L’eccidio di Cefalonia: memoria dimenticata e tradita Il diario postumo di Antonio Galasso

 

Studi Cassinati, anno 2006, n. 3

di Fernando Riccardi

Estate 2006: Cefalonia, splendida isola greca nello Ionio dove il mare cristallino e le aspre montagne si fondono in un tutt’uno di incomparabile bellezza. In una torrida mattina di agosto, seguendo le scarne indicazioni nel centro di Argostoli, mi affanno per raggiungere il mausoleo della divisione Acqui. Dopo un lungo, tortuoso peregrinare, finalmente, giungo a destinazione. Sulla sommità di un’esile altura, poco distante da Capo San Teodoro, in un piccolo spazio delimitato da una austera cancellata in ferro, quasi all’improvviso, si materializza la stele marmorea che l’Italia volle dedicare ai suoi soldati trucidati dai tedeschi in quel nefasto settembre del 1943. Uno spiazzo pietroso consente di parcheggiare l’automobile; il silenzio regna sovrano. Si ode soltanto l’ininterrotto e fastidioso frinire delle cicale. Una vegetazione lussureggiante sulla quale troneggiano splendidi esemplari di pini marittimi, impedisce di guardare oltre, verso il mare, così poco distante che se ne avverte il respiro. All’interno del recinto tutto è in ordine, ogni cosa è al suo posto; persino i fiori sono così freschi che sembrano appena colti. Eppure il sole picchia di brutto con il suo insolente calore. Mentre mi soffermo sul lastricato in compunta meditazione, sento una vettura che si ferma; sono troppo assorto per voltarmi e così rimango immerso nelle mie vaghe reminiscenze scolastiche. Un passo stanco ma ben cadenzato mi richiama alla realtà; non ho neanche il tempo di girarmi che una voce flebile ma decisa mi dice “grazie”. E poi, in rapida successione: “Grazie per essere venuti qui dalla nostra bella Italia e soprattutto grazie per non esservi dimenticati di noi”. Come per incanto al mio fianco appare un signore con i radi capelli bianchi, settant’anni e più, dal chiaro accento romagnolo, con il volto increspato dalle lacrime. Lì per lì rimango sbigottito e non riesco ad articolare parola. Egli, però, comprende il mio impaccio e mi spiega: “Nel settembre del 1943, qui, a Cefalonia, i tedeschi hanno ammazzato a sangue freddo mio padre e mio zio. Di mio padre il corpo non è stato mai ritrovato. Quella tragedia familiare ha profondamente segnato la mia esistenza. E così, ormai da anni, trascorro più tempo qui che in Italia. I martiri di Cefalonia hanno bisogno di me, della mia opera. Sono diventato infatti il custode del mausoleo e della fossa. Ogni giorno che il buon Dio manda vengo di buon mattino a fare le pulizie, ad annaffiare le piante, a cambiare i fiori. E ogni giorno ho la fortuna di incontrare turisti italiani in meditazione e in preghiera. È una sfilata ininterrotta e ciò mi riempie il cuore di gioia: significa che in Italia non si sono dimenticati di noi”. L’improvvisa apparizione mi lascia interdetto; poi, però, quelle parole mi scuotono dal torpore richiamando alla mente lo scopo del mio viaggio, lì, ad Argostoli, a pochi passi dalla “fossa” e da quella “casetta rossa” che tanti lugubri ricordi rievoca. E così finalmente riesco a guardare meglio il mio interlocutore e lo trovo quasi buffo nelle sue vesti così dimesse, stranamente sporche di vernice bianca. Avvedendosi del mio stupore il brav’uomo ha un sussulto, mentre un tenue sorriso appare sul suo volto mesto: “Deve sapere che io faccio anche il pittore. In questo momento sto dipingendo tre cippi di pietra laggiù, nella fossa, con i colori della bandiera italiana. Mi sono stancato, infatti, di issare sulla cancellata il tricolore di stoffa che, non so per quale motivo, sparisce sempre. Quest’anno poi abbiamo vinto il mondiale e perciò figuratevi se lo lasciavano lì al suo posto…”. Mentre sto per profferire parola, nel frattempo una coppia di anziani coniugi baresi si è unita a noi, il signore aggiunge: “Non potete andare via senza aver prima visitato la fossa, là dove i tedeschi hanno ammassato centinaia di corpi di ufficiali italiani fucilati alla casetta rossa. È poco distante da qui; per favore andateci”. Detto questo mi abbraccia calorosamente e mi ringrazia ancora una volta con le lacrime agli occhi. Quindi entra nella sua autovettura e sparisce tra i tornanti con la stessa rapidità con la quale era comparso. A quel punto non posso non seguire le sue indicazioni e così mi reco alla “fossa”. Qui giunto non faccio fatica ad immaginare quei poveri soldati crivellati