Studi Cassinati, anno 2007, n. 1
di Ferdinando Corradini
Trattare del fiume Liri nella nostra storia è facile e nello stesso tempo difficile: facile perché di tutte le nostre vicende il fiume è stato protagonista, difficile perché tale ruolo lo stesso ha svolto con discrezione, quasi in punta di piedi. La misura dell’importanza del ruolo svolto dal fiume ci viene fornita, in primo luogo, dal suo stesso nome.
Ad avviso di Timo Sironen il significato etimologico dell’idronimo Liri è riconducibile ad una “forma originale indoeuropea” che sta per “tratto”, “impronta”, “ruga”, “solco”. Come lo studioso finlandese ebbe a dirmi, in occasione di una delle sue partecipazioni agli scavi di Fregellae, tale significato etimologico è da porre in relazione alla caratteristica principale del Liri, che è quella di essere dotato di una portata di acqua superiore a quella degli altri corsi d’acqua della regione dallo stesso attraversata. Conseguentemente, in un’epoca, quale quella preistorica, in cui non esistevano strade e, quel che più conta, ponti, il nostro fiume veniva a costituire una sorta di “barriera” difficilmente superabile, che marcava in modo netto il territorio. Il medesimo Sironen per farmi meglio capire tale significato etimologico richiamò alla mia mente il termine “delirare”, che, alla lettera, significa “uscire fuori dai limiti” e, in senso traslato, “impazzire”.
Tale funzione di “delimitazione” svolta dal nostro fiume sul territorio trovò, per così dire, la sua consacrazione in occasione di un trattato concluso fra i Romani e i Sanniti. Nel IV secolo a. C. il primo popolo si stava estendendo verso Sud ed il secondo dal Sannio verso Nord; vennero così a fronteggiarsi nel territorio dell’attuale Lazio meridionale. Tito Livio ci narra che nel 354 a. C. fra i due popoli fu concluso un accordo, che, come hanno intuito gli storici, prese a riferimento il nostro fiume per delimitare le rispettive sfere di influenza: sulla riva destra fu lasciata mano libera ai Romani, su quella sinistra ai Sanniti. Ciò è tanto vero che, quando nel 328 a. C. i Romani dedussero sull’altopiano di Opi e, quindi, sulla sinistra del fiume Liri, la colonia di Fregellae, i Sanniti protestarono vivamente quanto inutilmente. La fondazione della colonia latina di Fregellae rappresentava nelle intenzioni dei Romani una vera e propria provocazione: cominciò così quella guerra nel corso della quale i Romani conobbero, nel 321 a. C., l’umiliazione delle Forche Caudine. Sappiamo come andarono poi le cose. I Romani sottomisero i Volsci, i Sanniti e tutti gli altri popoli dell’Italia centro-meridionale; costruirono strade e ponti e il nostro fiume perse la sua funzione di “delimitazione”.
Nel I secolo d. C. Augusto divise l’Italia in province. La I denominata Latium et Campania andava all’incirca da Roma a Salerno e aveva quasi al centro il nostro fiume. Vi è da dire che fra il Latium e la Campania vi era una zona non ben definita che veniva indicata come Latium adjectum (= Lazio aggiunto), che corrispondeva all’incirca a quella parte dell’attuale Lazio che fino al periodo fascista era ricompresa nella provincia di Terra di Lavoro e, quindi, nella Campania.
