Il fabbro poeta

 

Studi Cassinati, anno 2006, n. 4

di Carlo Baccari

Non senza commozione m’accingo a tesser il ritratto di un operaio poeta, Francesco Acciaccarelli, fabbro ferraio di Cassino, morto a 41 anni. È una figura rimasta impressa nel cuore del nostro popolo, che lo designa ancora col titolo di poeta, Acciaccarelli.
Ed è giusto che un artista, passando innanzi ad un suo concittadino, che disgraziatamente non poté sviluppare la facoltà di poesia di cui Natura lo aveva dotato, si fermi reverente per rievocarne la memoria in questo Rapido …
Ora è la volta di un operaio a cui la vita non permise di svolgere la sua virtù del canto, di spaziare nei puri orizzonti verso cui la sua anima naturalmente era volta. Io ho innanzi qualche opuscolo stampato, e poche carte manoscritte ingiallite dal tempo, e mi sforzo su questi pochi e tenui fili di ricostruire il carattere della sua poesia e la fiamma che gli luceva dentro. Ho interrogati dei suoi conoscenti: ahimé, il suono del martello, a cui necessità di vita costringeva ad attingere il pane quotidiano, riempiva tutta la giornata dell’operaio; ed ecco la mesta ragione per cui i versi sono appena abbozzati, il concetto non è finito e il materiale è così scarso.
Non importa: resta lo sforzo di ascendere e in questo sforzo consiste la dignità della vita. Sforzo compiuto da Francesco Acciaccarelli, in solitudine e in malinconia: sono questi due i lineamenti principali del suo carattere. La sua abituale passeggiata serotina, dopo il lavoro, era la strada di Montecassino; egli si fermava a sedere dove il suo sguardo poteva abbracciare, in giro alla bella chiostra dei monti, la Rocca Ianula da un lato, il Colosseo dall’altro e, in mezzo, il corso del fiume natio, l’arborato Gari, presso cui giacciono, vilmente abbandonati, gli avanzi della Villa di Varrone. «Il mio sguardo va lontano, scorre i monti, i colli e il piano» egli canta in un’ode stampata nel 1891; e questo sguardo doveva esser un lenimento al cuore del poeta, triste e solitario per non aver potuto seguire il cammino a cui Natura lo disponeva.

O dolcissime memorie,
Sacri templi, o poesia
O sventure, affanni e gloria
Della mia città natia;
Voi soltanto confortate
La mia mente, voi sedate
La tempesta del mio cor.

Del suo paese egli è innamorato; ed è quanto mai curiosa e realistica la dipintura che egli fa della lavandaia cassinate:

In riva al fiume le pianelle gitta
E dai suoi piedi le calzette tira;
La gonna avvolge ed alza, e con la dritta
Mano la stringe ove lo sguardo aspira;
Scende nel fiume, e l’onda trasparente
Non cela la sua carne rilucente.
Curvata su d’un sasso, e le sue braccia
Spingendo e ritirando con gran lena,
Gronda sudore dalla bella faccia;
Par che si spezzi a quel lavor la schiena
Il moto penzolar fa il sen sporgente …

Facoltà di osservazione e di riproduzione è questa, perché gli uomini guardano e passano, ma l’artista guarda, e si ferma e riproduce la vita con lo strumento della sua arte speciale. Io sono costretto per necessità di spazio e per mancanza di materiale a non poter approfondire questo lato della poesia dell’Acciaccarelli; il quale del resto aveva anche una vena di umorismo sano, purtroppo soffocato dalla abituale malinconia. Dietro una nota di pagamenti è abbozzata a lapis una poesia contro una tassa di 3 centesimi imposta dal governo sul tabacco.
L’operaio se ne lagna umoristicamente «con tre soldi l’afflitta giornata a fumare digiuno passava» e il patrio Governo

Or volendo financo serrare
Questa bocca al pietoso lamento
Con centesimi tre d’aumento
È venuto il tabacco a tassar.

L’altro motivo favorito è la fratellanza e la concordia fra gli operai: ecco a questo proposito una terzina il cui ultimo verso è bello di concisione e di forza: è per un anniversario della Società Operaia nel 1896:

Esulti all’ombra della sacra insegna,
Ove è scritto: concordia e fratellanza,
Ogni alma, che d’appartenervi è degna.

