portato prima a Napoli per tre settimane, poi per tre mesi in Africa e quindi per due anni in America (Arizona, California, Washington, Alaska). In Arizona i prigionieri erano circa 10.000 mila e raccoglievano cotone e furono costretti a sottoscrivere un impegno che non sarebbero scappati, cosa peraltro difficile perché attorno al loro campo c’era una zona estesissima e impervia, ricoperta di cactus dagli aculei minacciosi.
Nel 1946 finalmente tornò in Germania, si sposò, ebbe una figlia e Rudolf Bohmler gli chiese di fornirgli notizie per l’edizione del famoso testo storico “Montecassino”; lavorò in una fabbrica di aerei americani , la “Star Figther”. È tornato diverse volte a Cassino con altri veterani ed anche quest’anno, a 85 anni, ha partecipato alle cerimonie in occasione del 65° anniversario, arrivando a bordo della sua Renault e dopo aver subito un intervento oculistico e non ostante la perdita degli occhiali avvenuta in un campeggio a Roma. Dal suo amico Hermann Rapp che combattè sul Pizzo Corno è stato soprannominato “Guerriero solitario” perché Karl viaggia sempre da solo e non fa parte di gruppi o di associazioni di “ex”.
Gli ho chiesto spesso di formulare giudizi su quei lontani avvenimenti e sulla guerra in genere e lui mi ha risposto che in guerra spesso vengono date armi in mano a chi non è assolutamente idoneo ad usarle e, a questo proposito, ha ricordato che lo stesso Cancelliere Adenauer si vantava pubblicamente di non aver fatto il soldato. Ricordo che in una sua lettera, tra le altre cose, scrisse “… e mi rallegro ancora oggi e sono molto felice di essermi comportato, in tempo di guerra, nei confronti di tutte le persone incontrate, con molta sensibilità. Pertanto non sono tormentato dai rimorsi che affliggono, purtroppo, molti di coloro che hanno partecipato alla guerra”.

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