Com’è noto, l’unità politica della penisola, costruita dai Romani in tanti anni di guerre e di conquiste, si ruppe nel 568 allorché in Italia giunsero i Longobardi, che nell’Italia meridionale dettero vita al ducato di Benevento. Di tale ducato fin dall’inizio fecero parte Aquinum e Casinum, successivamente Atina. Nell’anno 702 i Longobardi di Benevento presero anche Sora, Arpino e Arce, sottraendo tali centri al ducato bizantino di Roma. Come ha evidenziato lo storico cepranese Giovanni Colasanti, che, per quanto se ne sappia, è stato uno dei pochi a studiare il nostro territorio dal punto di vista topografico, in quel periodo si formò, modellandosi sulla orografia e la idrografia, una linea di confine costituita naturalmente dai monti Ernici, che sono quelli posti alla destra del fiume Liri nella valle di Roveto; dal fiume Liri, in grosso modo nel tratto da Isola a Isoletta; dai monti Ausoni, che sono quelli alle cui pendici meridionali si trovano i centri di Pastena, Lenola e Monte San Biagio. Tale linea di confine è stata quella che, successivamente, ha delimitato lo Stato pontificio dal Regno di Sicilia e/o delle Due Sicilie e che la storica inglese Georgina Masson ha definito la frontiera che è durata più a lungo in Europa. Secondo il Colasanti tale linea segna “una divisione quasi netta nella vita, nei dialetti e nei costumi”.
Si noti come ancora oggi la stessa delimiti le diocesi di Sora-Aquino e Gaeta-Fondi, da una parte, dalle diocesi di Veroli e Sezze-Priverno-Terracina, dall’altra.
Secondo tale linea sono organizzati i distretti telefonici di Formia (pref. 0771) e Cassino (0776), da una parte, e quelli di Latina (0773) e Frosinone (0775), dall’altra.
Passiamo ad altro: oggi le macchine che producono i manufatti nelle fabbriche sono azionate dall’energia elettrica fornita da un apposito Ente. Tale tipo di forza motrice, però, nelle nostre lande, si è preso a sfruttarla soltanto a partire dalla fine dell’Ottocento. In precedenza le “macchine”, in primo luogo i molini per produrre la farina, erano azionate dall’energia idraulica dei corsi d’acqua. Notevole era l’energia fornita dal fiume Liri. Come evidenziò l’on.le Federico Grossi, in un discorso tenuto al consiglio provinciale di Caserta il 16 ottobre 1889 per perorare l’istituzione del Polverificio a Fontana Liri, ciò era dovuto al fatto che il nostro fiume nel breve tratto da Sora a Ceprano supera un dislivello di circa centocinquanta metri; in questo tratto, cioè, l’acqua del fiume ha una maggiore pressione in quanto si muove su un piano inclinato. Vi è da aggiungere, poi, che, sempre nel tratto da Sora a Ceprano, nel territorio vi sono dei “gradini” che il fiume supera con delle cascate, le quali, com’è agevole intendere, costituiscono, dal punto di vista energetico, dei veri e propri “pozzi di petrolio” senza fondo. Famose le due cascate di Isola del Liri formate dai due rami in cui il fiume si divide prima di abbracciare il centro storico della città. Più a valle, alla località Serelle, ve n’è un’altra. Un altro salto il fiume supera all’Anitrella, frazione di Monte San Giovanni Campano. Un altro si trova più a valle a confine fra il territorio di quest’ultimo Comune e quello di Fontana Liri. Vi è da dire che, all’inizio, tali salti d’acqua venivano utilizzati per azionare direttamente le macchine e, successivamente, a partire dalla fine dell’Ottocento, per alimentare le turbine, che producevano l’energia elettrica. Sta di fatto che, in corrispondenza di ognuno di tali salti d’acqua sono sorti degli insediamenti industriali, quali, ad esempio, la cartiera di Anitrella, posta alla destra del Liri e, quindi, in territorio pontificio, che è stata attiva dal 1833 al 1979. Oggi, quasi unico superstite, è rimasto il Polverificio di Fontana Liri, di cui, però, si paventa sempre più spesso la chiusura.