In queste ingiallite carte, che ho davanti, trovo ad ogni passo l’espressione di questo sentimento, o che si rivolga ai compagni operai, o che conduca il signorotto ozioso, vizioso e tirannello – «in onta al sangue che profuse Cristo» – presso i teschi e le ossa confuse nel comune destino, o che s’attrista perché non ancora vede un Santuario della Scuola eretto a Cassino, e una gioventù forte nella palestra e sui libri, mentre i monumenti e le memorie, la Rocca Ianula, il Colosseo, la Villa di Varrone, che egli contempla dall’alto, dovrebbero essere un ammonimento e un incitamento.
Un’Ode saffica che mi duole di non poter riportare intera, attesta di questa sacra fiamma d’ideale patriottico e sociale che gli splendeva in cuore. È l’Italia che parla:

Che giova a me, se da straniera ancella
Libera in aureo soglio son tornata,
Quando l’antica fortunata stella
Miro adombrata?
Quando quel foco, che a sublimi gesta
I cori accese, estinguersi vegg’io,
E degli eroi la polve si calpesta
Con tanto oblio?
Quando i miei figli veggo a mille a mille
Abbandonarsi all’elemento infido,
E chieder pane in languide pupille
Di lido in lido?

L’Acciaccarelli moriva di consunzione nel 1896 di anni 41. Era stato eletto dai suoi compagni e dai suoi concittadini Consigliere Municipale, egli era ben degno di rappresentarli; fu anche Vice-Presidente della Società Operaia. Un fatto a cui io annetto suprema importanza, e l’ha veramente per lo studio d’un’anima e d’una coscienza, è che quando fu nominato Giurato, ei ne fu grandemente turbato; non volle; e fece il possibile, e vi riuscì, per essere esentato. Egli tremava, come dovrebbe tremare ognuno, di dover giudicare un suo simile. Ciò contrasta con l’indifferenza bestiale con cui gli stolidi incoscienti assumono il terribile incarico.
Nel firmare le sue poesie egli non tralasciava mai d’aggiungervi il suo titolo: fabbro ferraio; ciò era modestia e orgoglio insieme, per quanto la cosa possa sembrare strana. Modestia ed orgoglio sono due sentimenti che vanno pari, più di quel che non si pensi, nelle anime nobili.
L’Acciaccarelli era un operaio, a cui era stato fatto il dono della Parola, ed ei ne sentiva tutta l’importanza e l’orgoglio; ma egli non aveva studiato che la quarta elementare, e quindi non bisognava chiedergli più di quel che poteva dare: modestamente dunque avvertiva che i versi offerti al lettore erano d’un operaio e non vi cercassero troppo. È così commovente quest’aggiunta alla sua firma: fabbro ferraio! Pensate agli sforzi necessarii per giungere all’Espressione delle voci interiori; tutti gli uomini parlano, o meglio chiacchierano; ma il dono di fissare il sentimento e l’idea in sillabe rispondenti perfettamente ai moti interni, è dato solo agli eletti.
Ecco perché la poesia ha tanto fascino: essa esprime ciò che gli altri sentono soltanto, fissa e riproduce ciò che è fugace nel cuore umano. Gli studi, la cultura, gli sforzi non giungeranno mai a dare a un uomo questa virtù dell’Espressione, della Parola, ritmica, per l’istessa ragione che nessuno, se non ne ha la facoltà nativa, riuscirà mai a scrivere una sola frase musicale, studiasse musica tutta la vita.
D’altra parte senza lo studio il dono resta allo stadio d’inerzia, come le cose non usate irruginiscono e periscono. Il povero operaio curvava il capo sulla quotidiana fatica; la sera leniva la stanchezza nella contemplazione solitaria delle sue belle montagne; e la notte toglieva qualche ora al sonno per darla alla lettura. Il suo autore preferito era il Tasso. Mancanza di tempo, mancanza di studio: una giornata, una vita, un dono divino erano così consumati dalla Necessità. Tutto ciò commuove profondamente. Ma sia onore allo Spirito che si sforzava di rompere la stretta ferrea della Necessità per salire a una superior vita spirituale: che importa che non abbia toccato la vetta? che importa che la sua ala non si sia potuta dispiegare al volo? La sua umile vita fu pur nobile per lo sforzo compiuto all’ombra della insegna dell’Ideale: per questo dinanzi alla sua mesta figura deve inchinarsi

Ogni alma, che d’appartenervi è degna.

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