Provenzal: soggiorno a Montecassino

.

Studi Cassinati, anno 2007, n. 4

di Emilio Pistilli 

Non è frequente trovare una pubblicazione dedicata al monastero di Montecassino e della quale nell’abbazia non si trovi traccia. Mi è capitato recentemente di imbattermi in un volumetto di appena 64 pagine a firma di Dino Provenzal, intitolato “Coenobium” e pubblicato nel 1918; il libro non è presente nella biblioteca cassinese, anche se è da presumere che vi fosse nell’anteguerra e che sia poi andato distrutto con i bombardamenti del 1944: da quella catastrofe si salvarono solo la biblioteca monumentale e il prezioso archivio, portati in salvo a Roma, mentre delle migliaia di volumi (oltre 50.000) appartenenti alla biblioteca privata dei monaci, finiti sotto le macerie, si salvarono ben pochi.
La storia del Coenobium di Provenzal merita di essere raccontata; ma prima è opportuno ricordare che il nostro autore (Livorno 1877-Voghera 1972) appartiene di diritto alla storia letteraria d’Italia, sia come giornalista, sia come autore di saggi letterari, sia, infine, come autore di un importante commento alla Divina Commedia, testo per lungo tempo adottato anche nel liceo classico di Cassino e che molti ex studenti del “Carducci” ricordano.
Quel volumetto fu scritto in tredici ore in un ristorante di Cassino durante l’attesa di un treno per la Calabria, dopo un soggiorno di nove giorni a Montecassino.
Ma andiamo con ordine.
Nel mese di settembre 1917, nel dirigersi verso Catanzaro, dove era preside del locale istituto magistrale, decise di fare sosta a Montecassino.
Già altre volte, viaggiando in treno tra Napoli e Roma, aveva guardato quel monastero incombente sulla valle come un tempio della pace nel quale rinfrancarsi lo spirito: Beata solitudo, sola beatitudo!. “E un bel giorno – egli scrive – quando la stanchezza, i dispiaceri, la noia di dover accostare tanta gente sciocca e cattiva, mi strinsero l’anima in modo che credevo di morir soffocato, dissi forte a me stesso: “Vado a Montecassino”. In realtà aveva ricevuto una cortese lettera d’invito dall’abate Gregorio Diamare.
Comunicò la sua decisione a un vescovo, a un magistrato, a un professore, a due ingegneri, a una signora, a due signorine.
“Il vescovo mi osservò: ‘Badi che il vitto è un po’ scarso …’.
E il magistrato: ‘Non ci vada: son tutti tedeschi: Montecassino è una provincia prussiana’.
E il professore: ‘Se vai per lavorare, sì quell’archivio, quella biblioteca contengono dei tesori: ma se no, che ci vai a fare?’.
Degl’ingegneri, il primo mi disse ‘Stare in un luogo dove non si vedono donne neppure col cannocchiale?’. E l’altro: ‘Se ha intenzione di mangiar bene e bere meglio, ci vada: i frati, si sa … Vada, vada!
La signora, ch’è un po’ sentimentale: ‘Sì; ottima idea: si ritiri lì e scriva un bel libro tutto poesia, tutto pieno di silenzio e di mistico amore e di cielo’.
Le signorine … ma già, i discorsi delle signorine non si riferiscono.
Fatto sta che la mattina dopo presi il treno, disposto a passare alcuni giorni nella Badia non per studiare, non per scrivere, ben contento di non vedere donne, pronto a mangiare quel che mi davano, senza le paure del vescovo né le lusinghe dell’ingegnere. Domandavo alla Badia un po’ di pace così come in un foglio di carta bollata avevo chiesto al Ministero un trasferimento”.
Il nostro, prima di partire, si informò sul viaggio presso l’Associazione per il movimento dei forestieri; lì gli dissero: “Per andare a Montecassino? Mah! Si va prima a Cassino: lì probabilmente ci sarà un’automobile: o se no una diligenza: altrimenti una carrozza non mancherà. Il prezzo? Eh, è questione di offrir la metà di quel che chiedono, si sa”.
Alla stazione di Cassino trovò una carrozza e, secondo il suggerimento ricevuto, offrì la metà del prezzo richiesto; il risultato fu che il vetturino lo piantò lì, con la sua valigia, sotto un sole rovente.
Un facchino si offrì di portargli le valigie in paese, fino ad una trattoria, dove avrebbe potuto attendere quattro ore per l’arrivo di una carrozza che lo avrebbe portato su ad un prezzo conveniente. Accettò. A tavola ebbe la compagnia, per lui importuna, di due signori oltremodo ciarlieri – “Io che andavo in cerca di solitudine!” –.
Finalmente tornò il facchino in compagnia di un vetturino.
“Cinque lire va bene?” gli domandò quest’ultimo. “Era quasi la metà della metà che avevo offerto poche ore prima”.
In carrozza ebbe la compagnia di un altro passeggero, un professore universitario, “un vecchietto simpatico ed utile a me perché mi diede le notizie che mi occorrevano circa la regola e gli usi di Montecassino”.