Fu grazie all’energia fornita dal nostro fiume che il tratto di valle da Sora a Ceprano divenne “tutto un opificio”, anzi “la Manchester dell’Italia meridionale”, com’è stato scritto. Antichissima era l’industria della lana. A Arpino è stata rinvenuta nella chiesa di S. Maria di Civita un’iscrizione del periodo romano in cui si fa espresso riferimento a Mercurio lanario, che con ogni probabilità era la divinità che proteggeva i produttori e commercianti di panni di lana. Sappiamo, inoltre, che Cicerone vantava nobili origini: addirittura da un antico re volsco. Ma in politica, nel passato come oggi, trovano ampio spazio le male lingue: fu così che un giorno un suo avversario gli spiattellò in faccia in pieno Foro: “Ma quale re volsco, se tuo padre faceva il fullone!?” Con quest’ultimo termine si indicavano appunto i produttori di panni di lana. E non è un caso, a mio sommesso avviso, che Cicerone, com’egli stesso scrive nel De Legibus, aveva la casa nei pressi del fiume Fibreno. Con ogni probabilità si trattava di una casa-fabbrica del tipo della cartiera Mancini, posta sull’isolotto formato dal fiume a Isola. Vi è da dire che un importante ruolo veniva svolto anche dal Fibreno, che è l’emissario del lago detto della Posta e che nei pressi della chiesa di San Domenico, con due distinti bracci, va a confluire nel Liri. Le sue acque, infatti, per la bassa temperatura, non favoriscono la nascita e crescita dei microrganismi animali e vegetali. Sono, quindi, particolarmente “pulite” e, conseguentemente, adatte alla “follatura”. Con tale termine si indica il processo grazie al quale i panni di lana diventano “sodi”, cioè compatti. Quando si incrociano i fili di lana, infatti, non si ha un tessuto “chiuso”, ma una trama che lascia agevolmente passare l’aria. Per “compattare” tale orditura la si immergeva nell’acqua e, poi, la si pressava continuamente con dei colpi di maglio, che era azionato dall’acqua. Ancora oggi a Carnello è possibile vedere i resti di una torre fullonica, in cui avveniva tale tipo di lavorazione: tali resti si fanno risalire al periodo romano.
È molto probabile che la materia prima per la produzione dei panni di lana giungesse a Arpino dall’Abruzzo, dove, com’è noto, erano i più consistenti greggi del regno di Napoli. Nella città di Cicerone la lana veniva lavorata e, quindi, tessuta con dei telai azionati a mano. Ultimata tale operazione, i panni venivano portati a Carnello per la follatura. Com’è agevole intendere ciò determinava degli intensi scambi e rapporti fra la valle del Liri e l’Abruzzo. A partire dagli inizi dell’Ottocento vennero utilizzati dei telai azionati dalla corrente dell’acqua: ciò determinò lo spostamento a valle di numerosi opifici. Come ha evidenziato Aldo Di Biasio nel suo La Questione Meridionale in Terra di Lavoro, nel periodo precedente all’unificazione, nella valle del Liri vi erano ben quindici lanifici con le dimensioni di grande industria, fra questi spiccavano quelli di Polsinelli, Zino, Ciccodicola e Manna. A questi quindici opifici se ne aggiungevano ancora tanti altri “senza acqua e senza motori”: solo ad Arpino se ne contavano ben trentadue. In questa città gli operai impegnati nella produzione della lana erano settemila. Nel quinquennio 1840-45, nel distretto di Sora si produssero panni di lana per complessive 320.000 canne (la canna era pari a metri 2 e cm. 11), alti dieci palmi (il palmo era pari a cm. 26,4): di cui 200.000 a Arpino, 30.000 a Sora, 40.000 a Isola e 50.000 a S. Elia (in quest’ultimo centro si sfruttavano le acque del fiume Rapido). Nello stesso periodo la produzione di panni di lana dava complessivamente lavoro dagli 11.500 ai 12.000 operai. Il lanificio Zino forniva anche i panni “color rubbio” all’esercito borbonico. Un dato balza agli occhi: nel 1850 Arpino contava 12.699 abitanti, Sora 11.298, Isola 3.905, S. Elia 4.336 e Sangermano (oggi Cassino) 7.919. Nel 1991 si sono registrati i seguenti dati: Arpino 8.006, Sora 26.089, Isola 12.794, S. Elia 6.152, Cassino 32.787.