dai colpi, gettati alla rinfusa nella grotta calcarea sulla quale campeggia una modesta lastra di marmo a ricordo dell’eccidio. E in alto un gigantesco pino cui sembra essere stato affidato il compito di vegliare silenzioso sulle povere anime dei militari della divisione Acqui. Anche qui, in questo piccolo angolo di Italia, all’interno del recinto, tutto è in ordine, tutto è a posto. Il solerte custode è inappuntabile nel suo paziente lavoro di pulizia e di manutenzione giornaliera; restano solo da dipingere gli altri due cippi di rosso e di verde, mentre il bianco è già ultimato. E così finalmente la lugubre “fossa” avrà la sua bandiera indelebile e perenne. Tricolore che dovrebbe campeggiare ben visibile anche su quel muro della “casetta rossa” che tanto sangue italiano ha visto versare: lì, infatti, i tedeschi hanno fucilato la gran parte degli ufficiali della Acqui. A distanza di tanti anni e dopo il terribile terremoto del 1953, quella parete intaccata dalle pallottole non esiste più. Tutto è svanito con i crolli e con essi la stessa palazzina ormai completamente ristrutturata. Come, del resto, il faro di Capo San Teodoro, lì vicino, trasformato in un discutibile monumento di stile neoclassico. Il sisma, però, pur rovinoso e devastante, non è riuscito a cancellare la memoria di quei giorni, di quel settembre del 1943 che ha visto il martirio di migliaia di soldati italiani, di quelli che il generale Antonio Gandin, discusso comandante della divisione Acqui, chiamava “figli di mamma”. Nell’immediato dopoguerra, malgrado la costituzione di due apposite commissioni d’inchiesta, vi fu da parte del nostro governo la persistente volontà politica di gettare un impenetrabile velo di oblio sulla mattanza di Cefalonia: in un periodo di “guerra fredda” tra blocchi contrapposti non si volevano creare perniciosi dissidi all’interno della Nato, organismo che vedeva seduti allo stesso tavolo Germania e Italia. Ma, in verità, la “dimenticanza” è andata ben oltre; basti pensare che soltanto nel 1980 l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, si scagliò con veemenza contro quella che ebbe a chiamare “la congiura del silenzio”. Neanche questo poderoso rigurgito di onestà storica, però, riuscì a smuovere le acque stagnanti del ricordo. Dovrà trascorrere ancora un ventennio per vedere Carlo Azeglio Ciampi recarsi a Cefalonia a commemorare i caduti della divisione Acqui: si era nel 2001, a distanza, quindi, di ben 58 anni da quei fatti. Ma, ad onta del marcato disinteresse e dello scorrere impietoso del tempo, la morte di migliaia di soldati italiani in quella amena isola del mar Ionio, non è stata dimenticata. E ciò è avvenuto soprattutto grazie alle tante, innumerevoli, drammatiche testimonianze di chi quei momenti li ha vissuti in prima persona. Di chi ha sperimentato sulla propria pelle il terrore di essere messo al muro dai soldati tedeschi e di finire, come tanti altri commilitoni, crivellati di pallottole. Il merito di quei pochi scampati al massacro (poco più di 2.000 su 11.700 i superstiti) è stato quello di non essere rimasti con le mani in mano, di non essere stati zitti, di non aver emulato, insomma, il comportamento colpevolmente omissivo dei nostri governanti alle prese con “superiori interessi”. Tornati in patria, rimarginate le ferite fisiche ma non certamente quelle interiori rimaste indelebilmente scolpite nei loro cuori, hanno preso carta e penna e, sia pure con stile, in modi e in tempi diversi, hanno raccontato la loro esperienza, il loro calvario, lì a Cefalonia, in quel caldo ma tragico settembre del 1943. Sono venuti fuori decine di diari, di memorie, di ricordi, forse non sempre precisi e storicamente inappuntabili, specie per ciò che concerne la ricostruzione dei fatti e delle date, ma tutti egualmente freschi, vivi, palpitanti di emozioni, di passioni, di paure, di speranze così drammaticamente disattese. Uno di questi “lavori”, pubblicato postumo per la prematura scomparsa dell’autore, è il diario di Antonio Galasso, nativo di Sant’Andrea sul Garigliano che, nel settembre del 1943, ha avuto la sfortuna di trovarsi proprio a Cefalonia: era, infatti, sottotenente del 17 rgt. fanteria della divisione Acqui e aveva il comando di una postazione di cannoni anticarro collocata a Sami, piccolo centro portuale, a circa 30 km da Argostoli, la città più importante dell’isola. Il nostro, quindi, ha vissuto da vicino tutte le fasi di quella tragica parentesi: da quel fatidico 8 settembre, quando giunse la notizia dell’armistizio con le truppe anglo-americane firmato dal generale Badoglio, alle convulse fasi delle trattative con i tedeschi, ai giorni della guerra con gli antichi alleati, al momento della resa e, infine, al dramma delle esecuzioni di massa, lì nei pressi di Capo San Teodoro, di fronte alla “casetta rossa”, dove gli ufficiali della Acqui subirono l’atroce martirio. Antonio Galasso, scampato miracolosamente all’eccidio, tornato dopo tanti mesi in Italia (sbarcò a Taranto il 10 dicembre 1944), dopo aver girovagato lacero e affamato fra i monti della Grecia, decise di annotare quelle sue peripezie, quegli eventi che aveva vissuto, quelle situazioni nelle quali, suo malgrado, era rimasto coinvolto. Egli, come osserva Emilio Pistilli nella prefazione dell’opera stampata postuma, “non ha inteso esaltare una parentesi della propria vita, non ha cercato di vestire i panni dell’eroe indomito dei racconti di guerra: ha scritto per sé, per ricordare, tutto al più per far conoscere ai suoi cari quelle tristi vicende che lo hanno coinvolto e lo hanno cambiato…”. È venuto così fuori un “diario” originale, prezioso, pieno di spunti interessanti e in gran parte inediti. Sembra quasi di leggere un romanzo pieno di colpi di scena, avvincente, dove il protagonista riesce sempre a farla franca, sia pure, a volte, per il rotto della cuffia, e a giungere, infine, sano e salvo alla meta. E, invece, quelli raccontati dal sottotenente Galasso sono accadimenti veri, reali, così come vero, reale e drammatico é stato l’eccidio di Cefalonia. Per tanto tempo questo diario è rimasto serrato in un cassetto; poi la vita ha deciso diversamente. Nel 1968, infatti, a soli 48 anni, Antonio Galasso veniva improvvisamente a mancare e con lui le sue “memorie”. Almeno fino a quando i familiari, la moglie Ada e i figli Bruno e Tullia, si sono decisi ad aprire quel cassetto e ad estrarre quei fogli ingialliti dal tempo. Dopo un attento lavoro di riordino e di sistemazione, finalmente, nel 1994, ricorrendo il 50° anniversario della liberazione, per espresso volere della famiglia, il diario di Antonio Galasso veniva pubblicato con il patrocinio dell’amministrazione comunale di Cassino.
E così un’altra lacuna veniva colmata; un altro tassello è stato introdotto nel grande puzzle della memoria e del ricordo. E Dio solo sa quanto la vicenda di Cefalonia ne aveva bisogno! Di recente il massacro dei soldati della divisione Acqui è tornato, improvvisamente, di attualità. Un oscuro procuratore di Monaco di Baviera, infatti, ha deciso di archiviare il procedimento penale nei confronti dell’ex sottotenente Otmar Muhlhauser, unico imputato dell’eccidio di Cefalonia, peraltro reo confesso. L’arzillo vecchietto, 86 anni ben portati, che vive a Dillingen, tranquilla cittadina della Svevia, ha seraficamente ammesso di aver ordinato la fucilazione di centinaia e centinaia di soldati italiani tra cui lo stesso comandante della divisione, generale Antonio Gandin. Egli però, secondo la magistratura bavarese, non è più perseguibile: nel codice tedesco, infatti, il reato di omicidio si prescrive dopo vent’anni se non è aggravato da “vili motivi”. E a Cefalonia non c’erano state, forse, queste “vili” motivazioni? Secondo l’inflessibile procuratore Stern assolutamente no: ed è proprio questo che suscita rabbia, sdegno e scalpore. Il magistrato, infatti, nell’atto di proscioglimento di Muhlhasuer, scrive candidamente che “i soldati italiani non erano prigionieri di guerra ai quali spettasse un trattamento riguardoso… Inizialmente erano alleati dei tedeschi, poi si sono trasformati in nemici combattenti diventando così dei ‘traditori’, per usare il gergo militare. È come se parti delle truppe tedesche avessero disertato e si fossero schierate con il nemico”. Perciò la mattanza di Cefalonia, pur riprovevole, è stata “giuridicamente e militarmente corretta”.
A questo punto che dire ancora e di più? Smaltito il poderoso attacco di bile, e non sarà certo cosa semplice, non resta che confezionare un bel pacchetto ed inviarlo senza indugio al distinto procuratore Stern, in quel di Monaco di Baviera. Chissà se l’attenta lettura del “diario” del sottotenente Antonio Galasso, in forza al 17° rgt. fanteria della Divisione Acqui, a Cefalonia, avrà il potere di incrinare le sue granitiche convinzioni, tutte così tipicamente teutoniche …

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