Il viaggio durò due ore. Al monastero fu accolto dal frate portinaio, frà Marco, che lo affidò al padre priore, questi al monaco d. Mauro, addetto alla foresteria – probabilmente il futuro archivista Inguanez, che allora poteva avere 30 anni ed era addetto anche alla biblioteca –, che lo accompagnò alla cella assegnatagli. Poco dopo la campanella annunciò la cena ed egli andò nel refettorio.
“Due lunghe tavole – egli racconta –: ad una siedono l’ufficiale di posta (la Badia ha un ufficio postale e telegrafico con telefono interurbano), l’elettricista e alcuni soldati addetti all’Osservatorio. Tavola allegra, tutta gioventù: e sarebbe anche rumorosa se non fosse messa in soggezione dall’altra tavola, quella dei forestieri. Eravamo in quattro, noi: un gentiluomo napoletano fratello del Priore, un prete inglese convertito al cattolicesimo dopo essere stato per due anni pastore anglicano, il professore universitario ed io. La cena, abbondante e sostanziosa per me (forse perché non sono un vescovo) non fu allietata da una gaia conversazione: poche parole ogni tanto, seguite con attenzione dal prete inglese che anche a tavola – time is money – studiava la nostra lingua”.
I giorni trascorsi nel monastero sono descritti dal Provenzal con prosa viva e con l’acume di osservatore fine. Lì ebbe modo di scoprire gli inestimabili tesori d’arte e di storia conservati tra quelle mura, custoditi con cura dai monaci. Di particolare interesse le sue descrizioni della biblioteca, dell’archivio, della cattedrale, dell’appartamento dell’abate, dell’osservatorio, che di lì a pochi lustri sarebbero stati cancellati dalla faccia della terra.
Don Mauro gli fa spesso da guida e da anfitrione. Con lui sfoglia il libro dei visitatori, sul quale apporrà la sua firma, e dice: “do un’occhiata agli autografi: San Tommaso d’Aquino, Luca Giordano, Angelo Mai, Giovacchino Rossini e un biglietto cortese di Alessandro Manzoni che annovera tra i più bei giorni della sua vita quello in cui poté riverire l’abate di Montecassino. Guardavo la firma autografa del cardinale Ildebrando, dell’uomo che, divenuto pontefice italianissimo, tenne tre dì e tre notti scalzo sulla neve l’imperatore tedesco: e pensavo al Monastero che fu, forse, troppo umilmente devoto alla maestà di Guglielmo II”.
Nel suo soggiorno a Montecassino Provenzal non incontra mai l’abate Gregorio Diamare; infatti scrive: “Il padre di questa famiglia monastica, il Reverendissimo Abate che mi offrì, in una lettera signorilmente cortese, l’ospitalità, non l’ho mai veduto. Egli è anche vescovo di Cassino e passa molto tempo nel centro della Diocesi: nel tempo ch’io rimasi alla Badia non venne mai su”.
Molti gli episodi, spesso gustosi, che riguardano i suoi rapporti con i monaci, dei quali ci descrive la giornata e le abitudini di vita nel monastero. Andrebbero letti nel testo originale, che, purtroppo, non è più facile reperire.
Al termine del soggiorno, nell’apprestarsi a partire, si informò su come prendere il treno per la Calabria. Un monaco gli consigliò di attendere il mattino successivo quando, per tempo, avrebbe potuto prendere uno dei primi treni.
“L’informazione del monaco – egli scrive concludendo il suo volumetto – era un poco inesatta. Seppi dal capo-stazione che il treno adatto per me sarebbe giunto di lì a tredici ore. Erano le nove della mattina e dovevo aspettar le dieci della sera. O voi che vi sentite inciprignire tutto il sistema nervoso all’idea di aspettare appena cinque minuti in una stazione, credete ch’io perdessi la pazienza per così poco? La vita di convento mi aveva avvezzato alla solitudine: andai in paese, presi una stanza d’albergo, chiesi un po’ di carta e buttai giù, per distrarmi, queste note che or ora ho finito di ricopiare. Se vi siete annoiati leggendole, pigliatevela con l’ufficiale postale della Badia che non poté, fornendomi un orario, risparmiare a me la sosta ed a voi la lettura. Settembre ‘917”.
Il volumetto, con dedica a Grazia Deledda, fu stampato in molte copie e messo in vendita al prezzo di una lira: il ricavato fu destinato “ai profughi rifugiati in Teramo”2.
Una ristampa fu fatta dalla rivista “Le passeggiate di Bardolone” del 19203, anche questa ormai quasi introvabile. Varrebbe la pena farne ora una nuova ristampa perché l’opera certamente lo merita, sia perché redatta con stile elegante ed avvincente, sia perché ci fornisce uno squarcio della vita del monastero più celebre del mondo in quel tempo in cui l’Europa era sconvolta dalla Grande Guerra, da quella che Benedetto XV definì “l’inutile strage” o il “suicidio dell’Europa Civile”.

1 Dino Provenzal, Coenobium, Rocca S. Casciano, Stabilimento Tipografico Cappelli, 1918.
2 Dino Provenzal era stato preside dell’Istituto Magistrale di Teramo, oltre che quelli di Catanzaro e Siena, nonché preside del Liceo di Voghera.
3 Seconda edizione con l’aggiunta di Coenobium, 1920, Società Anonima Editrice “La Voce”, Roma, “Quaderni della Voce, n. 41.

(93 Visualizzazioni)