Per mettere in comunicazione gli opifici della valle del Liri con il porto di Napoli, sul finire del Settecento, il re Ferdinando IV di Borbone stabilì di costruire la prima strada rotabile dell’odierno Lazio meridionale, che collegava la capitale del Regno, passando per Sangermano (= Cassino) e Arce, con il triangolo industriale di Terra di Lavoro, costituito da Arpino, Sora e Isola. La costruzione di tale strada, detta Consolare, ebbe delle conseguenze non solo economico-commerciali, ma anche politiche. Insieme con la realizzazione della stessa, infatti, nel 1796 il Re stabilì di abolire la Feudalità negli stati di Sora, Arpino, Arce e Aquino, tutti fino ad allora amministrati dal duca Boncompagni e tutti attraversati dalla Consolare: si prevedeva, come in effetti poi accadde, che la strada avrebbe fatto crescere l’economia della valle del Liri; si volle, quindi, liberare tale crescita dai “lacci e lacciuoli” che il Feudatario avrebbe potuto imporle. Della detta strada Consolare, ancora oggi è possibile vedere, lungo le attuali vie Casilina e Valle del Liri, quasi tutti i migli, che sono posti a 1.851 metri uno dall’altro e indicano la distanza da Napoli.
Vi è da dire che lo sfruttamento della forza motrice costituita dalle acque dei fiumi Liri e Fibreno dette luogo ad annose controversie fra i titolari dei diversi opifici. Delle stesse si trova ampia documentazione negli archivi. Alle stesse, di recente, il senatore Bruno Magliocchetti ha dedicato una ben documentata pubblicazione. Com’è agevole intendere, l’esistenza di tante fabbriche originò un forte proletariato urbano e notevoli scontri sindacali e sociali, sui quali si rinviene una pregevole letteratura. Per la sua stretta relazione con il nostro fiume, mi limito a segnalare un episodio di luddismo1 accaduto ad Isola il 28 maggio 1852. Come ha evidenziato Silvio De Majo, che ne è stato lo “scopritore”, si tratta del primo episodio di luddismo documentato in Italia. La mattina di quel giorno, nel lanificio di Angelo Polsinelli, era giunta dall’estero una macchina che sceglieva la lana “per giuoco di acqua”: in altri termini era azionata dalla corrente del fiume. Fino ad allora l’operazione della scelta della lana veniva effettuata manualmente dai dipendenti della fabbrica, in primo luogo di sesso femminile. Vi è da aggiungere che, qualche giorno prima, l’arrivo di tale rivoluzionaria macchina era stato provocatoriamente preannunziato alle operaie dal giovane figlio del direttore dello stabilimento, di nome Alessandro Dephancons, con le seguenti parole: “tra breve verrà la macchina, l’opera vostra sarà inutile ed avrò la vostra carne a tre grana il rotolo”. Allorché la macchina giunse, le operaie dello stabilimento Polsinelli, temendo di perdere il posto di lavoro, spalleggiate da alcuni operai, gettarono la macchina nel fiume. La direzione della fabbrica rispose con una serrata e con alcuni licenziamenti. Nell’immediatezza del fatto, vi furono anche degli arresti. Nella vicenda intervenne prontamente il sotto-intendente di Sora, il quale ottenne dal proprietario della fabbrica la riapertura della stessa con la riammissione di tutti gli espulsi. A seguito di più accurate indagini, venne arrestato il Dephancons, che era stato già licenziato dal Polsinelli.
L’industria della lana nella nostra valle, come tutte le iniziative industriali, conobbe degli alti e dei bassi. La stessa, però, si avviò ad un inarrestabile declino subito dopo l’unificazione italiana. Vi è da dire che tale industria poteva reggere i mercati grazie ai dazi protezionistici imposti dal governo borbonico. Tali dazi erano stati di molto mitigati nel 1848, ma furono ben presto reintrodotti dal governo napoletano allorché ci si avvide delle difficoltà in cui i produttori regnicoli vennero a trovarsi una volta messi a confronto con la concorrenza straniera. Com’è noto, nel 1860 il regno delle Due Sicilie fu conquistato da quello di Sardegna e il 30 ottobre di quello stesso anno, ad appena quattro giorni dallo storico incontro detto di Teano, la tariffa doganale piemontese fu estesa all’ex regno delle Due Sicilie. Conseguentemente i dazi protettivi furono abbassati, in complesso, di circa l’ottanta per cento “senza un lavoro di preparazione per il passaggio dall’uno all’altro sistema e senza tener conto delle differenze fra Nord e Sud”. Alle elezioni del 1861, il collegio di Sora inviò al Parlamento di Torino Giuseppe Polsinelli di Arpino, che, insieme con il fratello Angelo, in precedenza menzionato, era uno dei principali produttori di panni di lana della valle del Liri. Contro la riduzione improvvisa dei dazi doganali protestò vibratamente il Polsinelli in un memorabile discorso tenuto alla Camera il 25 maggio 1861, con il quale, “tra la generale incomprensione e ostilità”, espose la situazione in cui erano venute a trovarsi le industrie tessili napoletane: “Sa il signor presidente del consiglio – urlò in faccia al Cavour – i dolori e le perdite che hanno subite gl’industriali delle province meridionali? Sa il signor presidente del consiglio quante centinaia di migliaia di persone sono a languire dalla fame per quelle modificazioni?” Il Cavour, serafico, gli rispose che, a quel che lui sapeva, da quando era stata introdotta la nuova tariffa doganale i traffici al porto di Genova erano aumentati. La stessa cosa, però, aggiungiamo noi, non era accaduta nei porti di Napoli e di Palermo. Una dopo l’altra chiusero tutte le fabbriche che producevano panni di lana nella valle del Liri. L’ultima, che dava lavoro a 190 operai, nel 1882. Finì così una tradizione industriale, che, come abbiamo visto, affondava le sue radici nel periodo della Repubblica romana. Cinque anni dopo, per proteggere le industrie, che, nel frattempo, si erano concentrate al Nord, in primo luogo nella piemontese Biella, furono reintrodotti i dazi. Questa nuova tariffa doganale determinò la crisi della viticoltura e della olivicoltura, produzioni, queste, tipiche e preponderanti nell’Italia meridionale. Come ha evidenziato Denis Mack Smith, cominciò allora la corrente migratoria dal Sud verso l’America, “che divenne ben presto una vera e propria alluvione”.
Un discorso a parte merita l’industria della carta. La prima fabbrica di tale tipo fu impiantata nel 1519 da tal Ottavio Petrucci nel territorio di Sora, lungo il Fibreno. Vi è da aggiungere a quanto detto innanzi sulla qualità delle acque di tale fiume, che anche il suo corso, dal lago della Posta al Liri, pur non presentando dei salti, si sviluppa su un piano inclinato che conferisce una notevole pressione al suo flusso. L’industria della carta conobbe un notevole sviluppo a partire dagl’inizi dell’Ottocento. Intorno alla metà di tale secolo, gli stabilimenti si trovavano lungo i fiumi Melfa, Rapido, Fibreno e Liri, facenti parte tutti del medesimo bacino idrografico. Ricordiamo l’opificio Bartolomucci a Picinisco, quello dei fratelli Visocchi a Atina (con 110 operai), quello dei fratelli Lanni a S. Elia, le cartiere Courrier, Servillo, Lambert-Mazzetti a Isola, la Pelagalli a Arpino, quella del conte Lucernari a Anitrella, nella quale sono arrivati a trovar lavoro fino a 200 operai. Su tutte emergeva la cartiera del conte Lefèbre a Isola che, da sola, dava lavoro a 500 operai. La stessa disponeva di acqua in abbondanza, essendo situata fra il Liri e il Fibreno, disponeva di una grande quantità di carbone tratto dai boschi vicini ed era, infine, fornita di una macchina detta “senza fine”, la sola in Italia, una delle poche esistenti in Europa.
Tutte queste cartiere, esclusa quella di Anitrella, che, come già scritto, si trovava in territorio pontificio, potevano vantare una produzione complessiva media annua di circa 80.000 quintali di carta. La materia prima utilizzata per tale produzione erano gli stracci, di cui, ogni anno, venivano utilizzati 120.000 quintali. Non possiamo non evidenziare come noi, oggi, per produrre la carta tagliamo gli alberi, mentre, nel passato, si riciclavano gli stracci. La raccolta di tale materia prima, così necessaria alle cartiere, dette origine ad un florido commercio in cui si distinsero ben presto gli abitanti di Sora, i quali, per tale loro attività, si videro ben presto gratificati dell’epiteto di cinciàrë, che sta per “cenciaioli”.
In un discorso tenuto alla Camera il 27 maggio 1861, il già detto deputato del collegio di Sora, Giuseppe Polsinelli, fece presente di aver ricevuto “premure grandissime” dai fabbricanti di carta perché sollecitasse il Governo “a trovar modo d’impedire l’esportazione degli stracci”, che, come abbiamo appena visto, costituivano la materia prima da cui si produceva la carta. Nel medesimo intervento il Polsinelli ricordò ai colleghi del Parlamento di Torino come l’industria della carta della valle del Liri aveva “prosperato tanto nel passato governo (borbonico, aggiungiamo noi) che i suoi prodotti in gran parte andavano all’estero, finanche in Inghilterra ad uso del grande giornale il Times”… Bisogna dire che questa volta fu accontentato. Il Parlamento stabilì di mantenere eccezionalmente in vita il dazio di uscita sugli stracci, non solo verso l’estero ma anche verso le altre province italiane. È forse questo uno dei motivi per i quali l’industria della carta della valle del Liri è riuscita a sopravvivere fino al secondo dopoguerra.
In conclusione ricordiamo come fino all’unificazione i 2/3 dei panni di lana e della carta che si consumava nel regno delle Due Sicilie venivano prodotti nella valle del Liri e venivano comunemente chiamati “di Arpino”, dalla città capofila della produzione industriale. Le lane locali non erano inferiori a nessun altro prodotto del Regno, mentre le carte venivano finanche esportate in Grecia, Inghilterra e Francia (queste due ultime erano le superpotenze dell’epoca). Come era solito dire il compianto prof. Vincenzo Zarrelli: eravamo il Nord del Sud e non solo dal punto di vista geografico.
Non possiamo chiudere questo intervento senza ricordare che se il Liri, con i suoi affluenti, ha dato tante occasioni di vita agli abitanti del suo bacino fluviale, talvolta ha dato loro anche la morte. Ricordiamo, fra le altre, l’inondazione del 1774 che provocò lutti e rovine, in particolare a Isola. Ricordiamo l’epidemia di malaria degli anni 1879-80 nel corso della quale, nel breve volgere di sei mesi, morì il 10% degli abitanti di Aquino, Pontecorvo e Cassino.
Oggi non corriamo più questi rischi in quanto le acque del fiume sono state irreggimentate. Ma oggi le sue acque, salva qualche rara eccezione, non forniscono più l’energia per le fabbriche e neanche i pesci e i crostacei, che, nel passato, rappresentavano una notevole fonte di proteine a costo zero per le popolazioni rivierasche, né più nessuno cerca refrigerio nelle stesse durante le calure estive. Oggi il fiume non fa più né del bene né del male. Come non puó più fare né del bene né del male una persona che sia morta.
Bibliografia di massima
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1 Il luddismo fu, nel sec. XIX, un movimento operaio di avversione all’introduzione delle macchine nel lavoro perché, secondo l’inglese Ned Ludd (dal quale il movimento trasse il nome) le macchine erano causa di disoccupazione: n.d.r.
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